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Anton Giulio Barrili
Con Garibaldi alle porte di Roma: 1867

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XII.

 

Sul monte Sacro. Favola antica e storia moderna. La mia bella giornata.

 

Garibaldi è là in piedi, sul colmo della collina, intento a guardare tutto intorno, con gli occhi leonini socchiusi, eppure sfolgoranti sotto le ciglia aggrottate. Non è di cattivo umore, per altro; se fosse, avrebbe il cappello tirato sugli occhi. Qua e là, solitarii in contemplazione, o raccolti a crocchi, gli ufficiali del quartier generale, dello stato maggiore, e dei battaglioni genovesi; da quindici a venti persone. Sulla destra, in lunga fila appiattati, i due battaglioni che ho detto, un po' smilzi, cinquecento uomini in tutto, i cui avamposti arrivano laggiù, sotto il ciglio della collina, in vista del ponte Nomentano. L'insidia è tesa, se a qualcheduno venisse voglia di farsi avanti, attratto dall'esca di quelle quindici o venti persone in piedi sul poggio, e lontanamente visibili. Certo, di contro a forze considerevoli, quell'agguato di cinquecento uomini sarebbe povera cosa; ma c'è indietro dell'altro; c'è il grosso dell'esercito, dietro le colline donde noi siamo venuti; le colonne di Menotti e del Frigésy hanno le loro avanguardie in certe piccole macchie, che si vedono a tramontana, forse quattrocento metri più indietro.

Lo spettacolo, intanto, è maraviglioso di lassù. Vedo davanti a me, oltre la linea serpeggiante dell'Aniene, distendersi una campagna arsiccia, in parte coltivata, sparsa di radi edifizi, orlata nel fondo da masse d'alberi e di non bene distinti edifizi, forse di ville signorili, o di abitazioni suburbane. Là dietro è Roma, l'eterna città, riconoscibile da pochi tratti monumentali e solenni: una fila d'archi, a sinistra, l'acquedotto di Claudio; poco lontana da quegli archi una gran mole quadra, listata di colonne, sormontata da statue, San Giovanni Laterano; più in là, sulla destra, una cupola immensa, coronata d'un globo dorato, San Pietro; finalmente, all'estrema sinistra, l'eminenza di monte Mario, con la sua piantata di cipressi, che dà l'immagine d'un manipolo di cavalieri in vedetta. La gran scena è tutta circonfusa di quella luce rosea, vaporosa e calda, che è una bellezza propria della campagna romana.

Mentre io sto contemplando quello spettacolo così nuovo per me, una mano mi si posa sulla spalla; e subito dopo una voce dolcissima, che ben riconosco, mi dice:

- Sapete dove siamo?

- No, generale, vedo questi luoghi per la prima volta.

- sul monte Sacro.

- Ah! - esclamai. - Per monte, tuttavia, è un po' basso.

- Agli occhi del capo, ve lo concedo, - rispose Garibaldi, sorridendo; - non già a quelli della storia. Qui il senatore Menenio Agrippa raccontò la sua favola dello stomaco e delle membra ribellate, persuadendo la plebe ammutinata a ritornare in città. Qui, secondo alcuni, e non sulla strada Latina, Marzio Conciano si accampò coi suoi Volsci, e vinto dalle preghiere della madre Veturia levò l'assedio dalla sua patria.

- E noi, generale, se la domanda è lecita, - osai dire, - che cosa ci faremo?

- Una breve fermata, io spero; - rispose il generale. - Aspettiamo un segnale di là; - soggiunse, dopo un istante di pausa, accennando davanti a sè, verso San Giovanni Laterano. - Appena il segnale sia dato, intenderemo che la insurrezione è scoppiata in città; passeremo l'Aniene, e ce la faremo a correre.

- Intendo; - diss'io. - Ma non ci sono le mura, che ci tratterranno, così pochi come siamo?

- Le mura son rotte, laggiù; - replicò egli, indicando l'acquedotto di Claudio. - Tra vigne e orti, si può entrare benissimo. -

Avevo già indovinata la mossa fin dalla sera innanzi, a Castel Giubileo; e là, finalmente, ne avevo la conferma dalle labbra del grande capitano, fatto per onorare il monte Sacro assai più di Coriolano e di Menenio Agrippa; sia detto con buona pace di quegli antichissimi personaggi. Si aspettava dunque il segnale. Passò un'ora, ne passarono due, ma il segnale non venne. Vennero bensì due ricognizioni nemiche, simultaneamente, una da manca e l'altra da destra. La prima indicata da una sequela di punti grigi, nei quali non tardammo a riconoscere il reggimento degli zuavi pontifici, si stese oltre la via Nomentana, lentamente, con poca intenzione di avvilupparci, forse temendo di essere avviluppata. La seconda, tutta di punti neri, si avanzò guardinga, ma con più risolute intenzioni, sulle colline dalla parte di ponte Molle, venendo con le avanguardie in quadriglia fino al colmo di una eminenza, a duecento metri da noi. Riconoscemmo allora i cappottoni della legione d'Antibo.

Le disposizioni di Garibaldi furono poche e semplicissime. Al reggimento degli zuavi non oppose alcun nerbo di forze, solo ordinando al maggiore Guerzoni di tener dietro ai loro movimenti, piantato un po' più in là, con un cannocchiale da campo. Alle ardite quadriglie antiboine volse la sua attenzione egli stesso. Si avanzavano sempre, si avanzarono fino a cento metri, non di più, dalla tranquillità nostra argomentando l'insidia. Per tastarci, incominciarono da quella distanza a tirare. I nostri avevano ordine di non muoversi, di tener bassi i fucili, di non far vedere neanche la punta delle baionette di sopra al ciglione.

- Li aspetteremo a venti passi; - diceva Garibaldi; - e allora daremo dentro tutti quanti. -

Le quadriglie antiboine non fecero un passo di più; parevano inchiodate al terreno. Solo davanti a loro, o per mezzo, si muoveva correndo un bel cane spagnuolo, evidentemente felice come tutti i cani in guerra, che partecipano con tanto ardore, e sto per dire più dei cavalli, alle forti commozioni della battaglia. Il fuoco era aperto, ma durava senza merito, poichè nessuno di noi rispondeva, Fischiavano e gnaulavano le palle; quasi tutte troppo alte, passando; alcune troppo basse, ficcandosi nel terreno davanti a noi, o daccanto; nessuna toccando il bersaglio, che in quindici o venti offrivamo. E certo gli Antiboini avevano riconosciuto Garibaldi, poichè intorno a lui la gragnuola era più spessa. Un ufficiale di quella gente, da noi distinto benissimo, si fece dare da uno dei suoi soldati il fucile, puntò lungamente e sparò, anch'egli fallendo il colpo, e guadagnandosi un sorriso di commiserazione. Garibaldi, che era stato un pezzo guardando i tiratori col cannocchiale, si avanzò di alcuni passi fino alla linea dei pini, e gridò loro con voce stentorea:

- Vous étes ties conscrits; vous ne savez pas tirer. Vous étes des conscrits, - ripetè ancora parecchie volte, rinforzando la voce, forse con la speranza che il sarcasmo li ferisse, invitandoli a farsi sotto, dove egli avrebbe voluto.

Ma il sarcasmo non li ferì, o se li ferì non bastò a farli scattare. Continuavano a scattare, in quella vece, i loro fucili, con sempre inutili tiri; e la musica era già molto durata, quando si avanzò Stefano Canzio.

- Senta Generale; - diss'egli. - Vuol proprio che imparino, tirando su Lei? Venga qua, la prego, un pochino, più indietro, al riparo di quel pagliaio. Per quello che vuol fare, se ci sarà da farlo, - soggiunse, con un'accorta restrizione che mostrava la sua poca fede in certe notizie, - non è mica necessario che Lei stia qui a far da bersaglio ai coscritti. -

Sorrise il Generale, gradì la celia, ma non si volle muovere di là. Forse pensava che quello era il giorno del fato, e che bisognava commettersi al fato. Egli accettò in quella vece di sedersi e di far colazione, finalmente, alle due dopo il meriggio, mangiando un pezzo d'arrosto freddo, rilievo di pranzo o di cena del giorno antecedente, rinvoltato in una pagina del piccolo Movimento di Genova.

- Ne volete? - diss'egli a me. - Senza complimenti.

- No, grazie, generale; non ho pane. - Oh, già! - soggiunse egli, ridendo. - Volete sempre il pane, voi altri. In America non ne vedevamo quasi mai, e c'eravamo abituati benissimo. Ogni legionario portava il suo spicchio di carne infilzato sulla baionetta, se lo arrostiva alla prima fermata, e se lo sgranava senza aiuto di pane.

- In America, sì; - replicai. - Ma noi siamo in Italia, e nel Lazio.

- Che cosa vuol dire?

- Che Cerere è dea latina, -

Egli mi aveva dato tre ore prima un cenno classico; io gliene davo un altro, che parve averlo vinto.

- Avete ragione; - conchiuse.

E mangiò tuttavia senza pane il suo spicchio di carne rifredda. Cioè, intendiamoci, non lo mangiò tutto: ne lasciò mezzo, che rinvoltò nella pagina del giornale, e consegnò al suo attendente. Doveva essere la sua cena, quel povero avanzo. Di bere non si parlò neanche; forse gli bastava un sorso d'acqua, accettato al casale della Cecchina. Garibaldi, come sapete, non beveva mai vino. Solo dopo il '60 aveva fatta una piccola concessione al Marsala, prendendone un dito, nelle occasioni solenni, certamente per grato animo ai sacri ricordi del suo sbarco in Sicilia.

Il fuoco antiboino continuava, sempre con lo stesso esito di vana molestia. E frattanto, nessun segnale da Roma. Il viso di Garibaldi cominciò a rabbruscarsi, la falda del suo cappello a calarsi sugli occhi.

- Che cos'hanno quei seccatori? - esclamò egli ad un tratto.

Noi prendemmo coraggio a domandargli il permesso di rispondere con qualche colpo.

- Purchè sia bene assestato; - rispose, assentendo col gesto. - Trovate quattro o cinque buoni tiratori, e andate ad appostarli laggiù, verso la falda della collina. -

Obbedimmo prontamente. Cinque tiratori, dei meglio armati, scelti nei due battaglioni, furono collocati dove il Generale aveva consigliato. Una piccola siepe di rovi li nascondeva al nemico. Presero essi a tirare, puntando con calma, e cinque colpi bene aggiustati mostrarono che nelle nostre file non erano coscritti. Le quadriglie balenarono, risposero ancora due o tre colpi, poi si ritrassero, portando i loro feriti; e l'ufficiale e il suo cane sparirono con esse dietro una ondulazione del terreno.

Un quarto d'ora dopo, ad una insenatura della collina, vedemmo la legione tutta quanta ritirarsi,nella direzione di ponte Molle. In pari tempo si ritirava dall'altra banda il reggimento degli zuavi. Eravamo rimasti padroni del campo: ma per che farne? Ahimè, niun segnale da Roma.

Si stette ancora un pezzo a passeggiare, a far capannelli, a discorrere, amici da anni, amici da un giorno, che ci vedevamo là, e forse, tolti di là, non ci saremmo veduti che a punti di luna, o mai più. Ricordo che un Galoppini, di Spezia, capitano nel primo battaglione genovese, m'insegnò a fumare senza tabacco, caricando la pipa col caffè: due o tre chicchi tostati, rotti tra le dita, si mettevano nel fondo della campana; tutto l'altro era caffè macinato; e ne usciva una fumata aromatica, eccellente, alla gloria di Roma. E ricordo ancora che la mia pipata destò l'invidia di un ufficiale spagnuolo, certo De Roa, venuto con altri suoi connazionali, esuli dalla patria, nel seguito di Garibaldi. Il simpatico giovane possedeva ancora un libriccino di papel de fumo; ma gli era mancata la foglia, e sperava di averla da me. Lo disingannai, mostrandogli un involtino di caffè macinato, che mi aveva regalato il collega; ma anche lo resi felice, dandogliene tanto da farsi quattro o cinque involtate per i suoi papelitos.

Così fumò anch'egli, il bravo De Roa, bellissimo brunetto, cavalleresco e prode, che seppi poi ufficiale d'ordinanza del generale Prim, e morto più tardi nella guerra contro i Carlisti. Sia pace alla sua bell'anima: per intanto, egli fece nobilmente il suo dovere a Mentana. E non poteva capire come si potesse dare indietro altrimenti che al passo. Nella terza fase della battaglia, quando nessuno più valse, nè Menotti, nè Canzio, nè Frigésy, a fermare certe giovani schiere che erano state colte da un panico strano, e mentre Garibaldi, fermo a cavallo sulla strada, fremeva di tanta codardia, mettendo lampi di sdegno dagli occhi fulminei, avvenne al De Roa di sciabolare un soldato che si era buttato a terra, contorcendosi nello spasimo della paura e gridando: "chi me l'avesse mai detto!" E non voleva lasciare il fucile, quel pauroso, stringendolo forte tra le mani convulse, non sentendo le piattonate, non sentendo i rimbrotti. Garibaldi calò le pupille un istante, a guardare la triste scena; pensò, torse le labbra, poi levò la mano in atto solenne, dicendo al concittadino del Cid:

- Eh, lasciatelo stare! -

Fu grazia della vita allo sciagurato, ma fu anche una sentenza peggior della morte, se quel convulsionario l'ha intesa. Che orrore per lui, se vive ancora e ne conserva memoria!

Ritorniamo al monte Sacro. Verso l'imbrunire fu deciso di dar volta a Castel Giubileo, donde la mattina eravamo partiti con tante speranze. Garibaldi aveva un messaggio da Roma: niente da sperare, là dentro, dove in quel medesimo giorno erano giunti i Francesi a sostegno del poter temporale. Per questo fatto le cose prendevano una piega diversa. Bisognava far testa a Monterotondo, l'ultimo punto a cui giungesse la strada ferrata, donde potevamo aver munizioni e vettovaglie, dove, infine, si sarebbero presi i provvedimenti opportuni per proseguire la guerra. Il Generale ordinò che si facessero fuochi sul monte Sacro, per simulare un bivacco; noi dell'avanguardia restando in retroguardia, dovevamo tenere la posizione fino a tanto il piccolo esercito non fosse tutto avviato, fuori da quel labirinto di colline. Per intanto, rompevamo le staccionate dei prati, e facevamo cataste di legna intorno ai giovani pini che fiancheggiavano la carraia. A quelle cataste, essendo venuta la notte, appiccammo subito il fuoco: un'ora dopo avevamo l'avviso di poterci mettere in marcia. Un panico notturno, per lo scontro di due colonne, una delle quali aveva smarrito il sentiero e pareva venire dalla parte di ponte Molle, fece correre qualche fucilata. Ne seguì naturalmente un po' di scompiglio. Il maggiore Burlando, giustamente interpetrando l'ordine che avevamo di proteggere la ritirata, pensò che la cosa non potesse farsi a dovere, se non ritornando tutti noi della retroguardia sui nostri passi. Fummo in mezz'ora al nostro accampamento del monte Sacro, tra le cataste che ardevano, malinconicamente sole.

Io pensavo ai bei stratagemmi dei fuochi notturni con cui s'ingannano gli eserciti moderni, come s'ingannavano gli antichi, e cercavo di ricomporre nella mia memoria il quadro dei sarmenti accesi a Casilino, nella guerra tra Cartaginesi e Romani. Ma chi li aveva accesi? Annibale, o Fabio Massimo? Lì per lì, non sapevo. Ma altri pensieri vennero a distornarmi piacevolmente da quella ricerca erudita ed infruttuosa. Pensai di fatti che la mia bella giornata l'avevo avuta, ed intiera. Le tenebre regnavano intorno a noi, tanto più fitte nello sfondo della scena, quanto più vivi sul primo piano rosseggiavano i fuochi. Ma la giornata era stata singolarmente luminosa: rivedevo la campagna pianeggiante di là dall'Aniene, seminata d'illustri rovine, l'acquedotto Claudio, San Giovanni Laterano con la sua ordinanza aerea di statue, la cupola di San Pietro col suo globo d'oro, monte Mario coi suoi negri lancieri in vedetta, tutta la prospettiva della eterna città circonfusa d'una rosea luce vaporosa, traente all'oro, come nelle glorie dei quadri antichi. Giornata inutile ad altri, che misurano ogni cosa dagli effetti ottenuti; ma non inutile a me, che l'avevo goduta! E pensai che fosse stata fatta unicamente per me; ne fui grato a Garibaldi; gliene sarò grato fin ch'io viva, perchè veramente fu la prima e sarà certamente l'ultima giornata bella della mia vita; con lui, davanti a lui, senza folle importune a levarmene la vista; vicino a lui nel pericolo lungo, nel pericolo dimenticato tra i lieti ragionamenti, che mi parvero pregustazione dei colloquii d'Eliso; vicino a lui nella speranza, infine, e nel pieno gaudio dell'essere. Viva Garibaldi! e il monte Sacro abbia il più sacro dei miei ricordi, per lui.

 

 

 




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