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Francesco Domenico Guerrazzi La battaglia di Benevento : storia del secolo 13. IntraText CT - Lettura del testo |
Egli ha pallido il volto, e gli occhi fieri;
E in tutti gli atti, e movimenti suoi,
Del terribil vieppiù che dell'umano.
Venite, ed ammiriamo le glorie della creazione su le ultime sponde dell'oceano. Ecco, egli riposa della quiete del lione; nessun vento osa turbare la sua azzurra superficie, nessuna onda gemere tra gli scogli: - sembra uno specchio, nel quale il firmamento goda riflettere i suoi tesori. L'occhio dell'uomo si sprofonda lontano lontano in cerca di un confine che la debolezza della sua conformazione ha impresso nella sua vista, ma che l'oceano non ha conosciuto giammai: - lo sguardo si perde sopra la moltitudine delle acque, e finalmente è costretto di abbassarsi alla terra, mentre lo spirito freme alla idea che la creta non sia capace di sostenere la contemplazione degli elementi; - siccome appunto l'anima temeraria che ardisce di volere penetrare dentro la nuvola che circonda il soglio dell'Onnipotente, dopo un lungo travagliarsi di abisso in abisso nel mondo intellettuale, sviene soverchiata dalla grandezza della immagine, logora dalla meditazione, vinta dalla certezza che l'Eterno non può esser compreso dalla forma destinata a morire. Questo è il riposo dell'oceano: e pure il pianeta della vita e della luce pare che gli si accosti tremando, come il supplichevole al trono del Signore, - le più volte pallido e senza raggio: ed egli lo assorbe nello sterminato suo seno, non altramente che la terra riceve la creatura divenuta cadavere.
Ma quando il cumulo delle acque, furiando imperversato, quasi che fosse ansioso di ricuperare l'antico dominio (però che la terra emerse dal profondo del mare al comando di Dio)48, si precipita a flagellare i confini del mondo, dove trova l'insuperabile argine, e il solo degno di sommettere la sua spaventosa potenza, - la parola del Creatore, che lo respinge indietro: ma quando rotolandosi per l'ampiezza del suo spazio travolge il naviglio che incontra nel corso fatale, onde il nocchiero disperato di ogni umano soccorso guarda il cielo, ed il cielo gli si mostra minaccioso, - questi non ha più scampo, il flutto che vede agglomerarsi da lungi deve eseguire la sentenza di morte che la natura ha pronunziato contro di lui; allora tra i pensieri della vita futura s'insinua tristamente la rimembranza della sua famigliuola che gli strazia le viscere: - e i figli? - e la moglie? - dorme ella? - su lo stridore dei venti, tra il muggito del mare parle sentire il suo nome sospirato nel delirio di una orribile agonia, balza atterrita, corre al lido, e non iscorge che flutti sommossi e cielo ottenebrato: - che Dio faccia pace all'anima del naufrago; ma doveva sfidare il terribile elemento col peso dei figliuoli sul cuore? - Quando tutto è sconvolto, quando tutto è paura, e terrore, - felice quel sicuro che gode spaziare su l'ultimo lido della terra, e sorridere di quel sorriso col quale si accolgono i più cari amici, all'onda che dopo avere sommerso mille navigli viene a spezzarsi tra le scogliere della spiaggia! - Felice chi nel fragore del tuono, e nell'urlo salvatico dei mostri marini può sentire una dolce armonia, una voce di amore, simile a quella che acquietò i dolori della sua fanciullezza! - Ma più avventuroso colui, che nell'ora della procella commise il suo corpo ai flutti agitati! Lo pregavano gli spettatori, pei Santi e per la Vergine, a non osarlo; ma egli, sprezzando i consigli della paura, si compiacque vedersi sospeso su gli abissi, la descrizione dei quali fa abbrividire migliaia di gente: certo egli sembrava un atomo vagante per la luce; conobbe il pericolo d'essere ad ogni momento disfatto, mirò la faccia della morte, nè impallidì; e in ricompensa fu la sua anima purificata di ben molte passioni del fango, di ben molte umane imbecillità; apprese - potere dirsi felice colui che non teme la estinzione della vita; - e re del dolore, scoperse cose, che nè egli sa dire, nè altri potrebbe comprendere, ma di cui la rimembranza gli rimase nella mente come pegno di futura grandezza: - ora quell'ardito sollevato su la sommità d'una ondata si scorgeva più alto della terra, scoprendo il lido lontano, e i compagni; ora, precipitato giù nel profondo, ammirava le acque soverchianti circondarlo a modo di muraglia, e le cime loro ripiegarsi spumanti, sibilando come serpenti sul capo di una furia; - ma egli pure vinse, e quando gli fu a grado tornò salvo alla riva. - A questo solo sia concesso narrare dell'oceano; stenda la sua mano sul mare come su l'altare del Signore, e dica: io sono degno di te. - Venite, e adoriamo le glorie della creazione sopra le sponde dell'oceano.
Io ti amo di quell'affetto col quale i miei fratelli di stoltezza vagheggiano il sembiante della femmina; io godo al suono dei tuoi flutti, al tuo riposo, e alla tua tempesta: libero fino dal principio della creazione, nessun potente ti ha potuto dare legge, nessuno ambizioso nè per lusinga nè per forza sottometterti; - la vicenda degli anni e delle stagioni è nulla per te: quel barbaro sovrano49 che volle importi catene, sta monumento di scherno nella storia; - le catene sono fatte per gli uomini.
Tu immenso, tu forte, perchè il caos era acqua, ed acqua ritornerà. In quel punto la luce riverrà a spegnersi nella sua antica dimora; - il fuoco tuo nemico sarà superato, e la vittoria annunziata al mondo con la sua rovina: non più stelle, nè luna, nè cielo, nè terra; - esulterai nel trionfo della distruzione, nella solitudine della tua immensità: però, mentre dura in me spirito di vita, mi dilungo su l'estreme tue sponde, e adoro le glorie della creazione nella potenza dell'oceano. -
Coll'affanno del cuore, che agogna una corona, Carlo da tre giorni percorre l'oceano. Spesso sedendo a mensa, o giocando a scacchi, quando meno se l'aspettano i compagni si alza da tavola, ascende sopra la coperta; aguzza gli occhi da settentrione, ed esclama con voce tra spaventata e gioiosa: "È Italia quella?"
"No, Monsignore; ell'è una nuvola," qualcheduno gli risponde; e Carlo torna a desiderare, e cupo nel sembiante incamminasi là d'onde si era partito.
Oggimai un uomo, per quanto in fondo della ignoranza, agevolmente comprende - il ladro o non avere sentimento veruno, quando si appresta a fare suo pro della roba altrui, o, se pur l'ha, essere in tutto simile a quello del conquistatore. Vero è bene, che questo s'ingegna di ornare il suo fatto co' luminosi fantasmi della gloria; ma il belletto trovato dagli accorti per magnificare il delitto del forte, che hanno punito nel debole, - il nome diverso, chiamando nei molti gesto, impresa, conquista, quello che nei pochi hanno appellato furto, non acquieta la coscienza, e ciò che togli altrui, sia poco, sia molto, sia con migliaia di armati, o con una sola mano, o vuolsi reputare male per tutti, o per veruno. La pena si assomiglia a una insegna, che tanto più si dipinge di rosso quanto meno lo albergo è agiato, e il vino buono: la si ritenga risolutamente marca che da secoli e secoli inganna, e continuerà ad ingannare la gente; per la quale si toglie per buona una merce, che non è tale. Considera il mondo, e troverai l'origine delle pene nella prepotenza più tosto che nella ragione. Ho scritto questi pensieri non già perchè Carlo avesse il più leggiero rimorso a cagione del gran furto che stava per commettere, ma perchè qui mi si sono affacciati alla mente. Quello che adesso agitava l'anima del Conte era la idea del molto pericolo, unito ad un senso magnanimo, che lo rendeva cupido d'imprese pericolose. Sì fatto miscuglio di vecchie abitudini e di nuove sensazioni non può agevolmente descriversi: egli non era un desiderio di fuga, e pure un principio di paura, che gli abbrividiva le carni; non un desiderio di precipitare la contesa, e nondimeno Carlo, ogniqualvolta sentiva dirsi come fosse una nuvola l'oggetto che supponeva Italia, sospirava d'affanno: - era la trepida esitanza di un'anima grande tra il tempo del disegno, e quello della esecuzione; - esitanza, che nè io, nè i miei lettori, abbiamo provato giammai, imperciocchè le anime nostre vennero al mondo piegate in sessantaquattresimo50.
Carlo agitavasi inquieto, nè i Baroni che aveva prescelto a compagni valevano molto ad acquietarlo. Essi avevano combattuto al suo fianco in Palestina ed in Provenza; andavano famosi per mille prove, ma rigidi come il ferro che li vestiva; - faccie ignote al sorriso, nessun'altra cosa fuorchè la spada e la mazza di arme conoscevano, e nella spada consisteva a quei tempi la educazione del nobile: forse avrebbero potuto narrare le imprese trascorse, e col racconto dei superati pericoli inanimirsi a ben sostenere il sovrastante; ma quando l'anima anela su l'elsa della spada, di rado si trova chi narri, e più di rado chi ascolti storie del vecchio tempo. I nostri Baroni al più leggiero scompiglio balzavano coll'arme alla mano, stimando essere assaliti; nè per quanto si fossero trovati delusi rimettevano in nulla del loro sospetto.
Il Maestro della nave, Provenzale dal viso rubicondo e dai capelli ricciuti, era un piacevolone, finissimo intendente del vino, gran partigiano di quello di Sciampagna; del rimanente istruito a cantare sul liuto otto o dieci canzoni da taverna, e pratico di quanti giuramenti correvano in quei tempi per le bocche dei Fedeli: ma poichè laddove compariva quel viso severo di Carlo la gaia canzone cadeva in isvenimento, e la bestemmia peggio che mai, essendo il Conte religioso, o simulando esserlo, tutta la scienza del Maestro si riduceva a niente, ed egli stava colà come uomo morto: rimanevagli il favellare sul vino, ma come avere il coraggio di tenerne discorso con un Principe che beveva acqua? Il Maestro era affatto disperato.
Così un profondo silenzio, solo interrotto dal rumore dei remi, o del vento fremente per entro le vele, regnava su la galera. Il quarto giorno di navigazione su l'ora di nona Carlo sentendosi trasportato con molto maggiore velocità che nei tre precedenti, se ne andò a passeggiare su la coperta. Non vi trovava persona, meno il timoniere, che colla mano al timone e gli occhi intenti alla bussola (invenzione che i Francesi contendono al nostro Gioia amalfitano51, poco tempo innanzi quell'epoca adoperata nei viaggi di mare), pareva non badargli poco nè punto. Carlo con le braccia sotto le ascelle si mise a percorrere da poppa a prua; nè, per quanto i suoi passi fossero fragorosi, che per antica usanza soleva sempre portare l'arme, nè per fermarsi all'improvviso dinanzi al timoniere, nè per battere con impazienza del piede sopra lo intavolato, pervenne mai a fargli alzare la testa. Questa osservazione, più e più volte ripetuta, lo rendeva curioso di sapere chi fosse: tornato indietro, s'incontra nel Maestro che canterellando sotto voce si dirigeva appunto alla volta del timoniere: onde subitamente chiamò: "Vassallo!" e proseguiva il cammino.
Il Maestro, cavato il berretto, curvata la persona in atto ossequioso, gli tenne dietro alla distanza di due o tre passi, dicendo: "Monsignore."
Carlo non rispondeva: giunto alla estremità della galera, toltasi la destra di sotto l'ascella, apri l'indice e il pollice, e v'inchinò il mento, distratto da nuovo pensiero. Il Maestro si fermò col corpo curvo, il berretto in mano, senza battere palpebra; pareva percosso da quella tal malattia che i medici chiamavano Catalessi, l'effetto della quale consiste nel far restare l'ammalato nella posizione in che fu sorpreso.
"Vassallo!"
"Monsignore."
"Sapresti tu darmi contezza chi sia il timoniere?"
"Dirò, Monsignore," rispose il Maestro, e il cuore gli si allargava, chè adesso poteva dar la via alle parole da tanto tempo trattenute e con tanto fastidio; "allorquando corse grido per Provenza che voi eravate determinato alla impresa di Napoli; e furono incominciati gli apparecchi, una sera, il 15 ottobre, se mi rammento, tornandomene a casa, prendendo su per la piazza di Santa Genevieva, m'imbattei in Messere Guasparrino, gran mercante di panni franceschi, intrinsecissimo mio, e di più compare, avendogli tenuto al sacro fonte un suo figliuoletto che adesso potrà avere da circa due anni; e se a voi accadesse di vederlo, Monsignore, sono certo che lo terreste pel più bel garzone del mondo...."
"Dunque?" interruppe Carlo.
"Dunque, come io vi diceva, Monsignore, Guasparrino tornava da Pisa per certe sue bisogne, e vedutomi da lontano mi corse a braccia aperte incontro, gridando: Oh! oh! compare. - Oh! Guasparrino, siete voi? risposi io. - Ed egli: Come state? - Ed io: Grazie a Messere Domine Dio, non mai bene quanto ora; e voi? - Ed egli Eh! così.... ma gli anni cominciano a diventar troppi, bel compare mio. - Ed io: Che andate voi pensando agli anni? la morte ci ha da cogliere vivi, compare. - Ed egli: Io vo' intanto, che abbiate la cortesia di venire meco fino a casa, dove saggerete un cotal vino di Toscana che un mio amico mercante di Pisa mi ha ultimamente donato, affermando con giuramento che era vecchio di cento anni. - Cento anni! Domine, aiutalo! - Vo' dunque, bel compare, che veniate a farne la prova. - Vengo di certo io: - e andammo. Quivi si trovò in capo di scala dama Ginevra, che ci accolse con una leggiadria da fare onore a qualunque grande imperatrice o Regina; e noi ricambiati in fretta con essa lei alcuni saluti, ci ponemmo a tavola per fare il saggio del vino. E vi so dire, Monsignore, ch'egli era del buono, ma del buono da vero: io non saprei assicurarvi se avesse per l'appuntino cento anni, chè la fede di battesimo non gli vidi io, ma ottimo era certo; quasi cominciai a credere dentro me, la causa della Sciampagna perduta: ma la Sciampagna si manterrà pur sempre Sciampagna!
Quand bouillonne....."
"Dunque?" guardandolo ferocemente gridò Carlo.
"Dunque.... come io diceva.... questo è quanto, signor mio," rispose smarrito il Maestro, quasi che avesse perduto il cammino; "Monsignor sì.... mi ricordo che andò proprio in questo modo.... se mi pare un minuto!... Vedete.... cominciammo a venire in disputa sul vino, e Guasparrino, che n'è troppo bene provveduto, ne fece portare di molte sorte, e tutte preziose, e cominciammo a fare brindisi: Evviva San Dionigi! dissi io, e bevvi Bordò. - Evviva Mongioia! rispose Guasparrino, e bevve Borgogna: - e poi, viva Santa Genevieva! e l'Orifiamma! e Luigi il Santo! e voi, Monsignore! e per voi tornammo alla solita disputa, ch'ei voleva ch'io portassi la salute col vino toscano dei cento anni, ed io colla Sciampagna: alla fine ci accordammo che ognuno bevesse qual più gli piaceva; e così fu fatto. Allora come portava il discorso, Guasparrino mi domandò: È egli ben vero, bel compare, che tra poco il nostro Signore stia per andare al conquisto di Napoli? - Sì bene. - E voi, mio bel compare, condurrete la vostra galera alla impresa? - Sì bene, perchè qual sente amore il Provenzale? Buona spada, buon vino, e bella dama. Se muoio, fatemi dire una messa, Guasparrino, qui presso al monastero dei Cordiglieri; se vivo, berremo al ritorno del vino di Sicilia. - Compare, risposemi allora Guasparrino, ponete mente al mio discorso: voi sapete ch'io sono troppo ricco mercante, e cogli anni giunto a tale età, che si ama, più tosto che ragunare nuovi danari a pericolo della vita, godersi tranquillamente i già radunati; però fino da qualche anno aveva pensiero di smettere negozio e ritirare il capitale, se non che mi ha sempre trattenuto il mandare sciopera pel mondo tanta gente che mangia il mio pane, non meno che alcune faccende che aveva a Pisa e a Firenze; ora poi queste faccende sono sbrigate, e mi rimane solo da accomodare la gente; noi potremmo, compare, farci scambievolmente piacere. - Parlate, Guasparrino. - Io ho una bella galera nuova e sparvierata, e questa intendo donarvi, con che promettiate mantenere la ciurma che mi piacerà porvi sopra, a quei patti che fino a questo momento ho mantenuto io. - Gran mercè, Guasparrino; chè la mia, quantunque ritinta di nuovo, credo sia sorella della barca su la quale il Patriarca Noè caricò le bestie, - perchè allora non erano tante in questo mondo. - Ora bene; e intendo inoltre di farvi un bel dono, pel quale potrete andare francamente dinanzi Monsignor Carlo nostro padrone, e dirgli: io ho il migliore Maestro pilota, che possa condurvi a salvamento fino ad Ostia. - Oh! questo è troppo grande favore, mio gentil Guasparrino; voi mi fate, non dico quanto un amico possa fare ad amico, ma più che padre possa fare al suo figlio. E qui mi alzai per abbracciarlo; ma inciampai nella tavola, e caddi, e la tavola sopra: Guasparrino ridendo a gola spiegata, per modo che aveva gli occhi lagrimosi, e gli si potevano contare quanti denti aveva in bocca, si lasciò cadere riverso su la sedia, levando le gambe, ed egli e la sedia tutto un rifascio per terra; pure, come a Messer Dio piacque, ebbe salva la memoria, chè altramente il riso convertivasi in pianto: accorse la moglie e la fantesca col lume; ci raccolsero e ci menarono a letto, perchè in quella notte io dormii in casa di Guasparrino, Monsignor mio."
Ben pel Maestro, che Carlo fin dal principio del suo discorso osservando un punto oscuro sull'estremo orizzonte, e riputandolo Italia, distratto da nuovo pensiero non gli porse più orecchio, che altramente gli avrebbe dato tal ricordo da non dimenticarlo più mai nei suoi giorni. Ora, ritornato alla prima inchiesta, ripeteva per la terza volta: "Dunque?"
"Dunque, come io diceva, Monsignore Conte, alla mattina Guasparrino entrato nella mia camera mi prese per un piede, e mi tirò tanto, ch'io mi svegliai. Oh! siete voi? - Sono, bel compare; alzatevi, ch'è l'alba dei tafani52. - Oh! che ora fa egli? risposi sbadigliando, e stirandomi le braccia. - È passata terza di un buon pezzo. - Allora mi alzai, salutai la dama, e quando fui per uscire, Guasparrino mi si fece all'orecchio dicendo: Dimani coll'aiuto di Dio vi manderò quel tale uomo a casa. - Che uomo a casa? - Quello della galera. - Ma che avete le traveggole stamane, compar mio? - Come! non vi rammentate della galera che voglio donarvi, e della promessa.... - Ah! certamente sì; pensava che fosse stato un sogno: dunque dimani lo aspetto a casa. Ma ditemi, compar mio, saprestemi voi dire che uomo egli sia?"
"Ed egli mi rispose che non lo sapeva, e che...." Carlo a quel discorso si stimò burlato, e stretta la destra minacciò di percuotere sul viso il Maestro, che alzata la persona fuggì per la scala brontolando: Tête-bleu, Corbleu, ma tra i denti, perchè sapeva Luigi IX di Francia chiamato il Santo avere decretato la pena del taglio della lingua col ferro rovente per tutti quelli che profferissero queste parole.
"Oh vedete un po' che umore arabico è quello dei signori! gli ho detto acconciamente, e con ordine, tutto ciò ch'io ne sapeva, ed in ricompensa per poco non mi ha pestato la faccia: oh, che ingegno bizzarro gli è questo Monsignor Carlo! - Alcuno mi dirà ch'egli ha dei pensieri per la testa; - ma gli ho detto io, ch'entri in questi ginepraj? ci sta egli per me? se la deve rifare con me?"
E così parlando si era accostato ad un vaso, dal quale mesciuto un bicchiere di vino, se lo bevve, chiudendo gli occhi, e a piccoli sorsi: poi, posandolo con rabbia su la tavola, si asciugò col rovescio della mano le labbra, e con un gemito proruppe: "Trangugiamo anche questa!"
Ed il Maestro, aggiunge la cronaca, pareva ombratile fuori di misura, perchè in capo al giorno aveva mestieri di trangugiarne ben molte.
Intanto Carlo, che appena levata la destra si pentì dello atto villano, si ripose a passeggiare, ingegnandosi con ogni modo a fare alzar gli occhi al timoniere; ma sempre indarno: allora prende consiglio di porglisi accanto, e dire in suono che non fosse domanda, e pure richiedesse l'altrui consentimento: "Bel tempo è questo!"
E il timoniere con gli occhi intenti alla bussola non risponde parola. Carlo d'impetuosa indole dotato, come la più parte dei Francesi appaiono, non si può più contenere, e direttamente richiede: "Che partene, timoniere, è egli questo un bel tempo?"
"È."
"E stimi tu che sia per durare?"
"Chi manda la procella? chi il sereno? Può la creatura conoscere i segreti di lassù?" E alzò il dito.
"Lodato il nome del Signore!" risponde Carlo, facendosi il segno della croce; "ma credevamo, che senza peccato avresti potuto dirci, se il tempo sarebbe dimani buono, o cattivo."
"Oggi è buono, però temete che dimani sia tristo. Tra la tempesta si leva la speranza del sereno, tra il sereno sorge il timore della procella. Questo vento che mena felicemente la galera a nona, può farla naufragare a sera."
"Nol permettano i Santi del Paradiso! ma le tue parole suonano amare."
"Devono, o possono uscirne diverse dalla bocca dell'uomo?"
"Tu sei dunque infelice?"
"E che! non lo sareste voi forse?"
"Lo speriamo. Quando il Santo Padre ci avrà posto sul capo la corona di Sicilia, e l'avrà conquistata la nostra spada, noi crediamo che saremo felici."
"La speranza! Ella è una compagna ingannatrice, che ci spinge su pel dirupo della vita, quando il corpo si sente stanco, e i piedi sanguinano per l'aspro cammino. Voi siete nell'agonia dell'anima che anela per la cosa bramata; e questo stato ci turba tormentoso, e pure è il solo meno amaro per noi. Ma quando, pervenuto al sommo, getterete lo sguardo nel profondo senza fine, e la vertigine della fortuna farà mancarvi il piede, e vi precipiterà nello abisso, dove non troverete voce che vi consoli, non occhio che vi pianga, non eco che vi risponda, non speranza...."
"E tu hai provato questo?"
"Là," dice il timoniere accennando la parte d'Italia "là, in quella terra giace sepolta con un cadavere ogni mia contentezza:'cominciò la mia giornata coll'alba della gioia, presiedè al suo meriggio il delitto, la rabbia ne dispera la notte."
"Conosci tu dunque quella terra?"
"Tu nato in Italia! E dì, ell'è poi bella codesta terra quanto si va magnificando all'intorno?"
"Più che mente insaziabile di piaceri può fingere, più che fantastico Trovatore può immaginare': se vi crescessero gli alberi della scienza e della vita, sarebbe un errore lamentarci dell'antico esilio dal Paradiso terrestre."
"E gli uomini?"
Le labbra del timoniere tremano volendo proferire un groppo d'idee, che impetuosamente gli sgorgano dal cervello; esse però null'altro possono favellare che interrottamente: "Feroci.... feroci."
"E tu, nato in cotesta terra, come ardisci adoperare il consiglio e la mano in suo danno? Non conosci, o disprezzi il premio di che vanno rimunerati i traditori?"
"Io traditore! Voi avete parlato una stolta parola, Conte di Angiò; ma sia: - e voi, nato in Francia, come vi maravigliate di un tradimento?"
Carlo si scuote, aggrotta le ciglia in così spaventosa maniera, che le pupille gli si nascondono intiere, e prorompe con voce commossa: "Perchè maledici la nostra patria? È forse la infamia una pianta particolare alla nostra terra, o un albero sterminato che stende i suoi rami tenebrosi sopra tutto l'universo? Sia rigido il cielo, sia temperato, azzurro come in oriente, nuvoloso quanto in settentrione, nè per clima, nè per cielo si rimarrà dal crescere; - le sue radici stanno nel cuore dei viventi. Sì, pur troppo la terra va coperta di scellerati, e di traditi; ma tu, prima di chiamarci colpevoli, dimostraci, che sei innocente: intanto sappi che noi ti teniamo traditore e ti aborriamo. Se la colpa vive nel mondo, non alligna in nostra casa, guarda, se l'osi, il fiordaliso di Francia; qualora i tuoi occhi possano sostenerne il bagliore, vedrai che non ha macchia."
"L'avrà."
"E allora possa essere sterminata la nostra famiglia, tolta dal numero delle cose che si rammentano. Adesso, se alcuna ingiuria molesta alla vita avessimo sofferto dalla nostra patria, anzi che cacciare il pugnale nelle sue viscere, lo cacceremmo nelle nostre. Se hai cosa che non puoi sopportare, muori; altramente, ama la vita, e sii codardo, o scellerato."
"Conte," riprese il timoniere; tenendo le braccia con le pugna strette, "Conte, voi parlate stolte parole. Chi siete voi che volete farvi arbitro del biasimo e della lode? Imparate, voi, cui forse destinano i cieli a governare molta gente, che per tenervi un grado seduto su le teste dei vostri fratelli, non per questo li soverchiate col sapere; che siete debole, imbecille, come essi sono, e creta, solo più presuntuoso, - imparate, dico, s'io amo la vita." E qui furiosamente si apre la veste, e mostra a Carlo i fianchi recinti da un cilicio di ferro, che vi aveva fatto un cerchio di piaghe, dalle quali colavano alcune gocce di nero sangue, e marcioso. Carlo balza indietro atterrito, esclamando: "Cotesto è atroce supplizio!"
"Ora dunque credete ch'io tema la morte? Non vedete che ognuna di queste piaghe mi ha dato maggior dolore, di quello che abbisogni per la estinzione di un uomo? Ecco, la mia vita trapassa per sentiero di tormenti, che da me stesso mi appresto; la lascio consumare nell'angoscia; ma quando minaccia di spegnersi, mi adopro a suscitarla, perocchè ella sia deposito di vendetta e di rabbia."
"Che cosa dunque può farti tanto crudele contro te stesso, e contro il tuo luogo natale"? Qual cosa è al mondo, che possa farti conservare la esistenza malgrado la vergogna e il dolore?"
"Una mente infiammata" prosegue Carlo "dalla malattia, o dalla passione; una morta ragione, un'anima conturbata dal furore, possono solamente concepire codesti disegni."
"Carlo!" con voce soffocata risponde il timoniere "come vi sentite fermo di cuore? soprapponetevi una mano, e tentate se può reggere ad un racconto."
"Noi abbiamo veduto trucidare al nostro fianco i più leali vassalli senza piangere, come senza ridere vedemmo posare sul nostro capo la corona di Provenza."
"Non basta."
"Noi siamo uomini; passioni soprannaturali, cercale dai demoni, o dagli angioli: nondimeno prova."
"Lo volete?"
"Pare che la nostra volontà non possa avere grande potere sopra i moti del tuo cervello; - noi lo desideriamo."
"Ascoltate; e poichè il mal seme della morte e del peccato non può esser distrutto nel mondo, voi che siete nato per reggerlo, traetene argomento di migliorarlo: sono certo, che non riuscirete nel vostro assunto, ma questa è la via che il Signore ha tracciato ai Regnanti della terra. - Non lontano da Napoli verso Pozzuolo sorgevano due nobilissimi castelli, fabbricati negli antichi tempi da due Baroni langobardi, allora quando Zotone venne appellato Duca di Benevento dal glorioso Re Otari, che non conobbe altro confine al suo Regno che il mare53. Correva fama che quei Baroni essendo per antica amicizia come fratelli, insofferenti di starsene da troppo gran tratto di paese separati, gli edificassero così vicini; che le prime pietre poste nei fondamenti fossero tinte del sangue di ambedue loro; e che un savio negromante vi susurrasse sopra tali scongiuri, e vi incidesse tali cateratte54, per cui i signori di quei castelli sarebbero stati sempre stretti di scambievole amore fino al punto in cui uno di questi odiando il compagno per inganno, ne sarebbe stato ucciso contro volontà dell'omicida; ed allora, aggiungeva il vaticinio, i castelli sarebbero rimasti per poco tempo in piedi, essendo che lo incanto fatto col sangue cavato dalle vene in pegno di amicizia dovesse sciogliersi col sangue versato per ira. Ahi! che la profezia, in parte avverata, doveva avere in me compimento, che in me vedete lo sventurato signore di uno di quei castelli."
"Voi Cavaliere! " interruppe Carlo, facendo mostra di ossequio maggiore, che per innanzi non aveva praticato col timoniere.
"Sono una creatura che deve morire;" rispose questi tutto cruccioso "ponete mente al racconto, nè proferite parola; egli non merita essere interrotto da così abiette osservazioni. - Sapete voi come si sente l'amicizia in Italia, ove tutte le passioni tengono del calore del sole che la riscalda? L'amore di forma femminile è nulla in paragone di lei: questo desio nato da vaghezza di piacere, e mantenuto dalla fragile beltà che gli anni guastano, o distruggono, si spegne nello stesso diletto; la ragione non presiede alla scelta, spesso anzi ne adonta, e se questo non avviene in breve ora, il tempo è infallibile; con quello strumento medesimo che incide la via della morte su la fronte della donna, consuma le catene dell'anima; lo intelletto rimane liberato dalla vergognosa servitù, - ma tardi, e il pensiero dell'uomo dall'amore trapassa alla tomba, perchè ella da lunga pezza lo chiama; e quantunque non abbia posto mente alla chiamata, la sua persona sta ricurva verso la terra per abbracciarla di eterno abbracciamento: questa è la turpe vicenda di colui che arde la sua anima in olocausto alla voluttà. L'amicizia procede diversa: si ama per questa con furore, ma non a cagione di forma leggiadra, ma senza desio di diletto; sta con tutte le buone passioni, e tutte pel suo influsso diventano migliori; la donna privata di sentimento sublime sente amore o nulla; lo affetto pe' genitori, pe' fratelli, per i parenti, non può paragonarsi con questo; quali la Natura o il caso gli ha dati, sono i genitori e i parenti: gli amici, quali il cuore gli ha scelti; quando i capelli diventano canuti, e tutte le cose si affacciano alla mente come immagine di rimembranze lontane, le guance, quantunque, pallide, conserveranno sempre un rossore, l'occhio una lagrima, al nome dello amico assente, o defunto: ha l'amicizia qualche cosa di sacro, quando, perdendosi nei misteri della infanzia, due enti si trovano innamorati prima che conoscano amore, prima che la volontà eserciti i suoi attributi: ma la volontà benedice quel nodo, la ragione ne sorride. Qual cosa si negherebbe allo amico? - la vita è stimata il dono più prezioso che la Divinità faccia all'uomo, e pure credesi povero sacrifizio all'amicizia: - facoltà, comodi, pace, sarebbe bassezza profferire; - l'onore non chiede, perchè si nudre di questo: l'amico ti seguirà in ogni sventura, ti sosterrà cadente, ti rileverà caduto, sarà la tua pompa nella gloria, sostegno nei disastri; piangerà al tuo pianto.... ora mi trovo condannato a piangere solo!"
E qui abbassa la faccia, e per lungo tempo: - quando la rileva, comparisce suffusa di lagrime; - gli occhi infiammati, come se avessero durato un qualche grande sforzo per farle sgorgare; - e tremante prosegue: "Io l'ebbi questo amico, - io lo amava, - e lo uccisi!"
La faccia gli ricade sul petto, il suo respiro diventa affannoso.
"Io l'ho trafitto, e pure mio padre mi avea comandato di amarlo: - io l'ho trafitto, e pure il grido del mio cuore, più forte di quello di mio padre, mi costringeva ad amarlo! I nostri genitori quando nascemmo c'imposero i loro nomi medesimi, perchè la morte dubitasse di avere dominio sopra l'amicizia delle nostre famiglie; amavano che i secoli maravigliati riputassero i Folcando e i Gostanzo eterni tra i mortali per volere di Dio, onde stessero esempio perenne di questo nobile affetto. Bevemmo nella medesima tazza, riposammo nel medesimo letto, furono i nostri studii, e i nostri sollazzi comuni, e crescemmo stupore degli uomini, e benedetti dal Signore. Quando i nostri padri morirono, le ultime loro parole furono preghiere e consigli, per conservare lo scambievole affetto, ed aggiungevano essere questa la porzione più preziosa del retaggio che ci lasciavano. I nostri campi non ebbero confine, i nostri armenti confusi; volentieri ci saremmo ridotti ad abitare un solo castello, ma per rispetto alle memorie paterne non volevamo fare l'altro deserto: convenimmo dimorare alternamente ora l'uno ora l'altro, e così facemmo. Scorsero anni felici, di cui la rimembranza nell'angoscia presente è tormento più feroce di quello che la vendetta possa desiderare al nemico. Allo improvviso Berardo diventa pensoso, spesso si smarrisce per la foresta, tardi ritorna al castello, nè per quanto siasi affaticato, può gustare cibo, o bevanda. - Tu soffri, amico mio, un giorno gli dissi, - ed egli mi rispose: Io amo; - gli domandava: Qual donna? - Era una santissima fanciulla, figlia di povero Cavaliere, che abitava forse due miglia distante dai nostri castelli. I cuori dei giovani s'erano accesi di scambievole amore, desideravano dirselo, più desideravano renderlo sacro con la religione, ma non osavano, - tanto erano verginali quelle due anime innocenti! Io fui quegli che tentai la fanciulla; io, che la chiesi al padre; io, che apparecchiai la festa, e sollecitai il rito; nè per nulla ne divenni geloso, che ben conosceva lo affetto di moglie essere diverso da quello di amico, e il cuore di Berardo restarmi pur sempre intero. Vi narrerò la gioia dei vassalli, il tripudio degli sposi, l'allegrezza dei parenti, il fragore dei conviti? Io lascio queste cose come non importanti al mio assunto; lascio ancora i bei giorni che tennero dietro a cotesto caso, e narro quelli d'ira e di sangue. - La bella sposa ebbe vaghezza di accompagnarci alla caccia, noi la menammo; e desiderosi di preda tanto ci avvolgemmo per la selva, che ormai diventava impossibile di poter giungere avanti vespro al castello. Uscimmo dalla foresta, e c'incamminammo verso una casa, che compariva da lontano in mezzo della pianura. - Arrivammo. - Un Cavaliere in modo cortese c'invita a entrare; io lo guardo in faccia, e sento turbarmi da non mai più sentito sgomento. che poi a prova ho conosciuto essere un miscuglio d'odio, di disprezzo e di fastidio: volgo il cavallo per fuggire colui che aveva suscitato nella mia anima la sensazione del rettile velenoso; mi rattiene Berardo, e mi forza a seguirlo: entro in quella casa tremando, presago di qualche gran danno; il Cavaliere mi sorride; quel sorriso mi strazia le viscere; abbasso lo sguardo per non vederlo; non parlo, ricuso il cibo, fingo súbito male, e affretto la partenza; per via di tratto in tratto giro la testa sospettoso, come se alcuno m'inseguisse, e prorompo in voci di minaccia: Berardo e Messinella stimano ch'io abbia perduto il senno. Passano alcuni giorni nei quali non vedendo, nè rammentando il fatale Cavaliere, la calma torna a serenarmi lo spirito. Certa sera, mentre cavalcava a diporto, sento sollevarmisi in mente irresistibile desiderio di tornare al castello; sprono a precipizio il destriero, arrivo, e vedo un cavallo legato nella corte; ascendo le scale, - un Cavaliere favellava domesticamente con Messinella, la teneva stretta per mano; ella era pallida, e sembrava spaventata di trovarsi sola con quell'uomo; al rumore dei miei passi costui si volge, - troni del cielo! io vedo l'ospite spaventoso. Egli si leva subitamente, mi viene incontro, mi saluta e mi porge la mano; - la mia non si mosse, pareami averla incatenata sul fianco; le parole che favellai furono poche, ed amare: accortosi ch'egli era il mal gradito là dentro, tolse licenza, e se ne andò. Rimanemmo io e Messinella, con gli occhi bassi, senza osare profferire accento intorno al Cavaliere; pareva che colui avesse sopra la persona una malia che ci affascinasse, o la naturale proprietà di quei serpenti che ne fanno col fiato loro cadere privi di sentimento. Venne Berardo al castello, fu apprestata la cena, ma l'allegrezza per quella sera non istette alla mensa con noi. Da quel punto comincia la orribile istoria. Berardo diventa tacito, e sospettoso; non che cercare il mio aspetto, lo fugge; gli occhi di Messinella appaiono spesso infiammati; e sebbene ogniqualvolta appena mi vede da lontano mi corra incontro sorridendo per abbracciarmi, - ben sono medesime le labbra che sorridono, ma non è più quello il sorriso di prima; ben sono medesime le braccia che mi cingono il collo, ma ora leggermente, e súbito cadono come se avessero troppo osato. Nè il Cavaliere tralasciava di visitarci; anzi in proporzione che vedeva germogliare i semi di discordia, veniva a godere dell'opera sua. Un senso segreto mi avvisava della sua venuta, però che io mi ritirava immobile in un canto della sala, soprapponendo le mani sul pomo della spada, e finchè egli vi dimorava, i miei sguardi stavano fissi su la sua faccia, ed egli ostentava di non badarci: spesso io gli faceva un leggiero oltraggio onde egli dicessemi villania, e così avere cagione di dargli d'un pugnale nel petto; ma egli, anzi che chiamarsene offeso, trovava per me scuse, che non avrei voluto, nè potuto proporre. In questo modo procedevamo tutti in silenzio, - silenzio di rancore e di minaccia, simile a quello che suole andare, innanzi agli sconvolgimenti della creazione. - Sorge, il giorno che non dovea essere rischiarato dalla luce, non annoverato tra quelli dell'anno55: la Natura, quasi consapevole del misfatto che doveva commettersi, ne fece il principio spaventoso; una nebbia grigia ingombrava tutto l'orizzonte, il sole vi si avvolgeva dentro come un fuggiasco, guardando trucemente la terra: allorchè fui per uscire, la tempesta infuriando mi costrinse a restare; - ell'era pena per me trovarmi nel castello di Berardo, - ma non poteva dimorarne lontano; - superava ogni tormento quello di non vederlo. A sera il cielo in parte si rischiarò; montai a cavallo, corsi al castello di Berardo; entro, domando di lui, - mi rispondono che fin dalla mattina, a malgrado della pioggia, si era allontanato, nè ancora lo avevano visto di ritorno al castello: vado oltre, mi occorre Messinella con un sorriso, che parve fiore sul volto di un morto; ci abbracciamo e ci poniamo a sedere; - io stava di faccia a lei. Dopo lunga ora, - Messinella, le dico, voi non siete contenta. - Ella mi risponde con un pianto dirotto; poi si guarda all'intorno, e mi dice: - Bel fratello, - così da gran tempo soleva chiamarmi, - questo non è luogo acconcio, venite: - e qui si leva in piede, mi prende per mano, e mi conduce nella selva vicina. Giunti in luogo appartato, io non osava interrogarla; la povera donna alzò gli occhi al cielo, e mi disse in lamentevole accento: Orribile segreto mi posa sul cuore, o fratello, segreto che minaccia la mia vita, e che adesso voglio deporre nel vostro seno, come il mio testamento: - Berardo ha cessato di amarmi! - E me pure, o Messinella, gridai, ha cessato di amare il vostro consorte: e sì, che se parte del mio corpo lo avesse offeso. l'abbrucierei subitamente, perchè non guastasse il cuore ch'io devo conservare per lui. - Ed ecco, rispose Messinella aprendo le braccia, Iddio vede la mia innocenza, egli sa s'io sono rea pure di un pensiero; - dopo lui Berardo è il mio amore: quantunque io non gli abbia aperta l'anima mia, ella n'è così innamorata, che non può sopportarne il disprezzo; quando Berardo si trova presente, io nascondo la mia afflizione, ma allorchè non mi vede, piango, e piango.... oh! mio bel fratello, voi non potreste pensare quante lagrime abbiano versato gli occhi della povera Messinella: non anderà molto, che voi entrando nella corte di questo castello mi troverete stesa sul letto di morte, esposta alla compassione od alla curiosità dei vassalli; in quel punto, fratello, voi prenderete per mano Berardo, lo condurrete dove giacerò cadavere, e gli direte: - ella è morta di amore per te.... oh! s'egli verserà una lagrima, se manderà un sospiro, io fino d'ora gli perdono ogni mia afflizione: promettetemi, fratello, che lo farete, giuratemelo, non vogliate negare questo conforto alla povera addolorata! - Dopo queste parole, la interruppe un singhiozzo convulso, e declinò la faccia sopra il mio seno; io era commosso profondamente: - No, bella infelice, esclamai, a te non istà morire; il rettile ha tentato di contaminare il bel giglio, ma io lo calpesterò nella via; il serpente si è avventato al destriero perchè si perda cavaliere e cavallo56, ma rimarrà infranto nella impresa di perfidia. - E così favellando le presi con ambe le mani la testa, e la baciai in fronte. - Allo improvviso ascolto uno strido acutissimo, uno stormire per le frasche della selva, ed uno allontanarsi precipitoso; balzo stupefatto, corro là d'onde m'era sembrato che si fosse partito il grido; - nessuna traccia d'uomo mi si presenta alla vista. Torno a Messinella, che appoggiato il suo nel mio braccio, mi accenna di riprendere la via del castello; ella era trista, abbattuta, appena mutava di passi. Io pensava tra me di recarmi nei giorno appresso di buon mattino da Berardo, e chiedergli ragione della condotta strana contro il suo amico, e la sua consorte. Intanto giungiamo al castello; l'accompagno nella sala, e prendo commiato. - Addio, mi disse l'infelice, rammentatevi di Messinella. - Io m'incammino col cuore chiuso; giunto alla porta, mi richiama un'altra volta - poi un'altra; - sventurata! pareva che una voce segreta l'avvertisse, che non doveva vedermi più mai. Io parto: - abbandonate le redini sul collo del destriere, con le mani incrociate sul petto, percorro la via che mena al mio castello. Ad un tratto una voce per le tenebre dietro mi chiama: - Gorello! Gorello! - Mi soffermo: la voce pareami straniera, nondimeno rispondo: - Chi è, e che vuole colui che per la notte ha pronunziato il mio nome? - Gorello! ripete un cavaliere, e nel punto stesso mi si pone al fianco. Al chiarore incerto delle stelle lo riconosco; aveva scoperta la testa, i capelli scomposti, la voce alterata. - Berardo! siete voi? che tutti i Santi vi aiutino. - Sono, ma i Santi mi hanno abbandonato! - Non gli risposi, perchè ormai aveva stabilito di tenergli nel giorno appresso il discorso intorno ai Suoi nuovi costumi alla presenza di Messinella. Così taciturni camminiamo fin dove la via egualmente distante dai nostri castelli si piega in angolo: quivi stava piantata una Croce, che i nostri vassalli chiamavano la Croce nera. - Scendete, mi grida Berardo, e al punto medesimo smonta da cavallo. - Io che pongo ogni mio contento in piacergli, balzo a terra; ed ei mi comanda di sguainare la spada. - V'è forse persona che c'insidii la vita? - Togliete la spada, lo saprete dopo, - mi dice. - La traggo tosto dal fodero, e mi pongo in atto di ferire. - Difenditi! - grida Berardo, e mi si getta addosso a corpo perduto. Atterrito dalla improvvisa ventura, non manco a me' stesso, e paro i colpi: in mezzo al fragore dei ferri che si cozzavano orribilmente tra loro, si udiva la mia voce gridante: - Che è questo, Berardo? Deh! mio dolce amico, mio diletto fratello, abbassate la spada, ascoltatemi per l'amore di Dio, in nome dei nostri morti genitori! - Non rammentarli, mi risponde terribilmente Berardo, tu ne sei diventato indegno dal momento che ti facesti traditore. - Traditore io! Berardo, sospendete un solo istante.... uditemi.... voi volete la vostra morte. - Mi oltraggi tuttora, mormorò tra i denti Berardo, ti prevali della tua destrezza per aggiungere al danno lo insulto! - E raddoppiava i colpi: essi cadevano così spessi, ch'io non potei attendere ad altro che a difendermi. In quel buio, appena scorgendo Berardo, aveva procurato di non smarrire la punta della sua spada, sviarne le percosse fino a stancarlo, che veramente io aveva molto maggiore lena di lui: allo improvviso la perdo; ringraziando Dio di questo caso, m'incammino brancolando dove stavano i cavalli, preferendo la taccia di vile al cordoglio di trafiggere l'amico: col braccio teso sporgo la spada, - s'incontra in un corpo che cede, e stramazza: - s'inalza un sospiro; - Berardo giaceva immerso nel proprio sangue. Getto la spada, e urlando mi curvo a terra: - Hai vinto, mi dice Berardo; a me non è concesso punirti, ma mi avanza anche qualche ora di vita. Si appoggia al mio braccio, si rileva in piedi, e con la fascia che gli reggeva la spada si benda la ferita; - ella non era mortale; io avrei forse potuto salvarlo, ma rimasi stupido senza potere proferire parola, o stendere passo. Berardo, impedito alla meglio che il sangue sgorgasse, perviene a montare a cavallo, e fugge dal mio cospetto; nè io mi muovo. Ornai si udivano appena le lontane pedate del fuggente destriero, quando mi riscuoto, e senz'altro pensare salto sul mio, e gli conficco gli sproni nei fianchi; egli era bene veloce sopra quanti cavalli portassero cavaliere in quel tempo, ma Berardo di troppo mi precedeva: io lo chiamo, ma egli non ode, o non cura rispondermi; mille volte a rischio di andare col mio cavallo sossopra, corro furiosamente, già gli son presso, lo arrivo, - ei passa il ponte: ripungo duramente con ambedue gli sproni il destriero, tutto trafelante e affannoso; sono giunto sotto il castello, - Berardo è già trascorso, il ponte rialzato. Ora con voce di pianto io chiamava a nome tutti i vassalli perchè calassero il ponte, - non rispondevano; - adoperai le promesse, le minacce, gli scongiuri pe' Santi, pe' loro morti, pe' loro vivi, per quelli che dovevano nascere, - non rispondevano; - scesi, e mi detti ad aggirarmi intorno il castello, corsi, ricorsi, - il muro era alto, il fosso profondo; - rifinito dalla stanchezza e dal cordoglio, cado svenuto per terra: quanto io stessi privo di sensi, non so; questo solo conosco, che sarebbe pure stata grande pietà non farmi ritornare in me stesso! Avanti che lo sguardo fosse tornato allo usato ufficio, un gran splendore mi percosse la facoltà visiva, - un ronzio confuso d'urli, di pianto, di femminili querele, e di latrati, mi rintrona gli orecchi: - apro gli occhi.... o Cristo! il castello di Berardo va in fiamme. Senza che l'anima fosse consapevole dei miei moti, io mi trovo in mezzo al fosso menando mani e piedi per giungere all'altra riva: - la prendo, tento un luogo per arrampicarmi; - mi aggrappo, - sono giunto a mezzo del muro, - non trovo più oltre dove mettere il piede, - rovino, lasciando su i sassi la pelle delle mani e del viso. - Chi potrà dire quante volte mi arrampicassi, quante cadessi; chi le mie percosse e le mie ferite; chi il supplizio dell'anima mia? Orribilmente ansante, tutto sanguinoso, afferro alla fine un merlo: - quale io mi fossi all'aspetto non dirò: basti solo, che nessuno mi riconobbe, e credendomi il demonio suscitatore di cotesto incendio, fuggivano urlando disperatamente misericordia! Eccomi sul limitare del palazzo: egli era tutto una vampa; a quando a quando, mentre il vento soffiava, se ne vedeva parte tuttora in piede: un trave infuocato rovinando, per poco stette che non mi schiacciasse sul limitare; - corro oltre, - le scale vacillano sotto i miei passi, - le pietre scoppiando mi percuotono il corpo con ischegge roventi, in così dura maniera che un balestriere non avrebbe potuto maggiore: traverso una sala, vado al corridore che conduceva alle stanze di Messinella: - appena mi vi affaccio, sprofonda; - ritorno su i miei passi, prendo per altre camere che con diverso cammino menano alla stanza desiderata, spingo l'usciale.... Orribile misfatto! Messinella supina, con le trecce sparse, le braccia aperte, giace sul pavimento trafitta di cento colpi; - le sue ferite sono più atroci di quelle con le quali l'odio si compiace lacerare corpo nemico; elle erano studiate con salvatica ferocia: aveva gli occhi divelti e rovesciati giù penzoloni per le guance, la faccia tagliata in minutissime righe, la gola aperta.... - Deh! non rammentiamo più oscene ferite, di cui la rimembranza è un fremito di disperazione. Ora mi sorprende la solita immobilità, rimango lì senza piangere, senza parlare, come impietrito: - scrolla la stanza, si aprono le pareti, e mostrano per le fessure lo inferno: - lo istinto della vita mi spinge fuori; - sprofonda con ispaventoso fracasso, e io scorgo tra i vortici delle fiamme e del fumo sparirmi il cadavere di Messinella. Un urlo di fiera adesso si fa sentire in un corridore a sinistra; corro a quella volta; - cieco della mente e del corpo, percuotendo in tutti i muri, col seno aperto per molte piaghe, gestendo con le mani, come il naufrago che cerca la riva, errava Berardo. - Che hai tu fatto? gli grido. Ei non mi ascolta, e corre, come il destino lo porta, dove il terreno rovinato gli appresta morte sicura. - L'afferro, - egli urla, più che dolore fisico può fare urlare umana creatura; incredibili sono i suoi sforzi per isvincolarsi dalle mie braccia: forse sarebbe giunto a sfuggirmi, se non fosse stato quasi vuoto di sangue. Me lo carico sopra le spalle, e mi pongo a cercare una uscita; - da tutte le parti fuoco: e bene sia, - arderemo insieme, e troveranno le mie ossa abbracciate alle sue: egli ha misfatto, ma, innocente o scellerato, io l'amo quanto l'anima mia. Fermo in questo pensiero, mi ritraggo un poco indietro, quindi mi do a correre a capo basso, e m'immergo nelle fiamme: elleno mi avviluppano intero; io le vedo scorrere ora sotto i miei piedi come onde trasportate dalla bufera, ora avvolgersi in colonne spirali, e circondarmi di certissima morte; - fuoco divampavano le vesti, fuoco i capelli; la carne incotta, gli occhi per tanta luce divenuti ciechi. Il dolore accelera il passo, il termine della fiamma è vicino; - un urlo acutissimo si spande allo intorno, ma io non vedo nè odo più nulla, perchè stramazzo come morto per terra. Allorchè mi rinvenni, vidi un Frate Benedettino, antico famigliare di casa, seduto accanto al mio letto; il quale prima che io parlassi mi fece cenno di tacere, ma io non potei trattenermi da sospirare: - Berardo? - Vive, rispose il Frate, ma voi tacete in nome di Dio. - Non posso; Padre, io sento che più poche ore di vita mi rimangono; volete ascoltare la mia confessione? - E il Padre benedicendomi soggiungeva: - Dite. A mano a mano ch'io progrediva nell'accusare le mie colpe, m'interrompeva con esclamazione di maraviglia, della quale non dava ragione, siccome timoroso di manifestare un segreto che doveva tenere celato. Finita la confessione, tra atterrito e commosso mi domandò: - E non avete da accusarvi di nessuna altra cosa? ricercate bene la vostra memoria, se per avventura alcun fallo aveste dimenticato. - Ho detto tutto, e tutta verità, che non ho mai mentito in faccia degli uomini, pensate se oserei adesso in faccia a Dio. - Dunque, esclamò il Padre giungendo le mani, dunque sono stati traditi! - Allora lo pregai, se potessi vedere il mio amico innanzi di morire; ed egli mi confortò a starmi tranquillo; - lo avrei veduto prima che fosse sera. Vennero all'ora stabilita quattro vassalli, e preso ognuno di essi un lembo del lenzuolo, mi trasportarono soavemente nella stanza di Berardo; - c'incontrammo con un grido: fui adagiato su di un letto; e ciò fatto il buon Padre ordinò che ognuno si ritraesse. Io non ardiva favellare, Berardo forse lo sdegnava, il Frate cominciò: - Figliuoli, voi, come sentite, siete presso a passare; vi giova quindi partirvi da questo mondo amici come vi siete vissuti; perdonatevi scambievolmente, e come vuole la legge di Cristo, perdonate, al peccatore che ha desiderato la vostra morte, pregate Dio che voglia toccargli il cuore, onde la sua anima sia salva; - voi siete stati traditi. - Frate, parlò con voce fioca Berardo, quando anche fosse falso quello che mi disse Drogone, non ho io visto costui con la scellerata Messinella tradirmi nella foresta? - Che hai tu visto, sciagurato, risposi, che mille volte con tuo piacere non abbia fatto alla tua propria presenza? Ora mi si svela un orribile mistero. Come non ti sei accorto che lo sleale Cavaliere amava la povera Messinella, ed ella, ed io, mortalmente l'odiavamo? Tu cadesti nelle insidie del demonio, egli ha perduto noi tutti: oh! io ti compiango, Berardo, io ti compiango! il bacio che detti sopra la fronte di Messinella fu puro come quello che si offre su le reliquie dei Santi. - No, tu mi hai tradito, e quando tu non mi avessi, dimmi per pietà, che mi hai tradito! - Bruci l'anima mia per tutta l'eternità nei tormenti, come io non dirò mai di avere fatto o pensato cosa che fosse contraria all'onore del mio amico Berardo. Questa è la fede che dopo tanti anni di amore avevi riposta nel tuo Gorello? - Pensi che le tue rampogne possano aggiungere un grano alla immensità dell'affanno che sente lo uccisore d'una moglie, il distruttore del castello paterno? Ma tu non giureresti che sei innocente! - No? Padre, avreste voi nessuna cosa di Santo su la persona? - Tengo un frammento del legno della Santa Croce che un pellegrino di Gerusalemme con fraterna carità mi ha donato; rispose il Frate, e aprendosi la veste trasse fuori la reliquia e me la porse: io la recai devotamente alla bocca, e pieno di quel coraggio che dona la buona coscienza, con voce sonora esclamai: - Per quel Dio, che abbandonando il suo trono di gloria volle sostenere gli oltraggi degli uomini per salvarli dalla morte eterna, pel sacratissimo sangue che versò su questo tronco benedetto, per la salvazione dell'anima mia, per quella dei miei defunti, per la fede di Cavaliere che ho giurato innanzi al mio Re quando cinsi la spada, io Gorello Gostanzo solennemente protesto e sacramento alla faccia di Dio e degli uomini, che nè in detto, nè in fatto, nè in pensiero, ho mai tentato di guastare l'onore del mio amico Berardo Falcando, e che di ogni imputazione ed accusa sono pienamente innocente. - Niun gemito, niuna parola - per parte di Berardo.- Padre Ugo gli si accosta, curva la testa, sovrappone la sua alla faccia di lui; dipoi tornando alla mia volta chiama i vassalli, ed ordina loro che mi riportino alla mia stanza. Io prego il Frate a non permettere che di là mi rimuovano; non concedendolo egli, grido che non mi terrebbero senza la forza: il buon Padre invano si affatica a persuadermi, che più sempre mi ostino nel mio proponimento: allora i vassalli si apprestano a farmi violenza, tento resistere ma le mie forze erano spente. Sono trasportato: la rabbia della impotenza, e il timore pur troppo giusto che Berardo fosse morto, irritarono talmente le mie afflizioni che caddi in deliquio. Poichè mi riebbi, vidi al mio capezzale Fra Ugo, che subito prese a confortarmi con soavi detti, e bellissimi esempii tolti con molta dottrina dagli Evangeli, ma che non fruttavano nulla con me, ormai disposto di morire. Scongiurai il Frate in nome di San Benedetto a dirmi se Berardo viveva; ed egli, male potendo resistere allo scongiuro, mi raccontava, come la piena del rimorso, più che le sue ferite, avesse ucciso Berardo: allora tentai sfasciare le mie, nè potendo, sorsi dal letto furente, per cercare la morte, o dando del capo nella parete, o precipitandomi dalle finestre; fui rattenuto, e d'ora in avanti diligentemente guardato: disposi lasciarmi morire di fame, nè per quanto s'ingegnassero, potevano mai riuscire a farmi trangugiare cibo, o bevanda: - era in me sorta una smania rabbiosa di morte. Ad un tratto mi si presentò il Maggiordomo del mio castello, sgomento come persona travagliata da irreparabile sciagura: - Monsignore, Monsignore, fiero caso accadde nel vostro castello! - voi non avete più castello: vennero stamane cento uomini d'arme, che si sono fatti calare il ponte a nome del Re, ne hanno cacciato la vostra famiglia, e ne hanno preso possesso. - Gran Dio! qual mai misfatto ho commesso perchè tanto duramente debba essere perseguitato! - Oh! Monsignore, a capo dei cavalieri vidi tale uomo, che per quanto si nascondesse il viso giunsi a riconoscere. - Chi? dillo! - Quel Cavaliere che vi faceva l'amico, che veniva a prendervi sovente per andare insieme alla foresta, - quell'alto, bruno, che abita il palazzo della pianura. - Drogone? - Monsignor sì, Drogone. - Non dissi parola: ma da quel punto feci un orribile giuramento, che in rammentarlo mi si arricciano i capelli, nè mi sta ferma fibra del corpo: promisi l'anima al Demonio, rinunziai al battesimo ed agli altri sacramenti, se, innanzi di morire mi avesse fatto vedere il cuore del traditore. Diventai più di qualunque codardo avaro della mia vita, e ben mi fu d'uopo confortarmi, che due giorni appresso il fidato Maggiordomo venne a dirmi, aver saputo da persona del castello, come mandavano gente per arrestarmi; come di omicidio proditorio mi avesse accusato Drogone alla Corte di Giustizia, come molti miei proprii vassalli avessero attestato contro di me, e giurato, che nella notte dell'incendio io gridava ad alta voce essere stato l'uccisore di Berardo; aggiungeva che furono spedite le citazioni, ma non consegnate, perchè mi condannassero in contumacia; di tutto questo doversi incolpare Drogone, che, per essere creatura del Conte della Cerra Gran Camarlingo del Regno, poteva agevolmente tutte queste cose conseguire. Mi riparai nella capanna di una guardia dei miei boschi, dove la pietà di alcuni vassalli amorosamente mi trasportò; invano fui ricercato dalla vendetta, che la fedeltà dei vassalli prevalse con unico esempio alla rabbia dei nemici. Giunsi a sanare, comecchè in parte rimanessi deturpato: mi provai le armi; da prima mi parvero insopportabile peso, a mano a mano come per lo tempo passato leggiere. Allora mandai cartelli a diversi Baroni perchè mi concedessero il campo, e sfidai il traditore. Drogone tacque, i Baroni risposero scusandosi che non potevano tenere il campo. Mandai messi, lettere a Manfredi; nessun messo tornò indietro, nessuna risposta. Così logorava il mio tempo, e la mia anima. Una sera sul finire di marzo la guardia venne ad avvisarmi che fuggissi; avere veduto molti armati sparsi pel bosco, ed inteso che mi cercavano; - mi affrettassi, un sol momento mi avrebbe condotto a certa rovina. Fuggii, ma parendomi impossibile sottrarmi alle perquisizioni dei cavalieri, che mi sentiva alle spalle, divisai aggrapparmi sopra un albero: quivi passai la notte, - qual notte! che Dio la faccia provare soltanto al mio nemico! - Alla mattina tesi l'orecchio, nessun rumore si sentiva per la foresta; scesi, e mi avviai senza sapere dove, che troppo mi gravava tornare alla casa di cui mi aveva cacciato: vero è bene, che ciò facendo provvedeva alla mia ed alla sua sicurezza, ed il bisogno l'aveva costretto; ma ad ogni modo io era stato cacciato, e fosse superbia, o generosità, piuttosto che riparare nuovamente in quel luogo, avrei scelto morire a cielo scoperto. - Seguiva i più intrigati sentieri, guardavami sospettoso all'intorno; - quante volte un leggiero susurro di frondi agitate dal vento m'impallidì il sembiante! quante il latrato dei veltri lontani! - Parevami essere una fiera, di cui alla caccia convenisse il genere umano.... Se in quel punto mi fossi incontrato in mio padre, lo avrei tenuto, e trattato, come si trattano i più odiati nemici. Così coll'animo commosso dalla paura del sovrastante pericolo, giunsi verso sera sopra le rive del mare; - egli era tranquillo, e pareva m'invitasse a farmi suo cittadino, da che su la terra non aveva più da sperare; mi si presentò come amico che mi offrisse salute, e mi allettasse con la speranza di eventi meno tristi: spesso aveva veduto il mare, ma non mai con sentimento di amore siccome questa volta. La fortuna mi fu di tanto cortese, che indi a poco scôrsi con infinito piacere una saettía, che da Ischia andava a Pisa, costeggiando la riva: chiamai la gente, scongiurando per l'amore dei Santi, che seco loro mi accettassero; il Maestro, che uomo compassionevole era, mi tolse volentieri, ed io gli raccontai come fossi un povero vassallo che per avere offeso involontariamente il signore era stato condannato alle verghe. Gli uomini di mare, che, per quanto ho osservato in séguito, sono naturali nemici della tirannide, e per conseguenza grandissimi estimatori della libertà, si appassionarono per me, e tennero per fortunata la ventura di aver potuto sottrarre un uomo alla brutale ferocia
di un Barone. Arrivammo a Pisa con prospera navigazione: quivi, desideroso di farmi valente nell'arte di percorrere i mari, tolsi commiato da loro, e mi acconciai su le galere che navigano a Tiro, a Tolemaide e in altre terre di Levante. Di ritorno a Pisa, co' danari procuratimi mandai segreti messi ad alcuni dei miei vassalli, affinchè mi chiarissero di ciò ch'era avvenuto dopo la mia partenza. Intanto strinsi amicizia con un certo Guasparrino marsigliese, ricco mercante, che conosciutomi delle cose di mare espertissimo, mi propose di governare la sua galera. Tornati i messi, seppi del mio castello essere stato dal Re Manfredi investito Drogone, il quale per opera del Conte della Cerra tanto si era avanzato in sua grazia, che lo aveva nominato Ammiraglio del Regno; allora accettai la proposta del Marsigliese, e da quel momento in poi una immagine di speranza ha lusingato il mio cuore che un giorno o l'altro potrei incontrarlo sul mare: - oh! allora.... volgono cinque anni che vesto il cilicio, e mi circondo di terribili angoscie per sorridere alla morte, come a mio liberatore. Se alla mia vendetta si unisse la utilità della terra che mi ha veduto nascere, forse il mio nome ne avrebbe gloria nelle generazioni future; fatalmente sono disgiunti, e mi frutterà infamia: - che cosa importa? forse verrà tale che dispregiando la lode e il biasimo che danno gli uomini, - e loro; - tale che scrutinando impassibile le azioni chiamate delitti, e quelle chiamate virtù, vedrà che il caso, non già il mio volere, condanna il mio nome a comparire scellerato nelle pagine della storia, onde egli non sdegnerà di manifestarla alla gente, e suscitare una lagrima, come che tarda, sul mio feroce destino."
Carlo d'Angiò, degno di sentire altamente, aveva ascoltato quel racconto con tanta attenzione, che non s'era accorto il sole avere già da buon tempo lasciato il nostro emisfero, perchè Gorello non lo narrò così prestamente, come abbiamo fatto noi, ma con tante altre particolarità, che volentieri tralasciammo per provvedere alla pazienza del lettore: ora Carlo riunendo in un punto tutte le sue
sensazioni levò gli occhi al cielo, e mandò un gemito affannoso.
Il cielo si era coperto in gran parte di un nugolone nero, che cresceva da lato di Levante; il vento fatto impetuoso aveva sommosso il mare per modo, che Carlo voltosi al timoniere, parlò: "Parmi che avremo fortuna."
"Sì, Monsignore. La mia vita è immagine di questa giornata, luce il mattino, tenebra a vespro: questo giorno terminerà forse con la tempesta, - la mia vita non deve finire altramente; - chi sa, che la procella che chiuderà questo giorno non sia destinata a dare compimento alla mia vita!"
"Nostra donna di Reims disperda l'augurio! Noi non possiamo restituirvi la pace, ma in fede di Cavaliere giuriamo, che, potendo, vi faremo giustizia."
"Gran mercè, Monsignore: intanto ritiratevi, chè un balzo della galera non vi lanci, come poco pratico, in mare; state pur tranquillo, chè se sarà tempo da potersi superare da forze umane, noi lo supereremo."
"Lo crediamo certamente; e più della fedeltà dei nostri ci dà pegno di questo la vostra vendetta, Gorello."
Dopo queste parole Carlo, tolta la mano del timoniere, e affettuosamente stringendogliela. soggiunse: "Prendete conforto, Cavaliere; nuovo tempo, e nuovo amico, possono sanare le piaghe del tempo e dell'amico passati. Addio."
"La buona notte, Monsignor Conte!" rispose Gorello; e quando Carlo prese ad allontanarsi crollò la testa e disse: "Miserabile! anch'egli appartiene alla schiatta di coloro che reputano un sorriso, od una carezza, presente del cielo, medicamento per ogni malattia dell'anima. - Miserabili anche voi! Ma Carlo ha creduto farmi il maggior bene che fosse in potere suo... lasciamo la presunzione, la bassezza e la follia del presente, - rimarrà sempre un pensiero di carità, e di questo merita gratitudine."