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Francesco Domenico Guerrazzi
La battaglia di Benevento : storia del secolo 13.

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CAPITOLO DECIMOSESTO.

 

IL CAVALIERE DEL FULMINE.

 

L'una zuffa e poi l'altra io vi vo' dire,

Che in due luoghi ad un tempo si travaglia;

Lo strepito è si grande del ferire,

Lo spezzar della piastra e della maglia,

Che fa chi guarda intorno sbigottire.

ORLANDO INNAMORATO.

 

Forse fu il premio della costanza: - Carlo di Angiò afferra la riva: allorquando il suo coraggio stette al cimento della morte, se qualcheduno gli avesse posto la mano sul cuore, non avrebbe sentito accelerare diminuire i suoi palpiti; - alloraquando scomparsa tutta speranza di esterni sussidii l'anima fu ridotta all'alternativa di abbandonarsi vinta, o di sopravvivere, spiegò tal vigore, di cui ella non si sarebbe reputata capace se la occasione non fosse venuta. - Carlo afferra la sponda, perocchè la galera forse di un miglio lontano da terra s'era sommersa tra Capo Linaro e Civitavecchia; ma travagliato, indebolito, in guisa che parve la vita essergli soltanto bastata per non morire nel mare. Il mattino vide quello uomo ambizioso, destinato a rovesciare il trono del gran Federigo, steso senza moto su la sabbia, irrigidito per tutte le membra, stillante acqua dai capelli, e dalle vesti; - il più vile lo avrebbe potuto impunemente oltraggiare, il più codardo spegnere; - un fiato, per quanto leggerissimo, estinguere quella scintilla vitale, che di per stessa guizzava incerta intorno alla sede delle sensazioni. Il sole, distillandogli per le vene il sottile suo fuoco, gli intepidiva il sangue, e richiamava i suoi spiriti all'usato ufficio; si levava a sedere come smemorato, e gittava gli occhi smarriti sul cumulo delle acque. Il cielo rideva sereno, il mare tranquillo, - e sì che vedevi galleggiare, testimoni del suo terribile sdegno, tavole, remi, remiganti; - pure lieto di un bello azzurro, lentamente scorrevole, come i passi del Signore, invitava con la lusinga del piacere ad affidarsi alla sua immensa superficie: - così tenta il peccato! Sopra tutti gli avanzi della tempesta era osservabile Armando, lo sciagurato Maestro: giaceva supino, e quel suo ventre, già per natura tumido, adesso maggiormente per l'acqua trangugiata, errava qua e in balia del vento quasi isoletta natante; ora il flutto sollevandolo su l'estreme sue labbra pareva ridonarlo alla terra, e di subito ritirandosi lo trasportava più lontano che prima; ora lo deponeva sul lido, e poi, come pentito, tornava a rapirlo; se giungeva una o due volte scarso, quanto meglio poteva si allontanava indietro, non altramente che se volesse prendere tratto a spingersi più veemente, sì che la terza o la quarta, fremendogli attorno spumoso, tutto gorgoglío, lo rimenava seco in trionfo: pareva un fanciullo che prenda diletto col suo balocco.... ma i trastulli del mare sono navi infrante, e cadaveri.

- Povero Maestro Armando! - sospirò Carlo, poichè l'ebbe tristamente considerato; e la sua anima si abbandonava a lugubri meditazioni, quando alzata la faccia vide disegnarsi su l'orizzonte alcune vele, che secondate dal vento tentavano prendere la terra; ed ecco che Carlo, dimentico di ogni altra passione, anelante tra il timore e la gioia, si leva in piedi, intendendo a scoprire se fossero sue. La pietà nel cuore dell'ambizioso passa veloce come il lucido intervallo nella mente del pazzo.... Maestro Armando e i suoi fratelli d'infortunio scomparvero dalla memoria del Conte per non tornarvi mai più.

"Sarebbe questo un errore dei miei occhi? m'ingannasse il mio desiderio?" esclamò Carlo, fregandosi le palpebre per meglio vedere, "o questa è la mia diletta bandiera? azzurra è certo.... no.... sì. Così Santo Dionigi mi facesse la grazia che fossero le mie galere, come ella è veramente azzurra! Ahimè! anche quella di Manfredi ha il campo dello stesso colore.... ma l'Aquila bianca fa gran macchia, e oggimai si scorgerebbe.... nello sventolare di una piega ho visto rosso.... sì rosso.... San Martino glorioso! la mia bandiera! i fiordalisi d'oro! il rastrello rosso!" E qui con tal atto dimostrò la soverchia allegrezza, ch'egli stesso, ogni qualvolta lo ricordava in appresso, arrossiva, perocchè suoni antica quella sentenza, che nessuno uomo è eroe quando sta solo.

La fortuna, come femmina, stanca di Manfredi, seguiva innamorata le vestigie di Carlo, e come femmina abbandonava il buono pel tristo. Le galere chiamate dai segnali del Conte si fecero alla spiaggia, e i Francesi salutarono il signore loro con tali trasporti di gioia, che ad uomo resuscitato per miracolo non se ne farebbero altrettanti. Non lungi dal luogo, ove presentemente dimoravano, apparivano i campanili, le cupole delle chiese, e le case più alte di una città; - era Civitavecchia: Carlo vi condusse, costeggiando, le sue venti galere, e quivi lasciatele con parte di sua gente, se ne andò frettoloso a Viterbo presso Papa Clemente. Essi si abbracciarono, come due uomini, stretti per l'attuale bisogno, e pel futuro interesse, possono abbracciarsi.

Per altra parte il Monforte, con raro esempio di prospera ventura, traversata Romagna ove gli occorsero tutti i Guelfi d'Italia, tra i quali quattrocento uomini d'arme fiorentini, si avvicinava a Viterbo. Molto andava lieto il Conte Carlo della venuta del Monforte, molto più dei quattrocento Fiorentini che gli si erano aggiunti. E' bisogna sapere, che quando nel 1260 i Ghibellini per opera di Farinata prevalsero in Firenze, tutti i Guelfi si partirono nella notte del 13 settembre, e nella città di Lucca si rifugiarono: ben furono dai leali Lucchesi lungo tempo raccolti, finchè essi pure sconfitti nella guerra che sostennero contro quell'invincibile Farinata, doverono di altro più sicuro asilo provvedersi, se volevano campare dalla acerba persecuzione dei nemici. Questo fu caso pieno di lacrime: molte gentildonne partorirono su le Alpi di San Pellegrino, molti principali cittadini caddero morti per via, di fame, e di freddo; ma poichè, come dice lo Storico che questo fatto racconta, - bisogno fa prode uomo, - si ritirarono in Bologna, e quivi si dettero ad apprendere arme, e giornalmente esercitandosi vennero in breve a ottenere fama di valorosi cavalieri. Chiamati a Modena dalla fazione guelfa, superarono la ghibellina; lo stesso fecero a Reggio, dove dodici di loro, che in appresso tolsero il nome di Paladini, abbatterono, e uccisero il fiero gigante appellato Tacha, il quale con una grossa mazza di ferro tutti ammazzava, o guastava, come meglio potrà vedere nelle cronache di cotesto tempo il lettore vago di conoscere sì fatte cose lontane dal nostro soggetto. Questa gente, che molto erasi avvantaggiata in quelle guerre, appariva splendida di bellissimi destrieri e di ricche armature: li conduceva Guido Guerra dei Conti Guidi, pronipote di quel Guido Sangue, che solo scampò dall'universale eccidio che i Ravennati commisero di sua famiglia, s'egli è vero ciò che gli antichi Storici hanno preso cura di tramandarci. Carlo non avendo più danaro non fu parco di promesse, e il Pontefice d'indulgenze; anzi questi tanto gli ebbe per cari, che dette loro a portare la propria insegna, la quale faceva campo bianco ed aquila vermiglia con serpente verde tra gli artigli.

I Fiorentini la riceverono con la gioia dell'odio che si crede santificato; solo vi aggiunsero un giglietto rosso sopra la testa dell'Aquila, imperciocchè giglio rosso in campo bianco fosse la impresa dei Guelfi di Firenze, come il giglio bianco in campo rosso quella dei Ghibellini.

Adesso, uniti in bella ordinanza i Francesi e i Guelfi italiani, avendo per guida il Pontefice e il Conte di Provenza, muovono da Viterbo pel cammino di Roma. Cavalcava Clemente, vestito degli abiti pontificali, una bianca Chinea: la magnificenza del manto era tale, che non solo la sua persona, ma sì bene anche tutto il palafreno copriva, onde l'Alighieri ebbe a dire quello che disse nel Canto XXI del Paradiso72: le barde del cavallo foderate all'esterno di scarlatto comparivano ricamate a rose d'oro; di scarlatto parimente ricamata a rose d'oro era la gualdrappa lunghissima: teneva su la testa una mitra, simile a quella che costumano i moderni Vescovi, però che il triregno non ornasse ancora le tempie pontificali, e fu soltanto sul finire di questo secolo, che primo l'adoperò il glorioso Papa Bonifazio VIII: nella manca stringeva il pastorale a similitudine del vincastro dei guardiani di pecore, per dinotare la mansuetudine di governo con la quale Gesù Cristo ordinava che si reggessero i Fedeli: la destra alzava in atto di benedire; e così ella era assuefatta a quel moto, che quando ancora non ne faceva mestieri segnava: ambedue le mani poi si vedevano coperte di bellissimi guanti, che in vocabolo canonico chiamavano chiroteche, e il dito anulare della destra cinto di sopra il guanto di un preziosissimo anello: di qua e di dalla testa del cavallo due giovani donzelli vestiti di abiti sontuosi ne reggevano il morso, terminato con borchie d'oro dalle quali pendevano nappe di seta cremisi, e ne regolavano il passo. Dal lato destro del Papa si avanzava Carlo d'Angiò: aveva usbergo, braccialetti, panciera, cosciali, e schinieri, tutti di acciaio intarsiati di oro a rabeschi maravigliosi: invece d'elmo portava sopra la testa la corona da Conte: nelle mani un bastone d'oro contornato di gemme: dal sommo della spalla sinistra, attaccata a un bel nastro ricamato, gli pendeva la croce, che aveva ricevuto dal Cardinale Simone di Tours per dimostrare a cui ci voleva credere, che nessuno interesse mondano, ma la maggior gloria della Chiesa, lo aveva indotto nella guerra contro Manfredi: una clamide non diversa dalla imperiale foderata di vaio nell'interno, e nell'esterno trapunta a fiordalisi d'oro, compiva l'abbigliamento: il cavallo che montava Monsignor Carlo era quel desso, che soleva accompagnarlo in tutti i suoi fatti d'arme, generoso animale, bianco come fiocco di neve, nato di madre araba, e da uno stallone di Normandia; dalle narici carnicine ferocemente dilatate pareva fiutare la battaglia: bene era fatto a pennello, ed ammirabile in ogni parte del corpo, ma si agitava fastidioso dentro grave bardatura di cuoio di capra, che chiamavano cordevano, ricoperta di rabeschi, e di azzimine di acciaio: il Conte nel frenare l'impeto del suo impaziente destriero mostrava essere molto savio maestro di cavalleria, e sebbene nel sembiante impassibile, tuttavolta si conosceva, com'egli facesse piuttosto opera per concitarlo, che per reprimerlo. Dall'altro lato veniva la Contessa Beatrice sopra un ginnetto di Spagna, il quale, quasi fosse consapevole del grado di colei che lo cavalcava, scoteva tutto altero la testa, e caracollava in molto leggiadra maniera; l'animosa sdegnando, come le femmine di quei giorni costumavano, far tenere la briglia da uno scudiero, di per stessa lo conduceva. Sebbene, come abbiamo già detto, avesse molte delle sue gioie impegnato o venduto per sovvenire al marito in quella impresa, non si creda, che non gliene rimanessero tante da comparire ornata; un busto di lamina d'oro le fasciava la vita, seguendone i contorni naturali fino sopra i fianchi, dove le terminava, con la forma medesima delle corazze romane; nel mezzo con crisoliti, zaffiri, rubini, ed altre pietre preziose, stava configurato un giglio; il rimanente sparso di rosette composte di cinque pietruzze di diversi colori: cingeva ricca cintura, da una parte della quale era attaccata la borsa, dall'altra un pugnale: la veste azzurra, affatto simile a quella di Carlo, si vedeva trapunta di fiordalisi d'oro: ornava la corona di Contessa i suoi capelli composti in trecce minutissime, che parte delle guance e del collo le ricoprivano: Beatrice non era bella, ma alta di corpo, e maestosa: nel suo volto traspariva quella indefinita autorità, che i signori della terra derivano dai loro padri, o piuttosto dall'abitudine del comando. La gente raccolta sopra il cammino, al comparire di sì magnifica gentildonna applaudiva, ed ella con occhi scintillanti dal piacere le rendeva sorridendo cortesi saluti. Seguivano quindi i principali Baroni di Provenza e di Francia, con vesti ed arme diverse, che a descriverle tutte andremmo di leggieri a mille e più pagine, con troppo gran danno dei nostri editori; poi l'esercito diviso in drappelli di bella mostra, ognuno dei quali condotto da un Cavaliere di assai buon nome nella milizia.

In questa maniera procederono fino a Baccano: quivi incontrarono duecento armeggiatori coperti di zendadi azzurri, trapunti a gigli d'oro, montati sopra cavalli di un solo colore. Con la faccia rivolta all'esercito veniente stettero immobili, finchè non fu avvicinato a tiro di balestra: allora spronarono precipitosi con l'aste basse, come se volessero assaltarlo: ma ad un tratto si fermarono e súbito dopo si divisero, figurando una battaglia d'infiniti duelli: ricambiati alquanti colpi, alzarono le lance, ed offersero un lungo viale di armi intrecciate; poi tornarono a mescolarsi, e quale usciva, qual rientrava; alcuni correvano dal lato manco, altri dal destro, e si avviluppavano e si aggomitolavano, ch'egli era un brulichío, una confusione maravigliosa a vedersi: ad un segno dato, in meno che non si dice, comparivano ordinati in ischiere quadrate, piene e vuote, in fila disposte lungo la via, o in drappelletti traversi: quindi nuove giostre, nuovi greppi, e sempre vaghi, e sempre varii a vedersi, che forse di tali non se ne sono ancora eseguiti nei nostri balli moderni tanto vantati.

Gradito quanto meno aspettato riuscì a Carlo cotesto spettacolo, che non si rimase se non circa sette miglia distante da Roma. In quel punto correndo a tutta briglia scomparvero. Quando ebbe percorso un ben lungo sentiero il Conte li rivide immobili, come la prima volta, traverso il cammino, tenendo sollevate le lancie e i pennoncelli confusi; adesso, per avvicinarsi ch'ei faceva, sembrava che volessero muoversi. Carlo stava attento a quello che sarebbe per accadere, allorquando si aprirono e lasciarono vedere una magnifica ambasceria di signori romani, che, vestiti di lor cappe ermesine, si fecero innanzi al Pontefice, e piegando ginocchio a terra gli offrirono le chiavi d'oro della città: in appresso quegli che sembrava più autorevole tra loro, impetrata licenza, recitò una orazione che non era latina, ed italiana nemmeno, ma ch'egli però intendeva recitare in latino; noi la riferiremo: ti basti, o lettore, sapere che fu vilmente bassa, schifosamente servile, onde senza sforzo potrai immaginarla da te: sebbene durasse da oltre mezza ora, spremendone il sugo, diceva - essere universale desiderio del popolo e dei nobili romani, che Carlo fosse creato Senatore di Roma; - come se della signoria del Pontefice non avessero abbastanza, e ce ne sopravanzasse: e qui nota, lettore, - che anche tu sei popolo, e forse coll'esempio ti potresti emendare, - che quattro anni innanzi una medesima ambasceria deputata a Manfredi lo assicurava - essere universale desiderio del popolo e dei nobili romani, che fosse eletto Senatore perpetuo di Roma. Come poi Clemente avesse grata quella offerta fatta dai suoi sudditi a Carlo, lo sa colui che discende nel profondo del cuore: per quello che potè conoscersi, assai ne fu lieto nel sembiante, e rispose, - che volentieri. Allora fu portato un altare, sul quale stavano deposte molte sante reliquie e il libro degli Evangeli; il Pontefice scese da cavallo, e con esso il Conte e tutto lo esercito: fattosi all'altare gli si prostrava dinanzi, intuonando una preghiera che di mano in mano fu ripetuta da tutti i circostanti; poi rilevatosi in piedi domandava Monsignore Conte se voleva essere Senatore di Roma; al che Carlo rispose: che molto volentieri, dove concorresse il buon piacere di Sua Santità: Clemente allora aprì il libro dei giuramenti, ed ordinò che giurasse: Carlo, con la destra su gli Evangeli, leggeva: "Noi Carlo di Francia, per la grazia di Dio Conte di Angiò, di Folcacchieri, di Linguadoca e di Provenza, etc. etc. per libera volontà del popolo e dei nobili romani eletto Senatore di Roma, promettiamo con giuramento preso sopra i santi Evangeli, di non contribuire con fatti, con parole, a far perdere i membri o la vita al gloriosissimo Pontefice Clemente IV, pio, universale, apostolico, non meno che ai suoi successori, di rivelare le congiure, mantenergli nella possessione del Papato, e nel libero godimento delle regalie appartenenti al Patrimonio di San Pietro, provvedere alla sicurezza dei Cardinali e loro famiglie, conservare la città di Roma nella pienezza del suo territorio e di sue giurisdizioni, finalmente di fare tutte quelle cose che possono contribuire al maggiore onore della Santa Chiesa e di Dio." Profferite queste parole, il Pontefice gli pose nella destra le chiavi in simbolo d'impero civile, poi la spada come condottiero delle sue milizie, finalmente lo stendardo di San Pietro, come campione di Santa Chiesa. Tanto tumultuoso fu lo scoppio degli urli, tanto il suono delle trombe, che fino da Roma lo sentirono. La notte era inoltrata quando giunsero alla patria di Cesare.... il cammino risplendeva come di giorno pe' molti doppieri che ardevano da ambedue le parti del cammino. Sotto la porta si vedeva solennemente ornato il Carroccio, inventato fino dall'anno 1026 da Ariberto Arcivescovo di Milano, onde servisse per segnale di guerra alle città italiche, non già per onorare la venuta di tali che dovevano respingere: questo era un carro, come i miei lettori sapranno, tirato da quattro o più bovi, bianchi e grassi a meraviglia, coperti di panno scarlatto, ricamato doviziosamente; girava intorno la base un doppio ordine di scalini, perchè le ruote agivano internamente, e su i gradini stavano fitti candelabri di argento, con ceri di stupenda grossezza: dal mezzo del carro sorgeva una antenna fasciata di drappo, nel cui mezzo era appeso il Cristo d'oro; all'estremità il gonfalone di Roma: i lembi del gonfalone, che di dieci e più braccia oltrepassavano il carro, sostenevano in cima dell'aste due Cavalieri armati di tutte arme, nobilissimi per sangue: molti altri minori stendardi simbolici circondavano il principale, nei quali tu vedevi il lione per denotare la forza, la donna che si specchia per la prudenza, quella appoggiata alla colonna con le bilance per la giustizia, e molte e molte altre virtù, che in quei tempi il popolo romano non aveva che su le bandiere. I Cavalieri, appena videro il Pontefice, il Conte e la Contessa avvicinarsi, andarono ad incontrarli con molto accorgimento, e li ricopersero del gonfalone a guisa di baldacchino. Il carro mosse; primo a trapassare le soglie di Roma fu il Pontefice. Le strade coperte di erbe mandavano attorno odore soave; le finestre illuminate, leggiadre di bei tappeti, apparivano ingombre di donne vestite dei migliori loro abiti, che gettavano a piene mani fiori della stagione sopra i Cavalieri francesi: questi poi, giovani e vecchi, come la natura loro li consiglia, volgevano a destra e a sinistra la testa con la velocità del pendolo, ed ogni qualvolta veniva loro fatto di scorgere un sembiante leggiadro, se lo ammiccavano con gli occhi, e sorridevano, ovvero, piegata la persona, l'uno sussurrava all'orecchio dell'altro, Dio sa che parole. In una strada si udivano suoni, canti, e si vedevano donne danzare, e uomini bere e darsi tempone: in altra il giullare con suoi giuochi sollazzare la corona del popolo che gli dimorava intorno per incantata, finchè egli col berretto in mano non se ne andava in giro gridando - larghezza; allora chi qua, chi , si sbandavano tutti in traccia di un altro giullare che non fosse anche giunto a quella conclusione. Qui in mezzo d'una piazza, montato sopra una tavola, con una torcia ai piedi e il leuto al collo, il ciarlatano73, come forse faceva nell'antichità quel povero cieco di Omero, cantava le imprese di Carlomagno, di Orlando, e degli altri Paladini. Tra tanta gente intesa a sollazzarsi, come la serpe in mezzo al prato vedevi strisciare il tagliaborse, con passo obliquo, schivante il lume, ed aspettare al varco persona su la quale eseguire il suo tiro; perchè bisogna persuaderci, che da quando gli uomini ebbero testa da pensare, e mani da prendere, furono ladri; e ch'essi sono la solita accompagnatura dei signori, allorchè si recano con magnifica pompa in qualche città. Così trapassando per molti e diversi spettacoli di allegrezza, il Pontefice, il Conte e la Contessa con i principali Baroni, giunsero al Laterano. L'esercito già s'era diviso pe' quartieri apprestatigli dalla provvidenza romana. Carlo, dopo la cena, sentendosi stanco aspettava il cenno di Clemente per andare a prendere riposo, ma non osava domandarglielo; Clemente non voleva che stanziasse nel suo palazzo, ma non osava dirglielo; pure alla fine considerando che a lui toccava parlare, si levò da tavola, e favellò: "Conte, noi vogliamo che tu sappi, nessuno cattolico, per quanto d'arme e di tesoro potente, avere mai albergato fin qui nel nostro palazzo di Laterano, e questo teniamo in segno di rispetto meno per noi, che siamo il servo dei servi, che per l'Altissimo di cui facciamo le veci. Quello che è stato con tanta sapienza dai nostri predecessori stabilito, e da tanti Imperatori seguitato, noi non intendiamo revocare; però escine senza mormorare, dilettissimo figlio; di bene altri palazzi abbonda la città, per bellezza, per ricchezza punto inferiori a questo nostro; e partendotene persuaditi che noi non vogliamo già farti vergogna, ma sì provvedere alla fama di figliuolo ossequente a Santa Madre Chiesa, che altissima suona di te per l'universo."

Carlo, sebbene non fosse punto disposto a sopportare quelle grandigie papali, come dimostrò qualche anno dopo con la superba risposta a Niccola III degli Orsini, pure adesso con lieto viso si partì dal Laterano, e si condusse ad albergare altrove. Il Conte di Provenza, sì come savio, intendeva, che adattarsi una volta al piacere altrui, per poi fare sempre a modo proprio, non è cosa che deva punto guastare.

Nel seguente giorno il Pontefice e il Conte ristrettisi insieme si accordarono intorno molti punti sopra i quali gli scambievoli Ministri avevano creduto bene non tenere proposito, giudicando che si sarebbero intesi meglio tra loro. Quali fossero i discorsi fatti, e le condizioni pattuite è ufficio dello Storico riferire; a noi basta accertare che si accordarono. Sciolto il colloquio, i banditori percorsero la città, gridando: "Che nella prossima festa di Epifania, Monsignor Carlo e Madama Beatrice Conte e Contessa di Provenza, sarieno stati coronati Sovrani di Sicilia per mano del Signore Clemente IV, Pontefice gloriosissimo di Roma, nella Basilica di Santo Giovanni Laterano; che sarebbesi tenuta per tre giorni corte bandita, e rinforzata, sì che l'ultimo giorno fosse la maggiore di tutte, con facoltà di andare a qualunque Cavaliere portasse arme; che tutti i giorni dopo il mangiare si aprirebbe una giostra, i tenitori della quale erano i Monsignori Conte Guido Monforte, Guglielmo lo Stendardo, Boccard e Giuan Conti di Vandamme, Piero di Bilmont, Mirapoix il Siniscalco, Giuan di Bresilles, e Ludovico Jonville; che tutti quei Cavalieri che avevano vaghezza di provarsi con loro andassero a portare la sfida nel chiostro di San Paolo, dove dal sorgere al tramontare del sole sarebbero state esposte le insegne dei tenitori; e la Contessa Beatrice Regina del torneamento, e Giles Lebrun Contestabile del campo, avrebbero tenuto conto delle insegne, e dei nomi dei Cavalieri che si presentassero, etc."

I primi raggi del sole non avevano per anche illuminato il nostro emisfero, che una calca di gente affollata nel giorno appresso intorno le porte del monastero di San Paolo aspettava ansiosamente che si schiudessero. Dopo lungo aspettare, si aprirono alla curiosità del popolo che in un momento inondò quel vasto ricinto del chiostro. Egli era una bellissima fabbrica pei tempi d'allora, divisa in quattro lati uguali, con portici composti di molti archi a sesto acuto, e di colonne sottilissime scanalate; le parti interne, scompartite in più quadri, rappresentavano con le meno triste pitture che in quei tempi si sapessero fare, le principali geste del glorioso Apostolo: tra le altre molto lodavano quella dove si vedeva il Santo preso dai manigoldi, che volevano ad ogni costo metterlo bocconi per vergarlo. le geste di San Paolo erano i soli dipinti: vi compariva ritratto un Adamo che lavorava la terra - con una bella vanga di ferro: un Giudizio finale dove certi diavoletti arguti levavano le anime in forma di bambini dalle bocche di Cavalieri, Regnanti, Monache, Frati, e fino da quella di un Papa; in somma un Giudizio affatto simile all'altro che Andrea Orgagna condusse su le muraglie del Camposanto di Pisa; e, per finirla, tutti gli altri novissimi. Lungo le pareti stavano disposte l'arche dei signori defunti, nel sodo storiate di figure, che i Frati del luogo dicevano umane; sul coperchio giacevano le statue di coloro che vi erano chiusi; qui una donna con le braccia incrociate sul petto, il capo piegato su l'omero, gli occhi chiusi in atto di trapassata; più oltre un Magistrato vestito col lucco, seduto sur un fianco, col pugno appuntellato alle tempie, la faccia bassa, come uomo che mediti; più oltre ancora un Cavaliere armato da capo a piedi con la spada nuda alla mano, spirante sopra un fascio di trofei: il volgo dei morti, senza pietra, - senza scritto, che lo additasse all'amore dei suoi, stava confusamente sepolto sotto il pavimento del portico.... (poichè, vivo o morto, il volgo è sempre destinato a servire di pavimento; ma tale piacendogli stare, a me non tocca perfidiarci sopra. Trahit sua quemque voluptas.)

Dal lato opposto alle porte per le quali si entrava, sopra uno zoccolo fasciato di velluto cremesino sorgeva un'asta su la quale era attaccata una bellissima armadura, e a piè dell'asta stavano disposte quattro coppe piene di bisanti d'oro, in premio di chi avrebbe vinto la giostra: accanto a questa, ma piantate sul terreno, s'inalzavano altre otto lance, da ognuna delle quali pendeva lo scudo col nome e colla insegna del Cavaliere a cui apparteneva: il primo diceva Monforte, e la impresa mostrava una donna rovesciata. E qui bisogna avvertire essere stato in quei tempi il massimo degli oltraggi portare l'altrui sembiante capovolto nello scudo; onde quel superbo Monforte volendo in qualche maniera dinotare il suo disprezzo per l'Italia aveva inteso effigiarla nella donna che abbiamo descritto qui sopra. Nel secondo si leggeva Stendardo, e la impresa erano due bracci che armati di martello battevano sopra una incudine col motto: per picchiar si rompe: nel terzo e nel quarto, Vandamme; quello era tutto nero con gocce di argento, e fu dono della dama dei suoi pensieri, che volle in quel modo significare le lagrime che avrebbe sparso nella sua lontananza; nell'altro scorgevasi un cuore tra le fiamme, passato da parte a parte con una freccia, a similitudine di quelli che i nostri moderni amorosi mettono in cima alle lor lettere erotiche: il quinto diceva Belmont, e per impresa un vento affannato a spengere un fuoco col motto: per soffiar mi spengo: il sesto Mirapoix; la impresa, una testuggine col motto latino: Tarde sed tuto: il settimo Bresilles, e faceva levriero che ritorna con la lepre: l'ultimo appariva tutto bianco, come costumava portassero nel primo anno i nuovi Cavalieri, ed apparteneva al giovane Jonville. Subito dopo le aste vedevasi una lunga tavola coperta di ricco tappeto, intorno la quale sedevano le più belle dame romane e francesi, giudici ordinarii di quella specie di combattimenti: e la Contessa Beatrice in seggio più elevato come Regina; il Contestabile Giles Lebrun sopra uno sgabelletto a piè della tavola teneva un libro di pergamena per iscrivervi i nomi, o descrivervi le insegne di coloro che si fossero presentati a giostrare: i rimanenti Cavalieri, parte armati, parte abbigliati di ricche vesti di seta, stavano in piedi all'intorno.

Ormai era passata nona, alcuno si presentava a far contro i tenitori; così grande correva la fama di questi Cavalieri francesi, che nessuno per quanto prode si attentava. Guido da Monforte vestito di giustacuore di cuoio si avvolgeva tra i suoi fratelli di arme, e ad ora ad ora, sorridendo, diceva: "Non ve l'aveva io detto?"

La gente accorsa per vedere stava fissa alla distanza di quattro o più braccia dagli scudi dei tenitori, come se una linea magica le impedisse di venire oltre. Le dame romane, guardavano verso la folla per iscorgere qualche loro vagheggiatore, vedendovene alcuno, dimettevano vergognose la faccia; le francesi esultavano su l'onta d'Italia.

La folla si fende; un Cavaliere di aspetto leggiadro. con la visiera calata, portante scudo con figura affatto simile a quella del Monforte, se non che posta nella sua naturale attitudine, salutate in prima le dame, percuote col ferro dell'asta la insegna obbrobriosa del primo tenitore: al punto stesso il Cavaliere vede un altro ferro di mole maravigliosa, tinto di sangue rappreso percuotere la medesima insegna, onde volge la testa, e scorge un sembiante coperto di piastre di acciaio, il quale portava per impresa il fulmine, che cadente dalle nuvole abbatteva una torre, col motto: da man celata scende.

"Signori Cavalieri," disse il Contestabile Lebrun ai due sopraggiunti "noi vogliamo avvertirvi, che quantunque sia in facoltà nostra accettare le sfide a tutta oltranza74, pure ameremmo che non vi fosse sangue."

"Veramente" soggiunse il Monforte "anche io vi consiglio a ciò che vi ha detto Messere il Contestabile. Cavalieri, perchè non vorrei che per me nessuna dama portasse la guancia lacrimosa."

"Se voi non volete correre il pericolo di accettare la sfida a tutta oltranza," rispose il Cavaliere primo venuto "non avete che a pregarci alla presenza di queste dame, onde noi la commutiamo in primo transito."

"Sangbleu!" gridò il Monforte" si udì mai orgoglio uguale a questo? Scrivete, Contestabile, la loro sentenza di morte. Badate, Cavalieri, se volete, io vi concedo sempre tempo a ritrattarvi."

"Conte," parlò il Cavaliere del fulmine" guardate in cortesia il ferro della mia lancia, non è sangue quello che vi sta sopra rappreso? Ed avvertite, non è mio quel sangue."

"Se il fatto risponde alle parole," soggiunse il Monforte "spero che ritrarremo qualche onore dalla vostra sconfitta."

"O forse bestemmierete i Santi per avere provocato il torneo," riprese il Cavaliere primo venuto.

"Signori," favellò il Cavaliere del fulmine rivolto verso i tenitori "i vanti non vincono le prove delle armi, e disdicono altamente a gentili Cavalieri: faccia ognuno quel meglio che può; la vittoria sarà a cui Dio vorrà concederla...."

"A cui la lancia vorrà concederla, dovreste dire, Cavaliere," - rispose il Monforte.

"Come volete, Messer Conte. Contestabile, descrivete la insegna, perchè il mio nome dee rimanersi celato."

"E di voi come ho a dire?" - interrogò Lebrun il Cavaliere primo venuto, dopo che ebbe descritto la impresa del Cavaliere del fulmine.

"Descrivete di me pure la insegna."

"Prudente provvedimento quando uomo presagisce la disfatta!" disse sogghignando il Monforte, "così si getta via lo scudo e la vergogna."

"Signori Cavalieri, i nostri tenitori sono otto, e voi non siete che due," parlò il Contestabile: "vorreste forse sostenere soli l'assalto di tutti?"

"Avete compagni?" - domandò il Cavaliere del fulmine al Cavaliere primo venuto.

"Ho l'anima, - la spada, - la lancia, - la mazza d'arme; - ognuna di queste vale un Francese: voi pure le avete, dunque siamo tanti e tanti."

Il Monforte digrignò i denti per la rabbia, e gli occhi gli si empirono di sangue. Il Cavaliere del fulmine crollando la testa parlò: "Ecco che si è detto troppo più di quello che si vuole per una giostra a oltranza. Cavaliere. se siete valente quanto audace, spero in Dio che avremo vittoria: nondimeno io vo' che siamo otto anche noi. perchè l'uomo deve ben fidare in , ma non presumere. Or via, signor Contestabile, condurrò io gli altri sei: avranno stella d'oro in campo nero."

Ciò detto, senza saluto, senza inchino, si volse verso la folla, la quale mormorando si aprì per lasciare il passo a quel gigante, che in un momento disparve. Il Cavaliere primo venuto, piegata la persona con atto gentile alle dame, che volentieri lo guardavano, parimente si allontanò.

Rotto lo incanto, suscitata la virtù italiana, si videro da tutte le parti farsi oltre Cavalieri a toccare, qual col ferro, quale senza ferro, gli scudi dei tenitori, così che al tramontare del sole il libro del Contestabile si trovò pieno di nomi, e di descrizioni d'insegne. Il Monforte accigliato non diceva parola; Lebrun chiudendo il libro si volse verso di lui, o disse: "Sapete, Conte, quello che dice il proverbio?"

"Che ho io a farmi dei vostri proverbii?"

"Vi acquistereste sapienza: offendi, e spegni."

"Ho fatto il primo oggi, domani farò il secondo."

"Se dirlo fosse farlo, non dubito che sarebbe; ma quei Cavalieri non avevano sembiante di cedere così leggeri; vedrete che a mangiarli saranno più di due bocconi."

"Questo è perchè i sessanta anni vedono diversamente dai quaranta; e voi oggimai, signor Contestabile, siete più proprio a dire proverbii, che a menare colpi di spada."

Giles Lebrun, Cavaliere senza macchia, e senza paura, sentendo quella acerba risposta, alzò la persona, come nei giorni della sua gioventù, scosse in atto di rabbia i capelli, bianchi di onorata canizie, e pensò di percuotere sul volto il villano: Monforte però nulla curando se fosse stato gradito, o no, quel suo detto, si era di già allontanato. La prudenza consigliò Lebrun a non muovere scandalo nelle presenti occasioni, ma la vendetta gli impresse la ingiuria nel cuore.

 

*

* *

 

Correva il giorno sesto di gennaio anno domini 1266, allorchè una splendida comitiva di Prelati, Magistrati, e Cavalieri italiani e francesi, si fecero a suono di trombe alla dimora del Conte di Provenza per guidarlo al Laterano, dove lo aspettava il Pontefice. Non mai cavallo di battaglia dimostrò tanto focosamente l'interna gioia al suono dell'assalto, quanto adesso Beatrice a quelle trombe, che le annunziavano doversi porre in cammino per essere incoronata: senz'altro badare interruppe la sua acconciatura, e si scagliò, quasi mezzo vestita, impetuosamente verso la porta per uscire. Carlo la prese pel braccio, la ricondusse al luogo onde si era mossa, e con voce pacata le disse; "Dama, contenetevi, - l'aver corona dal Pontefice non significa esser Regina."

La messa solenne è cantata da Papa Clemente, assistito da Rodolfo Vescovo di Albano, Archerio Prete di Santa Prassede, Riccardo di Santo Angiolo, Goffredo di San Giorgio al Velo d'oro, e Matteo di Santa Maria in Portico, Diaconi Cardinali. Il Conte e la Contessa di Provenza. vestiti di bianco, stanno genuflessi sopra doviziosi pulvinari. Finita la messa, Archerio e Rodolfo si fanno incontro a Carlo, Riccardo e Goffredo incontro a Beatrice, e li conducono presso i gradini dell'altare. Clemente prende la Bolla della investitura di sopra la santa mensa, e legge a voce alta: "Noi Clemente Papa IV, servo dei servi di Dio, pel potere delegatoci da Gesù Cristo, e dal Principe degli Apostoli San Pietro, di provvedere alla maggiore gloria della Chiesa, commessa dalla onnipotente bontà alle cure del nostro reggimento, ordiniamo che del Regno di Sicilia ultra e citra, giurisdizioni, appartenenze, feudi, etc., sia considerato come decaduto Manfredi di Svevia, e la sentenza di scomunica già dai nostri antecessori contro lui pronunziata con le presenti confermiamo; Carlo Conte di Angiò, e di Provenza, nostro dilettissimo figlio, di questo Regno medesimo investiamo, eccetto la città di Benevento con tutto il suo territorio e pertinenza, per , pe' suoi discendenti maschi, e femmine; ma vivendo i maschi, sieno escluse le femmine, e tra i maschi succeda il primogenito; i quali tutti mancando, o rompendo le cose pattuite, ricada il Regno alla Chiesa Romana. Le condizioni sono: che non si divida il Regno: che si presti giuramento di ligio omaggio, e di fedeltà alla Chiesa: che se il Re di Napoli sarà creato Imperatore, e Sovrano di Lombardia, o di Toscana, dentro quattro mesi renunzii il Regno: che se il Re è maggiore di diciotto anni amministri di per stesso, se minore si sottoponga alla curatela della Chiesa: che annualmente nella vigilia dei Santi Pietro e Paolo si paghi il censo di ottomila once d'oro, e più un palafreno bianco, buono, e bello: che in sussidio della Chiesa a richiesta del Pontefice mandi trecento uomini di arme pagati per tre mesi, o pure possano commutarsi in soccorsi di navi: che il Re, e suoi successori, non s'intromettano nelle elezioni, e postulazioni dei Prelati, salvo però quello che loro si appartiene per Juspatronato: che non s'impongano taglie alle chiese: che si tengano pronti mille cavalieri per Terra Santa etc."75

Carlo che sentiva tutte queste condizioni con animo di non serbarne pur una, maestosamente risponde: "Noi Carlo di Francia, per la grazia di Dio Conte di Angiò, di Folcacchieri, Provenza, e Linguadoca, Re di Sicilia, del Ducato di Puglia, e del Principato di Capua, a voi signor Clemente Pontefice IV, e in nome vostro ai vostri successori facciamo ligio omaggio pel Regno di Sicilia, e per tutta la terra ch'è di qua dal Faro fino alle frontiere, eccettuata la città e contado di Benevento, distretti, e pertinenze, a noi, e ai nostri eredi concessa dalla predetta Chiesa Romana; le cose espresse nella Bolla ratifichiamo, e di tenerle osservate promettiamo e giuriamo."

Matteo Cardinale Diacono, preso il libro degli Evangeli lo pone innanzi al Conte ed alla Contessa, che mettono le mani sopra di quello; Clemente tolti dallo altare due manti di porpora foderati di ermellino li porge ai Cardinali, che ne coprono le spalle a Carlo e a Beatrice, i quali súbito prostrati su i gradini dello altare ricevono dalle mani del Papa la unzione col crisma consacrato, e la corona reale, che Matteo gli presentava in un vassoio di argento. Beatrice trema, scolorisce, una lagrima le sgorga dagli occhi, e cade sul pavimento: Carlo impassibile, più che alla presente cerimonia, tiene l'animo rivolto ai mezzi di conquistare il Reame di cui per ora ha la corona soltanto. Il Pontefice, incoronati i personaggi, lascia egli pure cadersi in ginocchio, e invoca a braccia levate lo Spirito Santo; il popolo risponde alla prece con grida tumultuose; le campane suonando a distesa accennano la cerimonia consumata; le trombe vi aggiungono altissimo fragore. Viva Re Carlo! Viva la Regina Beatrice! Vivano i Re di Sicilia! e la chiesa al rimbombo pare che cada rovesciata dai fondamenti: pure tra tante voci che applaudivano si udì un urlo, che disse: Morte agli stranieri! Ogni uomo riputando di avere a lato colui che aveva tanto ardito (così l'urlo fu sonoro e terribile) si volse cruccioso, ma su le labbra del vicino udì spirare l'ultime sillabe, Viva Re Carlo: sospettarono molti che si fosse partito dal soffitto, e alzarono gli occhi verso quella parte; agli orecchi di Carlo rimase celato, e fu sentenza di morte per molte centinaia d'individui, che immolava in appresso per acquietare il sospetto suscitato nell'anima sua. Clemente, compiuta la preghiera, scese, baciò il Re su la fronte, abbracciò la Regina, e disse: "En uncti Domini, et Reges estis. Sicut rugitus leonis, ita est terror Regis; qui provocat eum peccat in animam suam: sed sicut divisiones aquarum, ita cor Regis in manu Domini. Pax vobiscum."76

In mezzo agli applausi della plebe romana i nuovi Sovrani volsero al Palazzo Laterano dove magnificamente banchettarono; il Pontefice si assise terzo alla loro mensa, ma in luogo più elevato, come conveniva all'altezza della sua condizione. Remosse le mense, andarono accompagnati dalla medesima comitiva alla Piazza di San Paolo, accomodata per uso di torneo. Quivi si addestrava quotidianamente la gioventù romana in certe giostre, che si combattevano con lance senza ferro chiamate bagordi; e così fosse piaciuto a Dio che sapienza di senno avesse avuto in quei tempi la Italia nostra, come aveva fortezza di bracci! Egli era un campo di forma ovale circondato da fossa profonda, larga quattro o sei braccia, che in queste occasioni si riempiva di acqua: presso al punto in cui le curve si stringono per riunirsi avevano tratto una linea retta, e lo spazio tra questa linea e l'estremo del campo serviva pe' sergenti, araldi, contestabili, ed altre persone necessarie a quel combattimento: intorno le fosse avevano inalzato palchi coperti di tappeti bellissimi, e tra questi, come ognuno potrà immaginare, andava distinto quello di Carlo per ricchezza di tappezzerie, ori, e bandiere di mille colori. Giovani donne di aspetto leggiadro, e di guancia fiorita, splendide delle più ricche vesti, sedevano tutte contegnose, cupide di un saluto per parte dei Cavalieri combattenti, che valesse a distinguerle. Intorno agli steccati la plebe stupida e feroce si affollava, si urtava per meglio vedere; a farla star quieta giovavano le calciate di lancia che d'ora in ora distribuiva il ruvido soldato. Accennando Carlo, suonavano un corno: le anime dei circostanti furono percosse da brivido di speranza, e di timore; un profondo silenzio si diffuse da per tutto: suona la seconda volta, - la terza; - allora si abbassano due ponticelli alla estremità della piazza, e i Cavalieri a due a due passano la fossa. Giles Lebrun Contestabile in mezzo del campo fece accostare i Cavalieri, e giurare loro sopra i santi Evangeli, che avrebbero combattuto francamente, senza frodi, senza malíe; che le loro armi non erano ciurmate, e che non avrebbero altro aiuto invocato se non quello di Dio, e della Vergine Santissima: dipoi rammenta loro di non ferire i cavalli, e divide il vantaggio del vento, e del sole; ciò fatto, si ritira alla estremità del campo dalla parte destra vicino al palco del Re Carlo per meglio ricevere i suoi ordini, e quivi rimane immobile come la statua del Commendatore Lojola: presso a lui stava il premio del torneo. Gli altri due minori contestabili con gli araldi si posero ai capi della piazza che abbiamo descritto, accanto ai ponticelli. I Cavalieri disposti in ordine da una parte e dall'altra aspettavano il segno. Giles Lebrun abbassa l'asta, e i Cavalieri si rovinano addosso. Vergognosa narrazione! sei Cavalieri italiani al primo affronto cadono scavalcati: i soli Cavalieri del fulmine, e primo venuto, si tennero fermi in sella; ma come se atterriti da súbita paura, voltaron i destrieri verso le lizze. S'alza all'improvviso altissimo suono di risa per dileggio dei vinti, e un battere di mani pe' vincitori, e uno urlare, e un pestare, che assordava la gente: le dame sventolavano le ciarpe; Carlo godeva in suo cuore che con la paura degl'Italiani si mantenesse la reputazione delle armi francesi.

"Siete voi Italiano?" - domandò il Cavaliere del fulmine al Cavaliere primo venuto.

"Sono."

"E che pensate di fare?"

"Vincere, o morire."

"Insegniamo dunque a cotesti superbi che noi due bastiamo per tutti."

Al punto stesso voltano le teste dei cavalli: gli spettatori in attenzione di nuove cose si tacciono. Trasportati dall'impeto dei loro destrieri, i tenitori che primi incontravano le lance nemiche furono Bilmont e Bresilles; questi percosso dal Cavaliere primo venuto stramazza sul terreno a gambe levate; quegli ferito dal Cavaliere del fulmine di colpo tanto rovinoso, che la lancia, rottagli la visiera, gli entra in bocca, gli taglia la lingua, e gli riesce dietro la nuca, sollevato di sella è scagliato cadavere lontano nel campo. I due Cavalieri italiani, riabbassate le aste, continuando il corso, si affrontano in Mirapoix il Siniscalco, e Jonville, il giovane Cavaliere; Mirapoix e il cavallo sotto l'asta del Cavaliere del fulmine vanno sossopra, e il peso dell'animale fiacca una gamba al caduto, che dai sergenti viene trasportato tutto doloroso fuori del combattimento; Jonville, quantunque côlto al cimiero premesse con le spalle le groppe del suo cavallo, e l'asta per lo spasimo gli sfuggisse di mano, nondimeno afferrata la spada voleva ricominciare lo affronto: il Cavaliere del fulmine gli spinge addosso il cavallo, e gli prende la mira sul fianco; guai a lui se l'avesse côlto, chè non avrebbe mai più vestito piastra maglia; ma il Cavaliere primo venuto vedutolo approssimarsi prese tempo, e gli dette tal colpo sopra la lancia, che sviatala dalla mira, si conficcò nelle coste del cavallo, si rimase, finchè tutta sanguinosa non apparve dall'altra parte: Jonville abbrividì a quel colpo, e considerando la sua vita andar salva per opera del Cavaliere primo venuto, porgendogli la spada gli disse: "Signore, la cortesia vostra mi ha conquistato."

"Uscite, e tenetevi su la vostra parola per mio prigioniere all'estremità del campo."

I fratelli Vandamme, nobilissimi giostratori, e pieni di prodezza, mal sofferendo quell'onta, si fanno con gran cuore a vendicarla. Quel dallo scudo nero con goccie di argento ferisce il Cavaliere del fulmine, gli fora lo scudo, e passa senza ricovrare la lancia; il Cavaliere percosso non piega un dito dal cavallo, ma sbaglia il suo colpo, e non trova il corpo avversario, cosa che soleva accadere ai giostratori mal pratici, o fuori di esercizio: infiammato di sdegno afferra la mazza d'arme, che gli pendeva dall'arcione, e la scaglia con tanta aggiustatezza sul fuggente Vandamme, che gli taglia l'elmo, la cuffia, e la ventaglia di acciaro; la testa ebbe salva per miracolo, se non che l'impeto della scure gli sfiorò un poco la pelle, e gli tolse alcuna ciocca di capelli: il Cavaliere del fulmine, che la vittoria sembrava rendere feroce, si disserra sul Vandamme, che intronato nel capo, privo del lume degli occhi, accennava ogni momento di cadere, lo prende alla gorgiera, lo tira giù da cavallo, e sprona verso la fossa per annegarvelo: un urlo di rabbia si fece sentire a quell'atto, e il Monforte, e lo Stendardo, si precipitarono a salvare il mal capitato compagno. Il Cavaliere primo venuto per questa volta fu più avventuroso di prima, perchè il suo avversario, mentre, arrivato da troppo acerba percossa, s'ingegna, stringendo i ginocchi, di non perdere le staffe, la cinghia della sella gli si rompe, ed egli trabocca sul campo; il cavallo lasciato in balía di , mentre vuol percorrere la piazza, è preso pel morso dal Cavaliere vincitore, e ricondotto cortesemente al vinto.

"Cavaliere, scendete, e cambiamo qualche colpo di spada, già che il cavallo non può più servirmi, almeno per oggi," - disse il Vandamme.

"Signore," rispose il Cavaliere primo venuto "volentieri farei quello che mi richiedete, ma il bisogno mi chiama altrove; io vedo il mio compagno assalito da due Cavalieri, posso lasciarlo solo: contro il Monforte, e non contro voi, noi portammo la sfida ad oltranza."

"Cavaliere, io non saprei dirmi vinto oggi, senza un patto."

"Ditelo."

"Che voi veniste a combattere meco domani: lo promettete?"

"Lo prometto, salvo che impedimento non si opponga."

Dopo queste parole il Cavaliere primo venuto si muove in soccorso del suo compagno, che, sopraggiunto dal Monforte di un colpo di lancia su la spalla destra, era stato costretto a lasciare il Vandamme, il quale fu miseramente calpestato dal suo cavallo, e piegare dal lato sinistro per modo, che, se non avesse puntato l'asta per terra, sarebbe per certo caduto; ma così presto si addirizzò, che lo Stendardo, avendo preso la mira bassa per ferirlo, piantò l'asta in terra. Il Cavaliere primo venuto, giungendo a gran corso, urta le spalle dello Stendardo così fieramente, che questi battendo col viso su le barde del suo destriere si sconcia il naso, e due o tre maglie della visiera gli si incarnano nelle guance; quindi continuando percuote il Monforte, e rompe nel suo usbergo la lancia; levata tosto la spada, si a tempestarlo, e s'ingegna a tenerlo corto, perchè non adoperi l'asta. Nel punto stesso apparisce uno stupendo caso; il destriero del Cavaliere primo venuto, di tutto nero che era, si tramuta all'improvviso, pezzato con grandi macchie di bianco.

"Ah! disleale Cavaliere!" gridò spaventato il Monforte "tu sei ciurmato. Contestabile!"

"Conte, vorreste con gli errori del volgo coprire l'onta della vostra sconfitta? fatelo, se vi pare onorato; ma se vi accostate, potrete conoscere, ch'io tinsi il mio cavallo perchè non fosse riconosciuto, e che la fatica ha fatto in parte cadere il colore."

Il Monforte dopo avere verificato il fatto, rispose:

"Comunque ciò sia, scendete, Cavaliere, e combattiamo a piedi."

"Come volete, Conte." E scesero, e continuarono la battaglia più fieri di prima.

Il Cavaliere del fulmine, ripreso campo, venne molto terribile sopra lo Stendardo, che côlto all'improvviso traboccò da cavallo; il suo nemico, riputandolo svenuto, scese, e gli andò incontro per finire la battaglia: lo Stendardo rilevatosi strinse la spada, e cominciò a difendersi assai francamente; erano i suoi colpi quanto quelli del Cavaliere del fulmine poderosi, ma faceva meno frutto a cagione dell'arme; imperciocchè i Francesi adoprassero in quei tempi i ferri quadrangolari taglienti su la punta soltanto, che con proprietà di vocabolo si chiamavano stocchi, mentre gl'Italiani li usavano taglienti per ambidue i lati, e in cima, i quali si distinguono col nome di spade. Ricambiati molti colpi, che non meritano descrizione, il Cavaliere del fulmine dette di tanta furia con la punta della spada nello scudo nemico che da parte a parte lo traforò.

"Cavaliere," allora esclamò giubbilante "non so se il vostro scudo per picchiar si rompa, ma certo per forar si fende."

Lo Stendardo rispose con una stoccata, che tagliando le piastre dell'usbergo nemico, gli piagò il fianco, e ne trasse il tepido sangue. L'offeso, pieno di sdegno, gettato lo scudo, afferrata la spada a due mani, percosse su la testa dello Stendardo; questi, che stava troppo bene su la guardia, fu presto a ricoprirsi il capo dello scudo; la spada cade, taglia lo scudo, il cimiero, l'elmo, e forse gli avrebbe diviso la testa, se non che il ferro col quale era fissata nell'elsa, si torce, e però la sua forza cessava sopra la cuffia di ferro: il feritore vedendo il nemico stordito, senza porre tempo tra mezzo, gli si spinge addosso, afferra con la manca la sua destra, e così forte gli contorce le ossa, che mandarono uno scricchiolare, come se fossero stritolate; lo Stendardo dal gran dolore rinviene, e lascia andare lo stocco; il Cavaliere del fulmine si avanza con la sua gamba destra tra le gambe dell'avversario, e con la mano tuttavia armata dell'elsa, di tanto grave punzone lo pesta nella visiera, che senza pure aver tempo d'invocare i Santi, di nuovo spasimato lo rovescia sul terreno; il feritore seguendo la sua vittoria trae il pugnale, si china, gli taglia il cuoio della visiera, e gli grida che si renda; nessuna risposta: lo Stendardo aveva la faccia piena di morte; su la bocca, e sul naso una spuma sanguinosa, intorno gli occhi un lividore quasi nero; ben fu due e tre volte tentato il Cavaliere del fulmine di conficcargli la lama del pugnale nella gola, e l'alzò, ma poi, come sdegnoso di tale atto, che il costume del tempo non considerava per vile, gli prese la spada, e lo lasciò privo di sentimento sul campo.

"Quanto era meglio per voi, che Goffredo di Presilles non inventasse il torneo!" gridò il Monforte ferendo di gran forza il Cavaliere primo venuto: "pensate a non dar tanto affanno alla vostra dama, a non far piangere la madre vostra."

"Volete soccorso?" - disse, sopraggiungendo, il Cavaliere del fulmine al suo compagno, che vide in due o tre parti ferito.

Questi non risponde parola, e, come se fosse tutto fresco, raddoppiato vigore, muove tanto furioso assalto al Monforte, che, con la sua arte, appena di tre colpi può pararne due; calando terribili fendenti di sotto, di sopra, gli manda in pezzi lo scudo, gl'infrange in minutissime scheggie lo spallaccio di acciaro, e così aspramente gli impiaga la clavicola, che il braccio per poco sta che non gli cada in terra reciso.

"Guarda, Monforte, quanto t'era meglio avere Italia senza colpo ferire! guai a te, se i suoi guerrieri combattessero tutti!" - esclama il feritore, e lo incalza.

Il Monforte soprappreso dall'angoscia comincia a perder terreno, ad ogni colpo cede un passo; il suo nemico avanzando calca le orme stesse, ch'egli imprime fuggendo; Il ferro del Cavaliere primo venuto, veloce, come la lingua del serpente, ora lo ferisce sul ventre, ora gli penetra nella visiera; tutto il suo corpo con tale un impeto assai più che umano gli preme le ginocchia, e il petto; il pensiero che il suo avversario sia ciurmato torna più spaventoso che mai nella mente del Monforte, poco contribuisce ad avvilirlo.

"Renditi, o sei morto! " - grida l'incalzante, che scorge il Monforte giunto in parte che indietreggiando anche un poco si sommerge nella fossa.

"I miei padri non si sono mai resi."

"Questo vuol dire ch'essi furono più valorosi di te, non già che tu non debba cedere al più forte: chiamati vinto."

"Uccidimi se hai vinto, ma non isperare che io te lo dica."

Allora il Cavaliere vittorioso, voltate le spalle, si mette a fuggire: il Monforte, sorpreso del caso, si guarda attorno, e si vede su l'orlo della fossa: - tu non lo avresti fatto, - gli rimprovera la voce della coscienza: disperato di vincere la prova, torna a combattere per morire onoratamente.

Il Cavaliere del fulmine, con le mani sopra il pomo della spada fitta nel terreno, stava immobile a considerare il mortale duello; poteva, se avesse voluto, con un suo colpo finirlo, ma lieto del valore del compagni, gliene lasciava tutta la gloria.

Il Monforte cade abbattuto, il suo nemico gli calca il seno col piede, e alzata con ambedue le mani la spada di punta su la visiera smagliata, gli parla: "Cavaliere, troppo mi graverebbe ucciderti, perchè, sebbene orgoglioso quanto Lucifero, io ti provai valente nell'armi, e quello che potevi fare hai fatto per difenderti da me: chiamati vinto, salva la vita; e rammentati che se Italia dorme, non meritava di essere effigiata capovolta nel tuo scudo; ella dorme, ma se si sveglia, quale schiatta umana la vincerà?"

"La vittoria ti ha dato il diritto di uccidermi, uccidimi; ma risparmiati in nome di Dio questi tuoi sanguinosi rimproveri: io ti avrei di già trucidato!" - rispose il Monforte a mala pena respirando per la oppressione che gli davano le angoscie del corpo e dell'anima.

"Renditi, ed hai salva la vita."

"No."

"Che faremo noi di questo ostinato?" - domandò il vincitore al Cavaliere del fulmine, il quale freddamente rispose: "Dategli il colpo di grazia."

E l'obbediva, se non che ad un tratto sente gridare per ogni parte: "Ferma! ferma!" e il rumore di una moltitudine che si muove gli percuote l'orecchio; alza la faccia, e vede superate le lizze, valicate le fosse, ed una calca di gente stringersi in cerchio intorno di lui.

"Che è questo?" - domandava al compagno.

"Il Conte di Provenza" gli rispondeva costui "lo ha dichiarato vinto facendo alzare la lancia al Contestabile Lebrun. La nostra parte è finita, andiamo."

"È egli bene che ce ne andiamo a guisa di fuggitivi?"

"Io credo che sì: questa gente che ci viene addosso ama più il Monforte di noi, e non è la prima volta, che il premio del Cavaliere vincitore del torneo fu morte a tradimento: se volete campare, salite in sella, e seguitemi."

Il Cavaliere, lasciato il Monforte. che dopo le ultime parole era caduto in deliquio, montò il suo cavallo, e si mise dietro allo sconosciuto compagno: questi cavalcò al luogo dove stava il premio del torneo, levò da terra l'asta, l'armatura e lo zoccolo, prese una coppa piena di bisanti, e la gittò alla plebe, la quale si sbandò in un subito per raccogliere le monete: allora l'avresti veduta percuotersi nel volto, carponi per la terra: e qui taluno aspettare che il suo vicino avesse preso il bisanto, poi dargli un pugno sotto la mano, il bisanto balzare all'aria, egli ghermirlo, fuggir via, e mescolarsi nella folla, che richiudendosi a un tratto non permetteva al derubato di perseguitarlo; tali altri afferratisi pe' capelli, mentre s'impediscono scambievolmente di raccogliere la moneta, che potevano dividere, giunge un terzo che la porta via

 intera; in somma era uno schifoso spettacolo dell'umana cupidigia: molti considerando che i loro sforzi sarebbero tornati vani per acquistare i danari già sparsi, si affollavano al Cavaliere del fulmine, che gittò la seconda coppa, e la terza, e la quarta, tanto che giunse a distrigarsi a salvamento fuori di quella ciurmaglia.

L'onorato Lebrun, che quantunque il giorno innanzi offeso dal Monforte, aborriva ogni vendetta, che non fosse generosa, fu che salvò la vita al male arrivato Conte. Carlo, più volte a grande istanza da lui supplicato, ordinò che sollevasse la lancia, cosa che il Contestabile fece molto volentieri; e quindi affannoso andò co' sergenti a soccorrere il Monforte, che privo di sentimento trovarono steso per terra, e con modi soavi trasportarono alla sua abitazione.

I Cavalieri primo venuto, e del fulmine, comecchè cavalcassero a gran fretta, furono ben tosto raggiunti dai loro sei compagni, i quali, rimasti prigioni a prima giunta, non trovarono per l'esito della battaglia impedimento all'andare. Così riuniti, senza profferire parola, s'internarono nel più profondo di una vicina foresta; avevano forse mille passi percorso, allorquando si abbatterono in circa dugento uomini di arme, che da lontano con le daghe e con le partigiane gli salutarono. Il Cavaliere del fulmine venuto loro dappresso si calò la visiera, e disse: - "Compagni, abbiamo vinto."

 

 

 

 




72

Cuopron di manti lor li palafreni,

Si che duo bestie van sull'una pelle:

O pazienza, che tanto sostieni!



73 Il nome di Ciarlatano è venuto da questi poeti erratili, che a modo degli antichi Rapsodi andavano di città in città a cantare di Carlomagno, onde si fece il Carlocantare, in appresso Carlotanare, e alla fine con maggior corruzione Ciarlatanare, e Ciarlatano.



74 Vedi pag. 65.



75 Molte altre sono le condizioni, che non abbiamo poste per non riuscire gravosi, le quali si possono riscontrare nel Giannone.



76 Ecco, siete Re, ed unti del Signore. Il terrore del Re è come il ruggito del lione; chi lo provoca a indignazione pecca contro l'anima sua: ma come i ruscelli di acque, il cuore del Re è in mano di Dio. La pace sia con voi.






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