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Francesco Domenico Guerrazzi
La battaglia di Benevento : storia del secolo 13.

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CAPITOLO DECIMONONO.

 

 

LO INDEMONIATO.

 

Che di amara radice

Amare foglie e amare frutto nasce:

Il misero si pasce

D'orrore e di paura,

Di lacrime e sospiri,

Sempre in nuovi martiri,

E per lui solo al mondo il pianto dura.

 

ORESTE, tragedia antica.

 

"Va, corri, Beltramo, - fa di recarmi tosto la mia armatura.... e la lancia.... e la spada.... e...."

"Il pugnale?"

"Sì certo, il pugnale, - la più nobile invenzione per distruggere, che onori lo spirito umano, - il pugnale. Poni la sella al destriero...."

"Santa fede! che vorreste partire, bel Cavaliere? Guardate a quello che siete per fare: perchè le vostre ferite sono rimarginate di fresco; e così debole non saprei se...."

"Parti, e fa quello che ti ho comandato: chi ti ha reso tanto ardito di provvedere al mio bene? chi ti ha detto di prendere cura della mia salute? chi ve la dovrebbe, e ve la potrebbe avere, non vi bada tanto quanto, e vuoi averla tu, disgraziato! che non sei sufficiente di pensare a te stesso? presumi essere meno tristo, meno debole, meno scellerato di me?"

"Ma io, bel Cavaliere, possa morire scomunicato, se intendo sillaba del vostro discorso: non avreste veduto per caso la Tregenda dentro qualche macchione? Su via, non vi curate di cavalcare a quest'ora; messer Ghino non è ancora tornato, e non sarebbe mica cortesia cotesta di andarsene senza togliere commiato."

"Che mi parli di cortesia, sciagurato! quando altri mi tradisce beffando, mi strazia il cuore ridendo, e viene quasi a spettacolo per godere nella contemplazione dei miei dolori! - l'arme, ti ripeto, l'arme."

"Deh! bel Cavaliere, voi volete gettarvi via ad ogni costo; la vita è pur vita, e perduta una volta non si ricompra mica a contanti: sarebbe pure il gran peccato, che veniste così miseramente a morire, poichè mi sembrate gagliardo, e pro' della persona; guarite prima per bene, poi non mancherà tempo a lasciare questo mondo...."

"Dov'è l'armatura?"

"Santa fede! O Cavaliere, da che non avete nessuno amore per voi, abbiatelo almeno per me; considerate di grazia che il ferro confricando le vostre piaghe tornerà a riaprirle prima che sia un'ora."

"Ma che destino è il mio, che l'odio e l'amore degli uomini debbano riuscirmi ugualmente importuni?"

Questo dialogo, come la più parte dei miei lettori avrà immaginato, fu tenuto da Rogiero, che, dipartito dal convento, si era ridotto alla casa di Ghino, con Beltramo, il caritatevole custode del moribondo Drengotto. Terminate ch'ebbe Rogiero le riferite parole, cadde in pensiero, e declinò la faccia tra le mani; onde Beltramo, conoscendo che predicava al deserto, stimò nessun'altra cosa rimanergli di meglio che eseguire il comando. Già non poteva il masnadiero di lungo spazio avere trascorso la porta, allorchè Rogiero, crollata la testa, si dette a camminare per la stanza furiosamente.

"Mi prostrerò al suo trono," diceva "mi prostrerò.... io che non mi sarei curvato innanzi cosa immortale, cadrò adesso ai suoi piedi? Sì, cadrò, perchè la mia alterezza si dipartiva dalla innocenza.... oh! come avvilisce la colpa!"

"Bel Cavaliere, ecco l'armatura;" entrando nella stanza favellava Beltramo.

Rogiero non gli poneva mente, e continuava così: "Ho voluto io la colpa? Io mi sarei sottratto a quella con la morte; pure ne porto la pena. Questa è una via dolorosa; la sventura mi flagella, affinchè senza requie pervenga al fine, e al fine mi attende l'infamia...."

"L'armatura, Cavaliere...."

"Ora temo il riposo della terra, perchè mi cadrebbe addosso, come il peso all'ostinato che volle caricarsi le spalle più che le sue forze gli concedevano.... e non sarebbe già volontario.... avrei per iscusarmi.... e per accusarlo le ragioni di prima.... - Non le avrei? Non sono circondato di lacci? Non mi hanno strascinato alla dannazione come omicida al supplizio? Io leverò la faccia, e gli dirò...."

"L'armatura, Cavaliere, l'armatura...."

"Che debbo farmi dell'armatura? il mio nemico è invincibile; l'asta e la spada non valgono contro di lui; egli combatte con la volontà. Altra forza che non è la mia, - altro ardimento, hanno perduto la prova.... toglimi dinanzi cotesta armatura, che si fa beffe della mia debolezza, perchè non v'ha corpo nella creazione che non giunga a guastare questa mia fievole coperta di pelle."

"Vi domando mercè, Cavaliere; ma voi non mi avete pur ora mandato per essa?"

"Io ti ho mandato? hai tu bene inteso?"

"Toglietemi qualunque facoltà vorrete, vi aspettate di sentirne un lamento; ma negli orecchi, Cavaliere, credo valere quanto alcun altro mio fratello di umanità."

Rogiero si pone in atto di uomo che vuole richiamare alla mente una cosa sfuggita: "Se io l'ho detto, segno è certo che ne aveva ragione.... O stato che commuovi il riso, perchè sei superiore del pianto!" e così favellando torse alquanto la bocca. "Ah! mi sovviene adesso; non devo prostrarmi, e chieder perdono?" Il rossore gli trascorse su per le guance fino alla radice dei capelli, e dopo alcuna pausa ricominciava: "Non di qui, non di qui la vergogna prende principio; segue ella come un'ombra il misfatto. Col prostrarci può bene diventare maggiore; ma ormai l'avvilimento è consumato; - porgimi lo usbergo."

Beltramo, obbedendo al comando, gli fece passare le braccia per gli scavi che cingevano le spalle, e si pose a fermarglielo addosso, stringendo le fibbie che di sotto l'ascella destra si terminavano poco sopra il fianco: imperciocchè gli usberghi, corsaletti, giachi, ed altre arme di simil sorta, fossero fatte a modo delle moderne sottovesti, se non che mastiettate da un lato per potersi aprire e chiudere, e dall'altro, come abbiamo detto, avessero diversi fermagli, co' quali si fissavano su la persona del cavaliere. Beltramo proseguendo l'ufficio venne all'improvviso interrotto da una esclamazione angosciosa di Rogiero, che disse: "Ahi! Quanto ti hanno dato i miei nemici perchè tu mi ferissi alle spalle?" e con súbito atto portò la mano su i reni per conoscere s'era stato ferito.

"Cavaliere!" rispose Beltramo indietreggiando di alcuni passi "ma che credete di stare tra masnadieri davvero? Non ve l'ho io detto che le vostre ferite non sono ancora del tutto sanate? e questa vi darà nella via più gravezza delle altre, come quella che rimane sotto un fermaglio dello usbergo. In che vi ho nociuto io, onde dobbiate così stranamente diffidare di me?"

Rogiero volse la faccia a Beltramo ridendo di quel sorriso col quale soglionsi ascoltare le parole dette con poca sapienza, o con molta stoltezza, e soggiungeva così: "Ogni uomo è onesto prima di farsi scellerato, - il non avere commesso il delitto significa rettitudine di anima; - ormai chi sa quanti ne avrai commessi col pensiero! ma risponderai che tu non chiamasti la mano ad esprimere la perfidia della mente; e credi per questo di essere meno colpevole? forse ti fuggì l'occasione; ma questa ti può essere offerta ad ogni momento. Torci le labbra? - non mi hai fede? frugati giù nel cuore, sfacciato, e affermami sul viso, se l'osi, che non hai mai pensato alla colpa."

"Vi chiedo mercè, Cavaliere, ma io stimo che la miglior cosa pel nostro cuore sarebbe lasciarlo stare in pace. Io per me credo di non valere più meno di qualunque altro uomo; questo so certo, che non farei tradimento a persona, e meno a voi, bel Cavaliere; d'altronde poi io sono uomo grosso, m'intendo di tante sottigliezze; pensatela un po' come vi pare, chè per questo non dormirò meno gagliardi i miei sonni. Intanto venitemi presso senza timore, se volete che io termini di affibbiarvi l'usbergo; o più tosto, se volete seguire una volta un buon consiglio, che ve lo tolga da dosso, perchè, permanendo ancora qualche giorno, possiate ricuperare affatto la vostra salute."

Rogiero ravvicinatosi a Beltramo gli ordinava seguitasse ad armarlo; e allorchè di tanto in tanto il ferro, accostandosi su le mal rimarginate ferite, lo pungeva di acri trafitte, non più, come dianzi, dubitava di tradimento, ma esalava il concetto dolore con un gemito ammezzato tra i denti: allora Beltramo si rimaneva, e alzava gli occhi per riguardarlo: - la espressione dello spasimo era già dileguata dal volto di Rogiero, e compariva composto in certa impassibilità maestosa, che pareva era propria della sua natura, ma chiamatavi a forza, e a forza costretta a rimanervi da un senso magnanimo di alterezza; il che faceva cosa stupenda, e a un punto compassionevole a vedersi.

"Quando," continuava a dire Rogiero, "quando ritornerà messer Ghino, gli dirai, che da poi la nostra natura è così vile, che al racconto dell'altrui disastro il proprio o tace, o diminuisce, tolga argomento dai miei casi di consolarsi dei suoi, i quali in proporzione dei miei sono giuochi da fanciulli; gli dirai ch'io fuggo per non attristarlo con una terribile storia, se veramente mi ama, e per non farlo godere, se finge.... o invece, e farai meglio, non dirgli nulla: dalle mie vicende non può derivarne che male; per esse sarà noto che non giova onestà, non giova costanza, - l'amore, la carità, e ogni altra magnanima passione, non giovano; che una forza alla quale non ci è concesso resistere ci strascina; che non vive uomo il quale possa vantarsi incolpevole, - e se lo fa, è stolto; e se l'occasione gli si presenta, la sua anima darà una mentita a stessa; cose in somma che sarebbe pur meglio ignorare, la scienza delle quali prostra le menti invece di suscitarle, e le fa gemere sotto il peso della umanità, come schiavo per la gravezza del travaglio assegnato." E così discorrendo, e cumulando errore ad errore noi non sappiamo dove sarebbe andato a riuscire, se Beltramo in quel momento, stretta l'ultima cintola, non avesse detto: "È finita."

"Me avventuroso, quando proferiranno questa parola sul mio cadavere! Pure chi sa che anche nella fossa non mi aspetti qualche altro affanno, e chi sa se veramente dentro si trovi riposo! Nonpertanto io non posso sperarlo altrove, poichè le nostre condizioni sono la vita e la morte, e nella prima già mi dispero di più mai conseguirlo."

Soffrendo impazientemente che più oltre si prolungasse il tempo di armarlo, con quelle armi che si trovava in dosso uscì della stanza e scese nel cortile, dove trovò il suo buon destriere Allah in punto di essere cavalcato, tenuto da uno scudiero: senza altre parole, posto il piede in istaffa, inforcò la sella, e lo spinse fuori del cortile. Mentre stava per uscire, messer Ghino, reduce con alcuni dei suoi dalla divisata spedizione, gli si presentò dinanzi, attraversandogli la via.

"Dove, Principe?"

"Dove piace a colui che padre e innocenza mi ha fatto perdere a un punto."

"Voi mi parlate strane novelle, Rogiero: vorrestemi in cortesia farmele chiare, narrandomi quello che vi è avvenuto?"

"Non vi curate conoscerlo, messer Ghino; già sapete assai per disprezzare la vostra schiatta; io ve la farei abborrire, e troppo grave danno ne verrebbe a voi, ed a lei: sgombratemi la via."

"Voi siete ammalato nello spirito, amico mio; e se la compassione non permette di abbandonare lo infermo di corpo, molto meno concederà di abbandonare l'ammalato nel cuore, di cui le malattie travagliano più profonde e terribili."

"Ghino, Ghino, sgombratemi la via, o ch'io vi spingo addosso il cavallo, succeda quello che può succedere."

"Dio eterno!" gridò Ghino ritraendosi, e sollevando al cielo le mani; "tu gli hai tolto il senno...."

"Amico," esclamava Rogiero in andando "ormai se è vero che l'uomo può amare l'uomo, la qual cosa non credo, fa di mestieri trovare un'altra parola per esprimere questo amore, da che amicizia sta per significare tutto ciò che l'odio, la rabbia e la frode, possono commettere di tristo contro la creatura che parla. Io da qui innanzi, quando alcuno mi si vorrà dire amico, porrò le spalle alla parete, per non trovarmi trapassato da tergo, e porterò le mani alla borsa, onde non mi sia rubata nell'abbracciamento." E tuttavia cavalcando aggiungeva moltissime altre sentenze, che il vento, quasi avesse senso di ragione, tolse all'udito, e che sarebbe pietà riferire: vadano pure disperse, che noi rispetteremo il diritto dell'elemento, e potessero con quelle disperdersi le colpe che le fecero dire, le quali pur troppo vissero, vivono, e crescono tra noi! Il popolo ci accusa di essere troppo vaghi d'investigare le colpe, e desiderosi di calunniare l'umana natura. O popolo, popolo! Dio che scende nel profondo dei cuori, Dio sa se è sincero il nostro voto, e se più tosto di attristare noi stessi ed altrui col racconto dei misfatti, vorremmo celebrare le tue glorie, diffondere la luce del canto sopra i gesti magnanimi, inebriarci nell'aere della virtù.... ma guárdati intorno, e domanda dove sia la virtù, - non troverai pur l'eco che risponda a questa strana parola.

Rogiero, travagliato dalla febbre dei tristi pensieri, di più in più si allontanava per la pianura; ma poichè tutti i nostri affanni trovano fine, rallentandosi, se tali che la nostra pazienza possa soffrirli, o distruggendo l'anima qualora le sieno superiori; quelli di Rogiero non essendo di forza da distruggerla, così la cortesia, ch'era in lui veementissima passione, appena trovò luogo di farsi sentire, gli rimproverò le strane maniere tenute con messer Ghino, il solo tra la famiglia degli uomini ch'egli avesse riputato degno di riverenza e di onore; voltò la testa all'indietro quasi per fare sue scuse alla parte del cielo che copriva quel valoroso; imperciocchè credeva lo avesse ormai trasportato il cavallo oltre la vista della sua dimora, ma s'ingannò; che il destriero non istimolato dal suo signore s'era fatto innanzi a piccolo passo, ed egli ebbe agio di vedere il buon messer Ghino, il quale nella medesima situazione in che lo aveva lasciato stava a riguardarlo: trasse dal lato destro la briglia, dette di sprone a manca, ed in meno che non si dice Ave Maria giunse presso Ghino, smontò da cavallo, e gli cadde smanioso tra le braccia; la testa, come se non potesse sopportare il peso della commozione, abbandonò sopra le spalle dell'amico; in faccia divenne tutto bianco, nessuna lacrima gli sfuggì dagli occhi, la gola chiusa non avrebbe concesso che le parole suonassero, egli si provò a favellare. Ghino lo sorreggeva, niuna cosa si aggiunse alla sua prima espressione, se non che una grossa lacrima formatasi lentamente gli gocciò giù per la guancia, posandosi alla fine sui capelli di Rogiero; dopo la prima ne sgorgarono delle altre assai, e a mano a mano più spesse; il volto però, come abbiamo detto, non prese nuova attitudine, ogni muscolo rimase al suo luogo; - pareva che gli occhi non avessero nulla che fare con quelle lacrime; - che spontanee si dipartissero dal cuore. Un poeta a considerare quel pianto sotto quelle ciglia irsute scendere per un viso adusto e di dure sembianze, quale era quello di Ghino, avrebbe súbito trascorso col pensiero ai versi di Omero, nei quali egli paragona il pianto di Agamennone

 

".......... a cupo fonte,

Che tenebrosi da scoscesa rupe

Versa i suoi rivi........... 81"

 

Le principali passioni di questi nostri personaggi, dove potessimo significare mediante la favella, non sarebbero degne di qui riferirsi; esse non pure assorbivano ogni altra potenza dell'anima, ma sforzavano talmente quella destinata a riceverne gl'impulsi, che un poco più che si fosse tesa rompevasi col danno di certissima morte. Non fiatarono, e pure quello amplesso muto disse più di quello che eglino avrebbero potuto esprimere in diversa maniera: l'uno non chiese, e l'altro promise; questi accettò, e quegli non proferse; in somma moti secreti di natura purificata che il volgo non potrà mai concepire, e dalla storia dei quali vuolsi tenere lontano quanto dai misteri del Santuario.

"Dunque" dopo lungo tempo cominciava messer Ghinoirremovibile volontà vostra partire senza dimora?"

"È."

"Terreste alcuno dei miei in vostra compagnia?"

Rogiero gli strinse la mano, e fissò i suoi negli occhi di lui, il quale atto valse un ringraziamento; dipoi soggiunse: "Messer Ghino, lo stato che adesso mi torni meno gravoso nella vita mi sembra la solitudine."

"Sia fatta la vostra volontà. I miei passi son rivolti al Regno; terrò le stanze alle falde dei monti di Arpino presso le sponde del Garigliano, sopra il terreno una volta occupato dal valore dei Saracini; - quel terreno io considero come retaggio paterno, perchè appartenente ad una schiatta perseguitata e infelice: quivi, voi lo sapete Rogiero, vivrà un cuore di cui il penultimo sospiro sarà per Dio, l'ultimo per voi, e un braccio che combatterà in vostra difesa, finchè potrà sostenere peso di spada: solo che non mi chiamate contro Manfredi: - io potrò bene stendere la destra sopra la brace accesa, non già inalzarla contro colui che ho cominciato ad amare."

"Comunque possa sembrarvi strano, sappiate, messer Ghino. che se io mai invocherò il sussidio delle vostre armi, questo non sarà se non in favore del Re Manfredi; più oltre non v'è concesso conoscere di questa avventura; a me riuscirebbe troppo gravoso dirlo, a voi ascoltarlo; bastivi quanto ve ne ho raccontato. Ghino, mio dolce amico, addio." Rogiero proferite queste parole gli strinse di nuovo la mano, Ghino rispose: "Voi mi levate un gran peso dal cuore: certo adesso non istarà per noi, che i Barbari non sieno cacciati di dalle Alpi; la vostra spada, Rogiero, per quello che mi parve a Roma, può compensare a misura di carbone il male che avrà fatto la vostra lingua. Addio.... badate di non porlo in dimenticanza, - alle falde dei monti di Arpino...."

"Dimenticanza! Quando l'anima oblierà che v'è stato uno ieri, e che vi sarà un domani, allora soltanto potrà dimenticarvi, Ghino!"

"Sì bene; dunque colà aspetto la vostra chiamata. Intanto affileremo le daghe, onde, se alcuno dei Francesi scamperà, possa narrare a quelli di dai monti, come taglino i ferri italiani. Addio.... Aspettate, Rogiero: se per caso non vi fosse data comodità di venire in persona, a voi, togliete questo pugnale, il messaggiero che spedirete a recarmelo ritornerà alla vostra presenza con quattrocento uomini di arme, ed un amico."

"Che posso dirvi, Ghino? - Addio!"

" differite a chiamarmi nelle ultime strette; spesso, Rogiero, minor numero di gente di quella che io conduco, giunta in buon punto, ha reso vittorioso un esercito, che migliaia di armati, trascorsa la occasione, non hanno potuto salvare. Non vogliate risparmiarmi; pensate, che accorrendo con le armi nulla opero per voi, poco per Manfredi, molto per me, che sopra i piaceri del buon cittadino altissimo io pongo quello di menare le mani in pro del mio paese.... Me lo promettete, Rogiero?"

"Ve lo prometto."

"Anche uno abbraccio, e addio!"

Ghino gli tenne la staffa; Rogiero, quando fu salito in arcione, gli stese la destra; egli se l'accostò alla fronte, e disse: "Ella mi fa bene al capo quanto la benedizione di mio padre: sopra tutto abbiate cura delle ferite. Addio, mio diletto Rogiero, addio! addio!"

Si allontanava lo sfortunato giovane tenendo la faccia rivolta all'indietro, di tanto in tanto salutando il suo amico, che non si mosse mai dal luogo, finchè potè seguitarlo con gli occhi; quando l'ebbe smarrito a cagione del suolo montuoso, e delle giravolte della foresta, salì sopra una torretta per vederlo riuscire su l'aperta pianura; qui pure il cielo lontano glielo nascose, o più tosto la debolezza della vista non gli concesse tenergli dietro; allora curvò la persona, e appoggiò le gomita alla sponda della torretta, puntellandosi ambe le guance, e così stette assai gran tempo, considerando il luogo pel quale si era dileguato. Di qual sorta fossero i pensieri che gli si avvolsero per la mente noi non sapremmo rapportare; soltanto diremo, che togliendosi di costà fu inteso mormorare la seguente sentenza: - "Poichè le gioie di questa vita giungono tanto rade, e passano così veloci. io tengo per fermo che le ci sieno date per farci sentire più addentro i dolori."

Rogiero, avendo raccolto per via, che la Corte e i principali Baroni dovevano quanto prima ridursi a Benevento, dove Manfredi aveva ordinato universale assemblea, divisò volgere quivi il viaggio, che stabiliva di fare a Napoli; e dopo un faticoso cammino per luoghi dirotti, reso più grave dalle piaghe inasprite, giunse l'ottavo giorno della sua partenza da messer Ghino in vista di Santa Agata dei Goti. Sia che temesse potersi celare, sia che desiderasse sfuggire l'aspetto dei viventi, Rogiero si consigliò di non entrare in quella città, ma posarsi alla campagna nella prima osteria che gli fosse occorsa, andò guari che il suo sguardo si fissò sopra una insegna dipinta sul muro. Il pittore, per quello che si poteva interpretare, aveva pensato raffigurarvi una luna nel suo primo quarto, allorchè somiglia, come ha detto Orazio in qualche parte delle sue Odi, - e la Musa sa con quanta gentilezza di concetto, - alle corna della vitella; certi globi neri condotti sotto la luna dovevano per certo fingere nuvoli, - almeno così credo; - sopra questa opera maravigliosa dell'arte stavano scritti con la brace i versi seguenti:

/* "Or che la notte è taciturna e bruna, V'invito nell'albergo della Luna." */

Veramente, - disse a stesso il cervello di Rogiero, senza che la sua volontà vi partecipasse per niente, - poteva esser meno tristo; pure poichè tutto bene non si può avere, il meglio è che si trovi fuori di mano. - Mentre così fantasticava, da un fabbricato contiguo alla casa acconcio a modo di scuderia sbucò fuori un fanciullo di strana sembianza: pallido in volto, con gli occhi loschi, le labbra rovesciate, i capelli stesi; la testa strettissima sul davanti, si allargava dietro, presentando la forma di una borsa per riporre danaro; la sua veste, screziata d'infiniti colori, aveva sopramesse le toppe con tanta leggiadria, da sembrare, più che altro, un arazzo. Questo fanciullo pertanto senza fare parola si avventò alla briglia del cavallo di Rogiero, sforzandosi condurlo seco: il cavaliere stese la destra armata del guanto di ferro, e così per taglio percosse la mano di quello indiscreto in maniera che indietreggiò di alcuni passi, strillando, e soffiando su la parte offesa.

"E" instava minaccioso Rogiero "fa voto a cui adori che non ti faccio peggio, perchè fin qui Cristiano Saracino può vantarsi di aver toccato la briglia del mio destriero."

Udendo poi che il fanciullo non cessava il lamento, per quella antica abitudine, che nessuno raziocinio varrà mai a cancellare dal nostro pensiero, di credere che uom possa con un pezzo d'oro, o di argento coniato, riparare le ingiurie, impedire alle lacrime di scorrere, e all'anima di sentire, il nostro eroe cavò fuori un fiorino, e l'offerse al fanciullo. Come avvenga questo, noi non sapremmo; ma i giovanetti, di cui lo spirito pare incapace delle nozioni più semplici, si mostrano sopra le altre bestie a due gambe bramosissimi del danaro; e sì che il modo di conseguirlo, quello di spenderlo, le cose che rappresenta, il perchè le rappresenti, dovrieno formare astrattezze non tanto agevoli a ficcarsi nella testa di un bambino; forse quel corpo lucido e rotondo vince ogni loro attenzione; forse, e questo mi sembra più vero, la scienza del quattrino sopra le altre scienze si adatta alla nostra natura, ed è la sola infusa che ci rimase da Adamo in poi. Rogiero, appena stesa la mano col fiorino, sentì mordersi il cuore. e poichè la velocità meccanica del pensiero, come sanno i lettori, formi anche oggidì il più efficace argomento per provare la spiritualità, in meno che non si chiudono gli occhi aveva conosciuto la sconvenienza tra una moneta e il torto apportato, la viltà di credere che lo avrebbe riparato, la stoltezza di volere con essa soffocare gli affetti, e molte altre idee, che appartengono a troppo arcano sapere, perchè possano convenientemente discorrersi in questo libro e convenientemente intendersi dalla più parte dei miei lettori. alcuno voglia trovare strano quanto ho proferito qui sopra: - imperciocchè la plebe sia di certa zotica complessione (e per plebe intendo non pure quella che cammina vestita di frastaglio e di tela, ma si bene anche l'altra che si fascia di panno da quaranta e più Lire per braccio), che se a caso la fortuna le sbalestra un libro tra mano, e vede di non comprenderlo, distingue súbito se la fama dello scrittore per venire da tempi remoti sia radicata nella mente degli uomini, o se, di tenerissimo tempo, abbia mala pena messo le barbe: nel primo caso s'ingoia come una spugna il vituperio della ignoranza, e quantunque non capisca nulla, ed abbia smania infinita di mordere, grida bravo! guai a lei se gridasse tristo, che il disprezzo terrebbe dietro alla nudità della mente, ed ella vuole essere bene in camicia di scienza, non coperta di obbrobrio. La malvagità del cuore poi si dimostra pienamente nel secondo caso: conoscendo di poter nuocere, di far sentire il suo urlo, di rovesciare nel suo fango chi s'ingegna uscirne, calcandole la testa, non è da dire se corra festosa, come l'asino di Esopo, a dare dei calci in fronte al lione affralito dalla malattia e dagli unni. Quindi è che i primi passi di colui, che non ha troppo soverchianti doti di mente per disprezzare ogni riguardo, vogliono essere cauti, ma cauti bene; se mette piè in fallo, già non confidi che alcuno pietoso gli stenda la mano soccorrevole; accorreranno tutti a gittargli addosso la pietra, e con essa lo scherno, e quelli principalmente che più lo confortavano di avventurarsi al passo. Gli uomini godono allo aspetto delle rovine, possono perdonare nessuna superiorità di averi e d'intelletto. La fama assai si rassomiglia al Paradiso dei credenti in Maometto, per giungere al quale fa di mestieri traversare Alzirat, il ponte largo quanto un filo di ragnatelo, sotto cui scorre una riviera di fuoco, che con la vampa e il fragore spaventa chi passa: qui sì che fa di bisogno davvero la buona coscienza che rassicuri; un lieve ribrezzo, uno sfumato raccapriccio è morte eterna: da quella riviera infuocata la forza degli angeli e degli uomini riunita nel braccio di un demonio non varrebbe mai a sollevarti. Leggesi, che certo storpio s'imbattè un giorno in un cieco, e poichè scambievolmente si ebbero raccontato con quanto pericolo e affanno ognuno di loro procedesse nello impreso cammino, il cieco proponesse di levarsi in collo lo storpio, e così l'uno giovando con le gambe, l'altro con gli occhi, potessero ambidue pervenire a buon salvamento. Oh! bella carità questa, e certo degna del mondo come dovrebbe essere; ma tanto e tanto va immersa la gente nella costumanza del male, che io per me affermo, che dove tutti fossero ciechi, e dispersi pel deserto, ed uno solo godesse della luce per bene condurli, vorrebbero traboccare più tosto in qualche dirupo, perdersi dentro il torrente, - morire in somma, che sopportare la condotta di quell'uno. Ma io ho promesso una istoria, e così seguitando parmi che si convertirebbe in un trattato di filosofia, - e quale filosofia! pure non mi l'animo di cancellare una sillaba; quello che è scritto è scritto; molti non capiranno, più molti non vorranno capire; nondimeno la verità vive senza bisogno di essere intesa, ed io ho avuto il coraggio di dirla, e spero in Dio di conservarlo sempre, che in questa terra da cotesto valore in poi non mi venne altro retaggio: intanto io me ne lavo le mani, e non come Pilato, e la infamia a cui tocca. - Ritorno alla storia.

Rogiero dunque, sì come raccontava, avvertito dalla gentile coscienza, stava per ritirare la mano, ed in vece del fiorino proferire parole di scusa, quando il giovanetto si gettò avidamente su la moneta, e con ambe le mani gliela svelse dalle dita; intanto il suo volto si ricomponeva alla quiete, e le labbra si schiudevano al sorriso, mentre che tuttavia le lacrime gli sgorgavano dagli occhi. Rogiero, assuefatto a conoscere molte passioni umane, e tutte schifose, non potè contenersi dallo esclamare: "Io non avrei mai creduto che col danaro si comprasse anche il dolore!"

Il fanciullo lo seguitava in atto sommesso, gl'insegnava il luogo ove meglio avrebbe accomodato il cavallo.

Rogiero, dato al suo Allah le cure di un amico, si incamminava all'albergo.

In mezzo della stanza stava l'oste, - strana figura a vedersi! lungo sperticato, comecchè per tenere le spalle levate verso la nuca apparisse senza collo, con molto scapito della sua statura: il petto, diverso da quello di ogni animale della sua specie, non era piano convesso, ma incavato, macilento quanto le vacche che vaticinarono a Faraone la carestia dell'Egitto, con certe mani scarne, unghiate da accomodarne i nibbii: - avresti giurato che a mettergli un lume dietro gli si sarebbe veduto che cosa pensava nel cuore; e a malgrado lo inviluppo della carne, io credo che gli si potesse studiare addosso l'osteologia; aveva la fronte aguzza, alta forse due dita; il naso torto all'ingiù, il mento all'insù: quasi due amici che anelassero abbracciarsi; gli occhi presso le palpebre di bel colore carminio, più oltre di piombo scuro; la bocca amplissima prendeva le mosse da un punto assai prossimo alle orecchie, e formava un sesto acuto sopra il mento; qualcheduno che avesse avuto vaghezza di fare similitudini, l'avrebbe assomigliata ai festoni da morto che oggigiorno si appiccano alle porte delle chiese; il colore avrebbe impedito, chè se i labbri con erano neri non erano neanche vermigli. Il ritratto di questo personaggio non arriva anco a mezzo, e le tinte su la tavolozza mi mancano, onde sarà meglio finirlo con dire, che i suoi moti parevano raccolti dagli scimmiotti, e dai maníaci; il suo favellare da prima lento, poi precipitato in guisa che spruzzasse la saliva in volto a cui gli stava dinanzi, e negli angoli della bocca gli spumasse un rigonfiamento di bolle bavose. Il primo pensiero che suscitava il suo aspetto era di scherno, il secondo di paura; se avesse avuto la coda, lo avrebbero sbagliato con Moloch, il demonio della avarizia.

"Ben venuto," disse costui appena vide Rogiero, facendogli profondissimo inchino col berretto alla mano, e percorrendolo da capo alle piante con tali sguardi che parvero una frugata di doganiere, "ben venuto sia il Cavaliere. Ahimè! la fortuna non può pararmi dinanzi nessuna occasione nella quale tanto mi dolga delle rapite sostanze quanto in questa, perchè non mi è dato di onorare come vorrei il Cavaliere che mi fa dono della cortese presenza; nondimeno spero in Santo Menna il Solitario, nostro Santo protettore, di potere sempre onestamente servirvi pe' vostri danari. Voi siete proprio nato vestito a capitare al primo tratto alla Luna; avreste potuto, procedendo oltre, trovare l'Aquila d'oro, l'Orso bianco, - Santo Menna glorioso! belle mostre, - fattucchierie per iscorticare i poveri forestieri; e poi si vanno vantando che l'anitre loro sono più grasse delle mie, - come se non respirassero la medesima aria: e' vi so dire, signor Cavaliere, che hanno posto davanti a chi ebbe la mala ventura di cadere dentro più galli morti di pipita di quello che non v'ha fiori in primavera; e una donna assai mia familiare, che pratica cotesti inferni, mi assicurava l'altro ieri che seppellirono nello stomaco di certo uomo dabbene un gatto per lepre. Io per me non so come la Signoria non vi prenda rimedio, solamente per la salute pubblica.... Basta, da un pezzo in qua le cose vanno a rifascio: io sono uomo grosso, so molto di ciò che sapete voi altri signori; pure, se stesse a me comandare, vorrei...."

Rogiero, per le cose proferite dall'oste ormai rassegnato di trangugiare un mal pasto, senza più badargli s'indirizzò verso una camera dalla quale usciva rumore confuso di gente, che parli insieme a gola spiegata. Giunto che fu sopra il limitare osservò quattro uomini che portavano in testa cappelli di ferro, in parte ammaccati, in parte rugginosi, e intorno alla vita corsaletti parimente di ferro; le partigiane e le daghe avevano posto in un canto della stanza: stavano seduti da un lato della tavola alternando il mandare dentro bicchieri di vino, e il cacciare fuori discorsi. Questi uomini, che appartenevano a qualche compagnia di vassalli armati, che ogni Barone si faceva pregio tenersi appresso, sorsero all'apparire di Rogiero, e molto rispettosamente lo salutarono, imperciocchè fossero da remota consuetudine assuefatti a fare così a tutte le armature ornate con fregi di oro, o di argento. Rogiero ringraziava con la mano, e invitava che tornassero a sedere: ma la sua attenzione non era rivolta su loro, sì bene sopra il quinto personaggio, che appena lo vide entrare, con trepidante prestezza togliendosi dinanzi un gran piatto di troppo squisita vivanda, vi sostituiva un pugno di ulive secche, e celava più che poteva il volto nel cappuccio, però che avesse addosso una schiavina da pellegrino. Per quanto s'ingegnasse, non giunse però a nascondersi da Rogiero, il quale, riconosciuto che l'ebbe, si sentì sorpreso da un senso di paura simile a quello che ci percuote allorquando ascoltiamo un racconto terribile: - vorremmo interrompere il narratore, e le parole si perdono per la gola, - vorremmo allontanarci, e le gambe ci paiono radicate sul terreno, e il sudore scorre su la fronte gelata, e non osiamo voltare la testa. Vergognando d'impallire al cospetto di tale uomo ch'ei teneva per vile, raccolse fiato, e disse con un sospiro: "Voi qui, pellegrino!"

Proferite le prime parole, rotto lo incanto, riprese il vigore del pensare, e del sentire, onde guardando su i quattro ribaldi, che avea d'attorno, lo proverbiava con un tal sorriso di scherno: "D'ora in avanti parmi che non avrete bisogno di altra compagnia!"

"Eh! chi cerca trova," rispondeva il pellegrino "bel Cavaliere; la nave piega secondo il vento, e da più gran testa che non è la mia viene il detto: - co' Santi in Chiesa, o in taverna co' ghiottoni."

"E se non m'inganno, parmi che siate fatto per istare più tosto co' secondi che con i primi, e che possa confermarvi di giorno quello che vi dissi di notte, quando in prima v'incontrai. Non conosco le cause per le quali v'ingegnate ingannarmi; ma credete poterlo fare mangiando, o astenendovi in mia presenza dal cibo che poco fa gustavate? Proseguite il pasto, chè per vedere su la mensa starne, od ulive, già non cambierò pensiero su voi: - la faccia è quella che conta."

"Oh! allora poi, se mi avete veduto, continuerò a mangiare la mia vivanda. Peccato celato è mezzo perdonato; questa volta però me lo scriveranno a debito tutto intero;" e così favellando faceva il pellegrino di grossi bocconi: "il peggio, a parer mio, sta nello scandalo; quasi quasi direi che senza scandalo non vi abbia fallo: allorchè gli uomini non veggono, anche Dio chiude un occhio, e lascia fare..."

"Scellerato pensiero! se il grido della tua coscienza ti assicura, pensi che ti sconforterà quello della gente? Il cedro del libano piega sotto l'impeto della bufera, ma non si spezza."

"Sì come, bel Cavaliere, è impossibile, - continuando a parlare con gli esempii, - che un bottigliere correndo a gran corso con la coppa piena fino all'orlo non lasci cadere alcuna stilla, così riesce quasi impossibile all'uomo di mantenere l'anima bianca fino alla fossa; ora poi siccome non dannereste il bottigliere di celare il difetto della tazza, così non potete dannare l'uomo che nasconde il pezzo d'anima fatto nero con la parte rimasta bianca. Con l'arte e con l'inganno - si vive mezzo l'anno; con l'inganno e con l'arte - si vive l'altra parte, - come diceva il poeta."

E avrebbe continuato, se non che in quel punto entrò l'oste, che portava a Rogiero il cibo richiesto: io starò a dire in che consistesse, come fosse accomodato, perchè vado affatto ignorante dell'arte della cucina, e per me Apicio potrebbe dormire mille anni sopra di un lato, che non lo farei certo, risvegliandolo, giacere su l'altro; e in questa, come in ogni altra cosa, converrà cedere la mano al Romanziere scozzese: basterà accertare che il presentimento di Rogiero non rimase deluso, e che in tempo di sua vita non aveva fatto pasto meno gradito, più lodato.

"Nol dico per vantazione, chè superbia è troppo brutto peccato," favellava l'oste "ma andate all'Aquila d'oro se volete gustare di questi camangiaretti; andate all'Orso bianco: Santo Menna glorioso! sì che si può dire che danno il pane con la balestra. E il vino? oh! pel vino vi giuro che può averlo uguale il Re Manfredi. Filippello di Faggiano, mio parente, che ha servito in corte tanti anni, mi assicurava un giorno che pareano fratelli; a casa mia si fa pagare, come altrove, quattro tarì la misura, perchè poveri ormai dobbiamo rimanere, ma col santo timore di Dio: io per me lo compro a tre tarì e mezzo, e lo vendo tre e tre quarti; guadagnerò poco in questo mondo, pazienza! salverò l'anima in quell'altro; tanto, in questo siamo pellegrini, come dice Frate Giocondo, e di dobbiamo dimorare degli anni più di millanta: mi hanno assicurato, bel Cavaliere, che la pena degli osti nell'Inferno sarà di stare sommersi nell'acqua che hanno mescolato nel vino; pensate quante pertiche sotto vi starà l'oste dell'Aquila d'oro! davvero che me ne duole per lui, che ha famiglia; quello poi dell'Orso bianco credo che quando anche gli fosse concessa licenza di tornarsene a galla consumerebbe l'eternità per la via."

L'oste, mentre così discorreva, aveva spiegato una meschina tovaglietta, e l'andava assettando sopra la tavola, la qual cosa vedendo il nostro pellegrino, vôlto a Rogiero favellava: "Bel Cavaliere, se Dio vi aiuti, qualora vogliate godere della nostra compagnia, io non vi sarò scortese come già voi lo foste con me; venite francamente, io mi restringerò da un lato, e spero farvi tanto luogo da potervi sedere."

"Quando anche" gli rispondeva Rogiero, guardandolo traverso, "tu tenessi ad una mensa il posto del cane, ed io mi dovessi sedere nella scranna del Barone che gli getta l'ossa, aborrirei di sedermi a quella mensa."

"Questa è da valente uomo. Messere," parlò l'oste, fingendo di prender le parti di Rogiero; "ciò si chiama rendere tre pani per coppia, e vino dolce per malvagìa; tanto sa altri quanto altri, pellegrino, e così avviene sempre a coloro che cercano migliore pane che di grano."

"L'ho io offeso offrendo di fargli largo alla mia mensa?" soggiungeva il pellegrino; "e deriva dai tempi vecchi l'esempio di colui ch'ebbe morsa la mano per dare del pane al mastino; nondimeno che cosa insegna il Maestro? Se alcuno ti chiede il farsetto, e tu dàgli anche il mantello; se tale altro ti percuote la guancia destra, e tu gli presenta la sinistra perchè ti percuota anche quella; - però ti perdono."

"Da vero! Provami come potresti fare altramente, allora forse ti saprò grado del tuo perdono."

"Spesso" affermava il pellegrino, ficcando addosso a Rogiero certi occhi maligni quanto quelli della vipera, "una scintilla arse castelli e abbazie; spesso un verme guastò la più alta querce della montagna."

"Comincia a tacere, se vuoi ch'io ti stimi onesto; se in te fosse ombra di virtù, vanteresti meno te stesso."

"Questa non è buona ragione; la lode in bocca propria può essere difetto, ma non esclude la qualità lodata."

"Io giuro che se tu avessi la potenza della favilla, arderesti: sei un rettile fiaccato sopra la vita..."

"Sono uomo - che sovente è impedito nel fare il bene quando vuole, ma che sa fare il male quando anche non vuole."

"La notte nella quale senza vederti in faccia, dal suono della voce, ti dissi scellerato, per certo non m'ingannò l'intelletto; tuttavia non conobbi allora, posso conoscere adesso, di quale specie sia cotesta tua iniquità: io non so se tu sii malvagio stolto, o malvagio sapiente, se per arte, o per natura; tu mi apparisci come un sembiante truce mezzo coperto dal mantello, come uno spettro più che metà confuso nel buio; ogni tuo sguardo porta affanno; ogni parola, trafitta nel cuore: s'è vero che vivono serpenti, di cui il fiato ha valore d'irrigidire i sentimenti, tu ne sei certamente uno in forma di uomo."

"Cavaliere, se la esaltazione del sangue derivata da finta sventura vi rese una volta facile all'oltraggio, e me per compassione paziente a soffrire, pensate che non sempre a voi sarà dato oltraggiare, quantunque in me non sia per venire meno la virtù di tollerare. V'è un occhio che vede i torti del debole, e una mano che gli ripara."

"Ch'io la vegga una volta."

"Potreste sostenerne la vista? Ella vive quantunque nascosta: il fulmine da man celata scende."

Il suono col quale il pellegrino discorreva queste ultime parole fu talmente diverso da quello adoperato finora, che Rogiero lasciò cadersi come spasimato col capo sopra la tavola. Al punto stesso il pellegrino accennando con gli occhi e con la persona a due dei suoi compagni, fece sì che si levassero in piedi, e andassero prestissimi a situarsi ai lati della tavola di Rogiero. L'oste si pose le mani dietro, e veduta la mala parata si trasse piano piano verso la porta. Nessuno fiatava: per ben dieci minuti ogni cosa fu cheta; alla fine Rogiero prese a mormorare bassamente: "Egli è desso, - l'uomo fatale, - l'istrumento del destino. - L'anima non ha accolto la sua voce col medesimo terrore? Non si è congelato il sangue, i polsi rimasti?" E poi proseguiva con forza maggiore: "Egli è desso!" Appena proferite queste parole, chiuse le pugna, tese le braccia, tutti i muscoli del volto compresse, come se riunisse ogni virtù per non soccombere sotto un dolore, e le ripetè più volte: "Fosse un demonio incarnato, sprofonderemo insieme nel fuoco penace, perchè io me gli avvinghierò alla cintura, il lascerò finchè non mi abbia reso ragione del suo fiero perseguitarmi, - del suo ingannarmi. Scellerato! io non l'offendeva mai, mai più lo aveva visto, ed ei mi ha voluto far perdere lo intelletto, - mi ha avvelenato la vita; - ma lo stolto me ne ha lasciata tanta da dargli la morte,.... e se sei tale da soffrirla, ora la soffrirai."

Dava un calcio alla tavola, e cibo, bevanda, stoviglie, ogni cosa gettava rovesciata sul pavimento: sorgeva; aveva la guardatura terribile, il viso acceso, la persona in atto di offendere. Guai al pellegrino, se lo avesse giunto, che non avrebbe avuto altro bisogno di medico per finire la vita. I due ribaldi che gli s'erano messi allato lo presero per le braccia e pel petto, dicendogli: "Dove, Messere?"

"Con voi non ho nulla.... scostatevi.... lasciatemi. chè devo ricambiare alcune parole con quel demonio ."

"E gliele potrete dire da questa distanza, così bene che da presso; per quello che pare non avete lasciato la lingua al beccaio."

"No, - no: - è forza ch'io gli stia vicino.... lasciatemi, vi dico," e scotevasi "lasciatemi.... vi comando.... vi prego."

"Non vi accostate, Cavaliere, che vi farò mal giuoco; non sapete che il Diavolo scotta? Eh! dico, Puccio, tienlo sodo, - e tu Giannozzo,..."

"Ingégnati pure, se sai; ma converrà che tu mi dica per qual ragione da più mesi m'inciti alla vendetta di un uomo che non era mio padre.... dimmi.... dimmi, perchè mi hai spinto al delitto?"

Rogiero, per una convulsione di rabbia, raddoppiando la forza, si adopra svincolarsi dai ribaldi e gittarsi sul pellegrino: quelli però che troppo bene lo tenevano, nol lasciarono andare; tuttavia, mal potendo resistere all'impeto, lo seguitavano strascinati. Il pellegrino, di tanto baldanzoso che era, divenuto a un tratto avvilito, dato un urto alla tavola, si mette a fuggire: la tavola si rovescia come quella di Rogiero, - e qui pure, sottosopra ogni cosa: - forse l'impeto della paura fu violento quanto quello del furore; - forse erano poste in bilico a bella posta dall'ostiere, affinchè al primo urto cadessero, e così avesse occasione di farsi pagare per nuovo tutto ciò che vi stava sopra imbandito.

"Bel modo davvero di acquistar le grazie del Signore, ghiottoni!" urlava il pellegrino avvolgendosi per la stanza; "tenetelo, sciagurati che siete; non vedete che se vi fugge ci strangola quanti siamo?"

"Che sciupinío!" gridava per altra parte l'oste, "che sciupinío! Vergine addolorata! poveri miei stovigli che aveva comprati belli e lucenti alla fiera di Piscitella! - mi avete guasta la dozzina, signori: - chi paga? ehi! chi rompe paga.... chi paga?..."

 

"Mi fate forza!" gridava a sua posta Rogiero "che è questo?... tanto ch'io possa riprendere la spada.... iniqui! al tradimento!... al tradimento!"

"Va," ordinò un ribaldo all'oste "va, e recaci quante corde hai in cucina...."

"Ma questo non entra...."

"Che? Párti che ti abbiamo fatto guasto per uno agostaro? quando anche ti abbruciassimo la casa con te e la tua famiglia dentro, il danno non potrebbe sommare a tanto."

"Ecco che le mie profezie diventano vere," riprese un altro ribaldo; "se fino da bel principio lo aveste assuefatto, secondo il mio avviso, a dargli del bastone sul capo per pagamento, non farebbe oggi dell'indiscreto: - va su tosto, furfante, a prendere le funi."

"Considerate.... vedete...."

"Se rispondi anche una parola," minacciava col pugnale il ribaldo "giuro per l'anima di mio padre, che non risponderai in appresso a nessuna dimanda che ti sia fatta in questo mondo."

L'oste muovendo la bocca, come se gustasse alcuna cosa acerba, partiva immediatamente. Intanto Rogiero faceva l'estremo di sua possa per liberarsi; si aiutava con le mani, co' piedi, co' denti; quei che percosse sentirono dolore anche il giorno appresso; cacciava acutissime strida: con forza e destrezza maravigliose, sovente abbattuto, col peso di un uomo sul corpo, lo mise sotto, e si rilevò calpestandogli il petto; faceva uno schiamazzo, un rovinio da potersi sentire a mezzo miglio d'attorno. In questa tornava l'oste, smarrito nel sembiante, con corde in mano, gridando: "Gente! gente! a questa volta."

Un ribaldo porse il capo alla finestra, e lo ritrasse pronunziando una fiera bestemmia.

Si udiva il rumore di mano in mano avvicinarsi, allorchè l'oste prese a dire a voce alta: "Lasciate questo Cavaliere, egli è in casa mia, e deve starci sicuro come in Chiesa: se vi ha fatto torto, aspettatelo fuori: - che è questo venire in tanti contro uno? - che soperchieria! - che assassinamento! - giuro al corpo.... al sangue...."

I ribaldi gli risero in volto; il pellegrino che conobbe l'arte dell'oste, gli disse: "Senti, Pierone, credi che ti mancheranno delitti per andare alla forca celando quest'uno? Tu hai avuto uno agostaro onde prestarci la tua opera per imprigionare questo Cavaliere, se fosse capitato in tua casa; eccotene un altro: il modo con che getto i danari, ti faccia persuaso che non ispendo dei miei. Colui che mi ha comandato di arrestarlo, è tale che può farti impiccare per avere pôrto da bere ad uno assetato. Hai inteso? fa senno, se non vuoi che qui dentro venga la bara prima che sia molto."

La gente, come cosa matta, inondava la stanza; - erano vassalli del vicinato, tratti al rumore: - domandarono che cosa fosse accaduto, come stesse la bisogna, e intanto alcuni si portavano a liberare Rogiero: se si fosse taciuto, lo avrebbero per certo tolto dalle mani di quei ribaldi; ma vedendo il pellegrino che tentava nascondersi nella calca e fuggire, non potè tenersi dal gridare, accennandolo: "Prendete quel serpente, quel demonio ; sono mesi e mesi che mi perseguita!"

 

Tutti gli occhi si voltarono da quel lato. Il pellegrino, conoscendo non potersi celare, si fece oltre arditamente, e vôlto ai più vecchi, giungendo le mani e sollevando gli occhi umidi di lagrime, favellava: "O Signore, ben sei misericordioso e sapiente in ogni opera tua, così che quello che ci mandi deve essere tutto bene, quantunque ci si offra sotto la forma del male; pure per le preghiere di questi Fedeli, per quelle di me peccatore, ti piaccia liberare quella povera carne battezzata" e mostrava il Cavaliere "da tanta tribolazione; vedi, come lo travaglia il nemico del genere umano; vedi, come esulta della vittoria l'angiolo maledetto..."

"Ah traditore!" gridava con quanto aveva in canna Rogiero "lascia che io mi ti accosti, e vedrai chi di noi due sia indemoniato..."

"Deh! vedete, fratelli," senza dargli mente continuava il pellegrino "a che mena il peccato; divenite savii dall'esempio altrui, frequentate i sacramenti, digiunate, vigilate, perchè il tentatore sta sempre alle velette..."

indemoniato?" urlava la gente accorsa, tutta atterrita.

"Iniqui!... stolti!..." con la spuma alla bocca urlava il mal capitato Rogiero, e avventavasi digrignando i denti.

"Tenetelo forte, fratelli, ma con carità, che sebbene indemoniato, egli è pur sempre Cristiano; tenetelo, - a voi, - legatelo per amore di Dio: - considerate, fratelli, la malignità del Demonio, che lo spinge contro me perchè sono prete. Lui misero, se mi percuotesse! chè incorrerebbe súbito nella scomunica lata; - il Canone parla chiaro: Si quis suadente Diabulo huius sacrilegii realum incurrerit, quod clericum, vel monachum, etc."

La gente, che era accorsa con tanto grave aspetto di fierezza da prendere di primo assalto un castello, adesso non osava accostarsi; si segnava, - susurrava preghiere; alla più parte non sarebbe parso vero rimanere lontana; altri pianamente presero l'uscio, e rifecero i passi. I vecchi pregavano; le vecchie, incapaci di sentire compassione, toglievano motivo dall'energumeno che credevano avere sottocchio, per favellare di tutti gl'indemoniati che avevano veduto ai giorni loro nel circondario della Parrocchia; i giovani ora guardavano i padri, ora Rogiero, il quale pareva loro che avesse assai motivo di montare così su le furie per essere tanto villanamente legato; pure timorosi di mal fare tacevano, ammirando la gravità delle ciglia paterne; le donzelle, sia buona natura che svapora in proporzione che gli anni si accrescono, sia, come credo, debolezza, gli si facevano sopra tutti gli altri vicino, e: - "Poveretto!" dicevano, - "peccato! che sarebbe pur bello! Oh! se potesse riacquistare la salute, darei il cappello che lo zio prete mi portò dalla fiera!" - "Ed io il guarnellino dalle feste." - "Oh! sì, giusto si muove co' cappelli e co' guarnellini la misericordia di Dio!" - parlò con voce soave una fanciullina, che pareva uno angioletto, - "preghiamolo di cuore, e forse ci ascolterà; è tanto buono, mi ha detto la mamma, e noi lo preghiamo di fare cosa buona, dunque ci ascolterà." - E le altre giovanette, seguendo il consiglio, pregarono, e fervorosamente, per l'infelice: - ma l'infelice non doveva essere sollevato. Rogiero le guardò: - belle le aveva fatte la Natura, più belle le faceva quell'atto di preghiera; egli era nato per queste sensazioni; dette un gemito, e gli parve di sentirsi confortato da lungo riposo; per alcuni istanti non vide che a traverso le lacrime le quali gli ingombravano gli occhi: già stava per parlare pacato più che non soleva, e coloro che lo tenevano lo avrebbero volentieri lasciato a patto di salvare la vita, allorchè quel pellegrino, che conobbe il pericolo della situazione, si mise a predicare: "Non v'inganni questa apparente tranquillità, fratelli; - oste, porgetemi l'acqua benedetta; - osservate, signori, quanta sia la malignità dello spirito infernale, che mostra di ritirarsi al punto di sentirsi vinto; vedrete come è per iscontorcersi allo spruzzo dell'acqua santa." E presa dell'acqua, la gittava nel volto a Rogiero: "Ne reminiscaris, Domine, delicta nostra, neque vindictam sumas de peccatis nostris: dite il Pater noster."

"Uccidetelo," fuori di senno esclamava Rogiero "trapassate quel Longino, quel feritore dei costati innocenti...."

"Et ne nos inducas in tentationem."

"Sed libera nos a malo."

"Amen. Oremus..." ripeteva il pellegrino.

"Ah! questo non può sopportarsi!" gridò furiosamente Rogiero, e voleva fuggire dalle mani di quei carnefici, e uccidere od essere ucciso. Il suo stato è più agevole immaginare che dire; forse alcuno potrebbe formarsene idea, sapendo che molti di coloro che passavano per valorosi fuggirono via, facendosi grandi segni di croce. Oggimai aveva esaurito ogni genere d'imprecazione che la mente offesa può cacciare in bocca al disperato, e il finto pellegrino con empio abuso messo in opera più volte i santi esorcismi, il Demonio se ne andava, perchè non v'era. I ribaldi volgevano di tanto in tanto gli sguardi alla porta per vedere se la calca diradasse, e darsela a gambe: ell'era di fatti assai diminuita, pure la rimasta dava tuttavia da pensare. L'oste in quel caso parlò al pellegrino le seguenti parole: "Messer pellegrino, voi come cherico sapete meglio di me, che per esorcizzare i demonii non basta la santità della vita, che si richiede anche la facoltà della grazia; - voi forse avrete ricevuto il potere di cacciare i demonii minori, e questo sarà certamente sopra le vostre forze."

Il pellegrino si morse il labbro inferiore in pena di non avere immaginato egli primo codesto espediente; nondimeno pensò valersene, e in vista dimessa riprendeva: "Ecco, che la polvere aveva dimenticato la sua umiltà, e Dio ha punito la sua presunzione. E chi sono io povero peccatore da volere imprendere miracoli concessi solamente ai Santi del Signore? Chi, per omettere le sacre cirimonie, la stola, e le altre cose, che si richiedono all'ufficio dell'Esorcista? Fratelli, si vuole una grazia maggiore della mia onde liberare questo tribolato; sarebbe mio consiglio condurlo in parte dove se gli potessero applicare addosso Reliquie dei Santi, e Agnus-Dei."

Finite che ebbe queste parole il perfido pellegrino, la plebe grossa cominciò a gridare: "Meniamolo a Sant'Agata, sul corpo di Santo Menna: - ha fatto tanti miracoli, perchè non farà anche questo?"

"A Sant'Agata! - a Sant'Agata!" ripeterono tutti; e se i ribaldi lo gridassero di cuore non è da dirsi, imperciocchè ad ognuno di loro paresse sentire la stretta del capestro alla gola. Tolsero di peso l'infelice giovane per piena dello affanno caduto in deliquio; ed esclamando: "Largo, Cristiani, in carità, largo all'energumeno;" - e unendo alla voce violentissime spinte, giunsero a passare la porta. L'oste in bella maniera si era tratto nel canto dove Rogiero aveva lasciato le armi e la più grave armatura, e mentre che i muscoli della sua bocca erano impiegati ad articolare carità, il suo cervello pensava: - se quei furfanti non si rammentassero di queste armi, a ridurle in oro ho piuttosto avanzato che rimesso all'avventura: - tanto è vero che perdita altrui fa guadagno. - Uno dei ribaldi al punto di uscire dalla stanza si volse, e gelò il corso di quei raziocinii nella mente dell'oste; forse, se la folla non gli si fosse di súbito chiusa alle spalle, sarebbe tornato per l'armatura: l'oste lo vide trapassare la soglia con la gioia di un condannato che su la scala del patibolo ascolta la grazia; spiegò quelle mani che di per sole davano idea della rapina, e le stese, tremanti per la certezza del guadagno, su l'armatura; poi con passi obliqui, la testa in giro, affatto simile al gatto che ha rubato il pesce in cucina, traversò velocissimo la stanza, e andò a nasconderla sotto il carbone.

I ribaldi che tenevano presta pel ratto di Rogiero una lettiga sopra due buoni cavalli, ve lo chiusero dentro, ed essi pure montati su i loro ronzini presero da prima con passi soavi la via di Sant'Agata dei Goti.

Ormai la città appariva vicina, la calca diminuiva, e il pellegrino non amava di entrare dentro; aveva per via pensato qualche nuovo accorgimento, ma nessuno gli era sembrato buono da praticarsi: costretto di adoperarne uno, chiamava a alcuni più vecchi della compagnia, e diceva loro: "Io ho pensato, fratelli, di condurre il povero ossesso a Benevento."

"Oh! perchè questo, santo pellegrino?"

"Perchè costà vi si adora la immagine di Santa Maria della Pace, che pare fatta a posta per questi miracoli."

"Pellegrino, a quel che vedo non avete visitato ancora la Chiesa di Santo Menna, e non sapete che ogni anno i Frati sono costretti di rimuovere i voti dal chiostro, e appiccarli nel refettorio."

"Sì bene, fratello; ma alla fin fine Santo Menna è Santo normanno, e Maria è molto maggiore Santa che non è egli, e madre, e sposa del Signore, come sapete."

"Certo non vo' dire che non parliate santamente, ma Santo Menna ne ha fatti degli altri, e...."

"Potrebbe fare anche questo, eh? chi lo nega? Lasciamo i Santi, via, e parliamo di cose umane: fratel mio, voi sapete meglio di me, che Sant'Agata fa Vescovo, e Benevento Arcivescovo; ora nella gerarchia ecclesiastica l'Arcivescovo può molto maggiori cose del Vescovo: e poniamo che a quello riuscisse, a questo no, ditemi, fratello, non vi rimorderebbe la coscienza di averlo così trasmesso da Erode a Pilato?"

"Voi parlate santamente; ma Santo Menna ne ha fatti degli altri, e...."

"Ne farà degli altri ancora, - chi lo nega? E' bisognerebbe non essere Cristiani per negarlo: ma che dice il Profeta? - Onagrus silvester, intelligis ne, me velle ducere illum in ore leonis.... in capite draconis."

Il povero uomo, fulminato da quel latino, non osò aggiungere motto: l'ore leonis, il capite draconis, lo avevano fatto abbrividire dentro e fuori; - si nascondeva tra la folla. - Subitamente la nuovità che non si andava più a Sant'Agata si sparse tra la gente, onde la più parte prese a sbandarsi, e a tornare donde era venuta; a mano a mano che avanzavano per la strada di Benevento, e si lasciavano alle spalle Sant'Agata, alcuni altri drappelletti cominciarono a seguire più lentamente i ribaldi, poi a riposarsi, poi a voltarsi verso casa; la comitiva si struggeva come pezzo di tela destinata a farne fila sotto le dita della vecchia. La notte adesso confondeva le cose, e di punto in punto insisteva con tenebre sempre crescenti, allorchè i ribaldi considerando che alcuni pochi giovani gli seguitavano, i quali volentieri avrebbero fatta altra cosa che camminare così a piedi, di notte, quindici e più miglia di paese montuoso, se non fossero state le amanze loro che si erano fitto in testa di voler vedere la fine di quel caso, deliberarono di essere affatto soli, e in questo pensiero, senza porre tempo tra mezzo, voltati i cavalli, si cacciarono tra quelli, menando di buoni colpi a destra e a sinistra col manico delle partigiane.

"Via, vassalli, via, villani!" urlavano tra le percosse "a casa, chè l'ora si fa tarda, e lunga la via; a casa, chè dimani la rugiada dee piovervi su la testa."

Già que' vassalli, come abbiamo detto, avevano più che voglia di ritornare; ora poi che vi si aggiungeva tanto persuasivo argomento, pensisi se levassero le gambe, e mostrassero le suola: e' vi so dire, che chi corre, corre; ma chi fugge, vola; perchè tutto di un fiato arrivarono a casa, dove molte novelle raccontarono vere, moltissime false; e volevano armarsi, seguitare i ribaldi, e prenderne vendetta da incidersi in pietra, e da rammentarsi di a mille anni. Un vecchio però essendosi levato in piedi, fece loro osservare, ch'essi dovevano sentirsi stanchi, e aveano due gambe, mentre i ribaldi fuggivano con quattro; onde il meglio, a parer suo, era andarsene a dormire per sorgere alla dimane freschi e riposati, e così perseguitarli con più frutto. I giovani si guardarono l'un l'altro nel volto, aggiunsero motto; dopo quello sguardo però si accinsero a deporre sotto le lenzuola le parole e i pensieri di sangue.

 

 

 

 




81 Iliade, Libro 9.






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