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Francesco Domenico Guerrazzi
La battaglia di Benevento : storia del secolo 13.

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CAPITOLO VENTESIMOPRIMO.

 

LA SPIA

 

 

Quanta, e qual sia quell'oste, e ciò che pensi

Il duce loro, a voi ridir prometto;

Vantomi in lui scoprir gl'intimi sensi,

E i secreti pensier trargli dal petto.

GERUSALEMME LIBERATA.

 

Più che io con quella mente che i cieli mi hanno concessa vado pensandovi sopra, più mi avviso di favellare giusto affermando, essere queste composizioni, che la gente chiamano Romanzi, assai somiglievoli ai fioriti rosaj. Lieti di rose, bellissime per venustà di vermiglio, per isquisitezza di odore gioconde, innamorano l'occhio del pellegrino, che con lo incantato pensiero maraviglia come un fiore possa avere tanta parte di volto della sua vergine diletta. Diventa più forte il paragone se si considera, che siccome gli steli delle rose sono irti di spine, e così le vie che conducono alla perfezione in opere sì fatte vanno ingombre d'impedimenti, parte difficili a superarsi, parte impossibili. Differiscono poi in questo, che nel rosaio il passeggiero, contento della vaghezza del fiore, non trascorre a indagare come s'operi il suo nascimento, come mantenga la vita, perchè muoia, nella qual cosa se molto ha luogo il non volere, moltissimo ancora contribuisce il non potere; mentre che nel Romanzo la bisogna procede altramente: ben l'arte ammaestra a disporre gli eventi in certa bizzarria misteriosa, e presentarli con quanto di fantastico può immaginare il poeta, onde la passione di chi legge di mano in mano infiammata aneli la fine; ma al punto stesso ne avverte essere debito svilupparli con naturale spiegazione, affinchè non si sdegni di avere sparso il suo pianto sopra casi in nulla appartenenti all'umana natura. Qui sta l'opera, qui la fatica; questo è lo scoglio pe' buoni ingegni, l'abisso pe' mediocri; e certamente sarebbe pel nostro, dove le raccontate avventure non fossero vere, o almeno non le avessimo trovate entro una Cronaca di pergamena antichissima, scritta con caratteri gotici, con le iniziali alluminate, e dorate, che quantunque un po' guasta dalle tignole, un po' dai sorci, un altro po' dall'umido, si mantiene pur sempre il bel tesoro, come andrà persuaso chiunque abbia voglia di venirla a vedere.

Narra pertanto la Cronaca, come un certo giorno il Conte Anselmo della Cerra, ridotto nella secreta sua stanza, esaminando alcune carte di molta importanza udisse toccare la porta; per lo che domandato chi fosse, gli rispondevano, - un pellegrino, che per quello che ne sembrava aveva corso gran via, faceva istanza di favellargli. - "Un pellegrino! che passi:" - ordinava Della Cerra; ed ecco indi a poco entrare un uomo, che, richiuso in prima diligentemente l'usciale, s'incammina va alla volta del Conte, e gittando la schiavina da dosso, gli si mostrava qual era.

"Gisfredo, tu qui! tu vestito da pellegrino! chi ti avrebbe riconosciuto?"

"Dove manca natura, arte procura, messer Conte."

"Che nuove? è anche morto quello stolto? la tua astuzia congiunta alla sua imbecillità lo ha ancora condotto in rovina? Narrami, narrami, che sono impaziente di udire; siedimi a canto, che ti starai più ad agio, ed io ascolterò meglio."

"Troppo onore, Messere," - rispondeva Gisfredo inchinandosi, e mostrando non tenere lo invito: pure insistendo il Conte, obbediva, e pressato da questo col più interrogativo "Ebbene?" che mai sia uscito da labbro di uomo, raccontava: "Messere, dalla notte che con tanto fervore mi ordinaste vegliare su i passi di Rogiero, io, come desideroso di soddisfarvi, non ne ho mai smarrito la traccia: nella notte stessa io mi imbatteva in costui, che, fosse caso o volontà, spronava a rompicollo verso un torrente, dove per certo sarebbe traboccato, se io nol sovveniva; fidando sul benefizio, lo richiedeva di sua compagnia, perchè allora la cosa sarebbe proceduta meglio sicura; mi ributtava con acri parole. Il giorno appresso, mi prende il sudore ghiaccio a ripensarvi sopra, mi arrestava una banda di masnadieri, e dopo avermi conciato che Dio vel dica per me, toltimi i danari che aveva dentro una borsa, volevano ad ogni costo propagginarmi: già per indole, e per costume, aborro dal magnificare quello che ho fatto per vostra signoria, e poi per quanto operassi, io non potrei sdebitarmi degli immensi obblighi ch'io vi professo, Messere; pure io vi giuro..."

"Va per le corte, Gisfredo; sei stato in pericolo di vita? - il gran caso che ti avessero ucciso! - mancano ghiottoni in questo mondo!"

"Dice bene il Messere. Dunque vi basti sapere ch'io fui salvo."

"Questo io già sapeva, perchè il Demonio si mostri più pronto a proteggere i tristi, che..."

"Dice bene il Messere. Lo inseguiva con lo ardore della vendetta, con l'astuzia della viltà: finchè lo conobbi di per stesso infiammato, lasciai che corresse; ma quanto più si avvicinava all'esercito francese, tanto rallentava la fuga: questa nuova esitanza giunse a tale, ch'io stimai bene entrargli di notte tempo nella camera dove giaceva, e concitarlo con dirgli in voce mesta, come di trapassato: - Rammentatevi di vostro padre. - Varcava il Po con incredibile furia, quindi ricadeva più che mai su l'irresoluto: allora presi consiglio di precederlo, mi appresentai a messer Buoso, me gli scopersi vostro servitore, gli mostrai la patente, e gli narrai, un corriero napolitano con lettere a lui dirette essere rimasto una giornata di cammino dietro di me; mandasse pertanto alcuna gente a riscontrarlo, e a tutelarlo, perchè, se fosse caduto in mano dei Ghibellini con quel deposito addosso, avrebbe cagionato gran danno. Mandava Buoso, e glielo conducevano: era buio, ed io mi teneva celato in un corridore della casa di Buoso per vederlo passare: vi so dire, Messere, che fu cosa stupenda contemplare la battaglia delle passioni che laceravano quella anima; per poco stette che non cadesse, si appoggiò al muro senza andare innanzi indietro."

"Tu godi a raccontare questa disperazione, scellerato?"

"Pensate quale sarebbe stata la vostra gioia a vederla, Messere! Osservando che indugiava più che si convenisse, me gli accostai, e gli susurrai alle orecchie: - Rammentatevi di vostro padre: - si voltava impetuoso inseguendomi, ed io di stanza in istanza, come colui che già conosceva la casa di Buoso, gli fuggiva dinanzi, finchè non l'ebbi condotto dove dimorava il Duera; allora mi sottrassi agevolmente: da quel punto in poi i suoi moti furono necessarii. Ebbe le lettere il Ghibellino traditore...."

"Ravveduto, dovevi dire."

"Ravveduto. L'ebbero i Francesi, e nel campo loro egli ha sempre stanziato fino a Roma."

"Che! non vi sarebbe egli più?" - percuotendo il pugno stretto su la tavola con terribile giuramento domandava il Conte Anselmo.

"Udite. A Roma fu bandito il torneo; vi combattevano sconosciuti Rogiero, e quel Ghino di Tacco, tanto famoso masnadiero d'Italia: terribili colpi io vidi menarvi, e tali che non credo sieno mai stati nel mondo, non che maggiori, uguali. Miseri noi, Messere, se un giorno ne fossimo segno!"

Anselmo mutò di colore, e con voce mal ferma ordinava: "Va innanzi."

"Furono i Francesi scavalcati, quasi tutti sconciamente feriti; un Bilmont trafitto; il Monforte, lo stesso Monforte, dichiarato vinto, e come morto portato via dal campo...."

"Che importa, questo? va innanzi."

"Conseguíta la vittoria, fuggivano Ghino, e Rogiero, e i compagni; io mi levai súbito a seguitarli da lontano, e li vidi internarsi per la foresta vicino a Frascati. Quivi si fermava alcuni giorni Rogiero per sanare le riportate ferite. Una volta, mentre mi accostava su la sera verso la sua dimora per raccogliere qualche novella, lo vidi soletto errare per la foresta; avrei potuto ucciderlo, - non v'era vivente, ed egli non portava armatura; ma non ne aveva mandato; non sapendo s'io mi facessi bene o male, mi rimaneva: sentii uscirgli dalle labbra strane sentenze; mi arrampicai leggiero sopra un albero, e per più disperarlo ripetei: - Rammentatevi di vostro padre. - Parve verro ferito; cieco d'ira si dette a cercarmi per la selva, e tanto corse e ricorse, che al fine del giorno pervenne alla Abbazia di San Vittorino: colà, Messere, un fiero caso si apparecchiava a noi tutti...."

"Quale?"

"Convertito in Frate, vi giaceva moribondo il vostro uomo d'arme Roberto."

"Ah! e gli narrava...."

"Per quello che mi disse un Frate cercatore, tutta la storia dei vostri tradimenti."

"Tradimenti! - hai tu detto tradimenti?"

"Non l'ho detto già io, ma vi ho riferito quello che disse il Frate cercatore."

"Noi siamo perduti!" avvilito mormorava il Conte Anselmo "e sì che lo aveva avvertito a cotesto imbecille: - vogliono i delitti, e non sanno soffocare i rimorsi; - un giorno innanzi ch'io lo avessi ucciso, ogni cosa era salva." E qui mise senza pensare la mano sotto il farsetto, e ne trasse un pugnale: Gisfredo, sorgendo, si allontanava. Stettero muti alcuni istanti: finalmente il Conte discorreva, volgendo la testa: "Gisfredo, dove sei ito? ritornami allato; perchè ti stai discosto?" - Poi vedendosi il pugnale nella destra, lo riponeva continuando:-  "Vivi sicuro, non sai che nessuno uomo adesso mi è più necessario di te?" e tra i denti aggiungeva: "La tua ora non venne."

"Dice bene il Messere, - v'intendo anche ritto."

"Fa come vuoi: dunque non v'è scampo?"

"E non sapete trovarlo? Diamine! una testa come la vostra, Messere, annega entro una coppa?"

"Dillo, se ci credi; in nome di Dio."

"Ve lo direi molto volentieri, ma davvero che me ne prende vergogna; egli parmi così agevole, che non può essere che non vi venga in capo: e poi non si conviene a me che ho imparato tanto di Gramatica, quanto fa di mestieri per avere gli ordini minori, insegnare ad un Barone qual siete voi, che sa per fino dei misteri dell'Astrologia."

"Certo non si vuol negare che la mia mente non sia oggi un poco confusa... se da un pezzo in qua le cose vanno proprio a rovescio!"

"Eh! signor mio, io conosco il modo di farle andare per verso: ma voi non ne sapete, o non ne volete sapere."

"Sarebbe?"

"Allargare la mano nello spendere; siete Camerlingo, potete fare, e non co' vostri danari... la gente ai nostri non fa nulla per amore."

"Ah! vuoi danaro?"

"Nol dico già per me, vedete, Barone; perchè del danaro che cosa ho da farmi, quando posseggo la grazia vostra? - Sebbene quello che mi deste se lo prendessero i masnadieri...."

"Non so se i masnadieri; ma un masnadiere se lo prese di certo, quando lo detti a te."

"Non credete? Vi giuro pel corpo...."

"Taci, chè il giuramento della tua bocca accresce i motivi di non averti fede."

"Oh via! come volete; già per troppo malignare spesso l'uomo s'inganna: alla fine di conto que' vostri danari io non gli ho più, e per giovarvi con frutto me ne abbisognano degli altri."

"E faceva mestieri di tanta giravolta per venire all'ergo? prendi, questi sono agostari."

Gisfredo stese la mano come persona avvezza a simili presenti, se gli ripose sotto la veste, ringraziò inchinando il capo, e tornò nel primo atteggiamento.

Anselmo aggiungeva: "Fisco coll'anima, or che gli hai avuti, dimmi almeno che vuoi farne."

"Io vi protesto, Messere, che Gisfredo è vago di danari come il cane delle mazze; ma l'opera ch'io disegno fare in pro vostro, non può in nessuna altra maniera mandarsi a fine se non che col danaro; i tempi corrono difficili, la natura umana si corrompe ogni giorno di più, e vi sono di tali marrani che non vi farebbero piacere manco col pegno."

"E tu ne sei prova e argomento."

"Fate senno, Barone. Rogiero, partendosi dal masnadiero Ghino, niuna diversa strada vorrà tenere se non quella che conduce a Manfredi, - e questo è certo; ora, siccome ho raccolto per via che il Re ha convocato tra pochi il Parlamento del Regno a Benevento, il suo cammino deve piegare senz'altro a questa città; mio avviso sarebbe dunque partirmi velocemente, prendere in compagnia quindici o trenta uomini arrisichevoli, tendergli agguato, e farne pasqua ai lupi."

"Santo Germano!" esclamò il Conte Anselmo percuotendosi la fronte "tanto è vero, che per veder bene da vicino ci vuol vista corta! Tu dici saviamente, non in tutto però: in prima tu dèi condurre meno gente per non dare sospetto; invece di ribaldi da strada, tu passerai in partendo da Caserta, consegnerai un mio ordine al Castellano, che lascerà venir teco quattro o sei uomini d'arme; non più, ti comando, e bada che lascino la divisa di Aquino: in quanto a finirlo, parmi che non sarebbe buon consiglio; che ne senti?"

"Eh! fate voi; per me ho detto la mia: i morti non parlano, veh!"

Il Conte Anselmo pensava alquanto, proseguiva dopo: "No, no; quel cadavere insanguinato su la pubblica via, in occasione del Parlamento, - scudiero, - fuggito, - dannato, ingrandirebbe il fatto, e indurrebbe a ricercarne più oltre che la faccenda non meriti: ingegnatevi a prenderlo vivo; se non potete, sì, l'ammazzate, ma portatelo con voi; rimuovete ogni traccia, e sotterratelo dove non possa esser trovato. Parti, e fa forza di gambe."

Partiva. Quello che facesse e quello che ne seguisse, ha già saputo il lettore: perchè non essendo venuto comodo a Gisfredo di uccidere senza pericolo Rogiero, lo trasportò privo di senso a Benevento, dove, trovato il Conte Anselmo, che vi aveva preceduto la Corte, lo cacciava per suo comando dentro la carcere del palazzo del Legato di Roma, da lungo tempo deserto, e per trascuranza, o dispregio, in parte diroccato. Era pensiero del Conte farvelo morire di fame, non già, come diceva Gisfredo, per brama che avesse della sua morte, ma per risparmiarsi la spesa di tenerlo vivo.

Finita questa commissione, tornava Gisfredo alla dimora del Conte Anselmo, e gli diceva: "Anche questa è fatta, Barone; tra poco il nostr'uomo diverrà Santo e farà miracoli; adesso sta in clausura; manca il sigillo allo spaccio, col gittare la chiave nel Calore85, e poi è finita."

"Però pensiamo ad altro: trova alcun sacerdote che gli dica una messa, perchè la sua anima non si lamenti di noi, e conosca che abbiamo operato da buoni e leali Cristiani; pel rimanente raccomandiamolo a Dio."

"Dice bene il Messere!" - riprese, tra serio e beffardo, Gisfredo, non sapendo con quale intenzione favellasse Anselmo: veduto ch'ebbe un leggiero sorriso su le labbra del Conte, aggiungeva anch'egli ridendo: "La dirò io questa messa; vado certo che qualcheduno nell'altro mondo, o sotto o sopra, l'ascolterà."

"Non può fare a meno che tu non finisca male, tanto sei empio, Gisfredo! Adesso sono per commetterti una cura più delicata, e al tutto degna de' tuoi talenti; deponi quelle vesti da pellegrino, vesti l'assisa di casa mia, e vattene in Corte; poco sarai guardato; o, se guardato, come mio servo sarai anche rispettato: avvolgiti tra la gente di Manfredi, spia i Ministri, il Re, la Regina, tutti; nota gli andamenti, i detti, gli sguardi, e, se tu potessi, anche i pensieri; siimi fedele, pensa come il mio abbassamento non può accadere senza la tua rovina, la mia esaltazione senza tuo vantaggio."

Eseguiva Gisfredo i comandi del suo signore, un po', - e qui s'ingannava, - riputando di ricavarne qualche gran premio, un po' per inclinazione: entrava in Corte, e come quegli che era scaltro davvero, adesso mostrandosi carezzevole, adesso contegnoso, qui usando cortesia, villania, ritirandosi a tempo, e comparendo a tempo, lusingando i più ruvidi tra i Baroni con gl'inchini, guadagnando i servi più astuti con qualche agostaro, pervenne a conoscere in poche ore quello che forse altri non aveva imparato in molti anni. A mal grado del suo ingegno però, quel destino, che il più sovente si oppone alle opere generose, aveva decretato che gli dovessero riuscire fatali le sue triste; quelle che abbiamo fin qui raccontate, vedemmo averle conseguíte con molto pericolo; ora narreremo come avvenisse l'ultima, nella quale perdè la vita.

Stanca dalle faccende del giorno la famiglia di Manfredi era andata a trovare il sonno, che da molto tempo non iscendeva invocato su le palpebre dei suoi signori. Gisfredo con passi storti e leggieri, con le orecchie attente, per farsi maggior pregio presso il Conte Anselmo, penetrava nelle più riposte stanze reali: - i fati lo portavano; perviene entro un andito lunghissimo, - con la mano alla parete, in punta di piedi, senza trarre un fiato si mette a percorrerlo; - lo percorre, giunge ad una sala, abbandona la scorta del muro, e va oltre: non poteva essere anche a mezzo, quando un gemito represso lo avvertiva, quivi dimorare gente; - stava, - un lamento femminile fece suonare il vasto edifizio.

"Forse conosce la creatura" discorreva la mesta "l'arte di mentire l'affetto? forse le ha rivelato il Demonio come si finga una passione che m'inaridisce il cuore, mi sconvolge l'intelletto e mi consuma la vita? Finti gli atti cortesi, finto il lungo ossequiare, il guardo, la voce, l'amplesso, il bacio, finti? Non suonavano le sue parole ebbre di amore, non gli tremavano le membra, non sospirava profondo? Pure mi ha lasciata sola su la via dello spasimo; il pensiero dei parenti e del cielo può consolarmi; - la mia passione dura più forte di loro. Rispondimi almeno se sei morto, ch'io sappia dove indirizzare il mio gemito: - tenga la fossa il suo corpo, lasci libera l'anima, o tenga anche l'anima, pur che la lasci un momento per dirmi che non fingeva, - che mi amava; - questa apparizione è un baleno di tempo, - poi l'abbia per tutta la eternità. L'anima! - l'anima era nel sangue, e il sangue è stato diffuso; - avessi il cadavere! lo veglierei come se dormisse, ingannerei me stessa, dicendo: or ora si sveglia; e a canto al suo letto, da che egli non potrebbe essermi unito in vita, aspetterei rassegnata di unirmi a lui nella morte; - scalderei di baci le fredde labbra, infonderei balsamo nella sua piaga.... Dio eterno! qual piaga! scavernata, penetrante in mezzo del petto.... ella è insanabile.... dite il vero, è insanabile, Maestro86? - Non mi risponde, - piange, - e tu pure piangi, Gismonda. O Rogiero! chi ti ha trafitto? Rogiero!"

Sorgeva impetuosa, incamminandosi con passi veloci alla volta di Gisfredo, il quale, dando indietro meno cautamente, inciampava dentro uno sgabello con molto fracasso: l'evento lo turbava, perdeva la direzione della porta; tentando il muro, quanto più ne andava in traccia, tanto più se ne allontanava. Yole (però che Yole fosse la lamentosa), al rumore fatta furente, gli era sopra, già l'afferrava pel petto, - sentiva sotto la mano un pugnale, - gli frugava sotto la veste, lo stringeva, e minacciando di trapassarlo gridava: "Tu lo hai morto! - Dio mi ti caccia tra le mani, perchè ne prenda vendetta."

Il presente pericolo, non meno che il futuro, se quel grido di Yole avesse richiamato gente, tanto valsero ad avvilire Gisfredo, che a caso più tosto che a consiglio rispondeva: "Mercè, Madonna: il vostro Rogiero è vivo."

"Vivo!"

"Ve lo giuro per tutti i Santi del Paradiso."

"Vivo!"

"Sì, vivo e sano, come siete voi, Madonna."

"Non è vero, tu m'inganni."

"Non credete nei Santi?"

"Credo in loro, - ma in te no...."

"Pure egli vive...."

"Menami a lui, sperare, finchè io lo vegga, che questa mano si scosti dal tuo petto, questa punta dalla tua gola."

"Santa Vergine! Saremo veduti, Madonna, saremo fermati, perderete me e voi, non vedrete più Rogiero.... dimani, vi giuro...."

La vergine sveva, per passione diventata feroce, gli punse un poco la gola, - perchè Gisfredo ebbe a stramazzare svenuto, - e con saldo accento comandava: "Conducimi, e taci."

Gisfredo vedendo che non correva tempo da immaginare scaltrezze, e che se alcuna cosa poteva condurlo a salvamento era la lealtà, si dispose, sebbene suo malgrado, ad operare onesto; - pareva che non ci avesse garbo, quantunque in pensiero risoluto di condursi a dovere; le membra da per loro si studiavano tradire. La vergine sveva lo teneva corto, e sovente per sospetto lo ripungeva; egli prorompeva in un ahi! sommesso, e per alcuni passi non faceva motivo, poi tornava a far peggio. Così scesero nel cortile; due uomini d'arme camminavano in su e in giù con differente direzione traverso la porta grande; - passare per quella senza essere notati era impossibile cosa. Non vi ha palazzo reale che non possieda porte segrete, donde scrive Giuseppe Parini che talora entra la verità; Yole si sovvenne in buon punto, che quello in cui stava ne aveva pure una; vi traeva quasi a forza Gisfredo, e in questo modo pervennero all'aria aperta. - Ciò che venne dietro, il lettore se lo ha già conosciuto avanti.

 

 

 

 




85 Fiume che passa vicino a Benevento.



86 Forse è inutile avvertire che Maestro era il titolo che si dava ai medici in quei tempi.






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