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Francesco Domenico Guerrazzi La battaglia di Benevento : storia del secolo 13. IntraText CT - Lettura del testo |
Cotal fin ebbe il maledetto Gano:
Chè lo eterno giudicio è sempre appresso,
Quando tu credi che sia ben lontano.
MORGANTE MAGGIORE.
Sopra la testa di Manfredi posa la corona dei Re; - se fosse un cerchio di fuoco, la cingerebbe con meno dolore; una angoscia, come se la lama di pugnale gliele passasse da parte a parte, gli tormenta le tempie; le fibre del suo cervello, quasi riarse, sono stirate con incredibile spasimo; nondimeno solleva quella testa baldanzoso quanto in un giorno di vittoria, e dimostra che l'orgoglio dominerà su la sua fronte, finchè la morte non vi spieghi l'insegna della distruzione. Quegli occhi assuefatti a vigilare notti di spavento, a dormire sonni pieni di paura, che spesso si affissano in cotale direzione che non è della terra o del cielo, ma quasi a contemplare le schiere degli spiriti malefici, che la superstizione e il rimorso hanno posto nell'aria sotto il cerchio della luna89, quegli occhi, dico, scintillano pur sempre di tale una luce, che bene ardito è colui che osa mirarli la seconda volta; infinite vene azzurre e sanguigne si dipartono di sotto il ciglio, e dirigendosi verso la pupilla si perdono pel bianco sporgente in molto terribile maniera: - pare che una scossa d'interna passione lo abbia forzato a balzare dalla fronte, ch'esso abbia resistito e vinto, pure la vittoria non sia stata senza gran danno, e rimanga così come franato mezzo fuori delle palpebre; - certo quegli occhi appaiono tremendi; ciò che di truce può immaginare la fantasia commossa hanno veduto, ed oggimai senza altra alterazione potrebbero fissare gl'interminabili cruciati delle anime perdute; - susurra la gente uscirne un raggio più spaventevole della cometa scomparsa, e giura che arde le carni su le quali si posa. La faccia ha bianca, e per la faccia erra un sorriso; - ride la demenza perchè non sa piangere; - ride la disperazione perchè non può piangere; - di gioia veramente egli non ride; se poi l'Onnipotente gli abbia tolto il senno o la speranza, noi non sappiamo; - la scienza della polvere non giunge a distinguere i segni della passione. Tale apparisce Manfredi circondato dalla pompa reale: la clamide di porpora, ricamata d'oro e sparsa di gemme, gl'ingombra parte della persona; stringe con la destra lo scettro; la manca ha su l'Aquila di argento che porta tessuta nel petto: - s'ei lo fa per reprimerne il volo, lo tenta invano: - sta scritto nel libro dove nè per minaccia nè per preghiera lo Inesorabile cancella, che l'Aquila sveva deva abbandonare per sempre la terra di Napoli.
Alla destra del Re siede il Conte Rinaldo di Caserta della famiglia di Aquino, sì come Gran Contestabile della Corona: sopra il suo seggio si vede lo scudo portante l'arme di sua casa, che a que' tempi faceva tre bande rosse e tre bande d'oro cascanti da destra a sinistra inquartate, con un lione rampante, da metà in su d'argento in campo rosso, in giù rosso in campo di argento. Veste egli la cappa di porpora foderata di armellini, copre la testa d'una berretta di seta rossa, e tiene tra le mani la spada reale, insegna del suo ufficio: dimentico della gente che lo circonda, dimentico di sè stesso, si affissa sul volto di Manfredi per ispiarne il dolore; s'egli godesse, o sivvero si disperasse della costanza del Re, non dimostrava al di fuori, imperciocchè stesse immobile come cadavere. Primo a mano sinistra del Re comparisce il Gran Giustiziere del Regno, Giordano Lancia, cugino di Manfredi: veste anch'egli di porpora, e a lato della sua arme, che mostra lione nero in campo d'oro, con fascia intorno allo scudo, d'oro e di rosso, la quale avevano assunta i Conti di Lancia sì come discendenti dai Duchi di Baviera, spiega il gonfalone della giustizia, che secondo l'antica costumanza appiccava al balcone del palazzo ogni qualvolta condannava un uomo alla morte. Immediatamente dopo il Contestabile a mano destra veniva il seggio del Grande Ammiraglio, nel quale non si vedeva persona, perchè cotesto ufficio il Re Manfredi avesse conferito a Marino Capece, che in quel tempo, insieme col fratello Corrado, governava Sicilia: stava nondimeno su la sommità del seggio effigiata l'arme di sua famiglia, e il fanale, insegna della carica. Secondo alla manca del Re veniva Anselmo Conte della Cerra, gran Camerlingo, vestito anch'egli di porpora, con la chiave d'oro alla cintura: volgeva sospettoso gli sguardi per ogni parte, ed osservava in un punto teste, mani e petti; là dove era riunita una sola fila di Cavalieri o non guardava, o poco; ma ogni sua cura metteva di penetrare tra capo e capo, dove la folla compariva ben fitta, e discernere i più lontani e i meno rischiarati dalla luce. Seguitavano dopo di lui gli Ufficiali della Corona nel seguente modo, che minutamente descrivere sarebbe troppo grande fastidio nostro e altrui: il Gran Protonotario, di cui l'opera consisteva in ricevere i memoriali, e ridurre in decreto tutto quello che il Re sentenziava, sedeva terzo alla destra del Re, ed era, per quello che raccontano le storie, un messer Giovanni d'Alife; il Gran Cancelliere presidente degli affari civili del Regno e Segretario del Re, terzo a sinistra dopo il Conte della Cerra, il nominato Corrado di Pierlione Benincasa: e finalmente il gran Camerario, con la testa di cignale ricamata nel mantello di porpora, seduto su i gradini del trono ai piedi del Re, che, se la mente non erra, si appellava Giordano d'Angalone, zio di quel Natale che fu poi tanta parte nella congiura dei Vespri Siciliani. Disposte sì come abbiamo narrato le principali cariche della Corona, occupava la rimanente sala del Parlamento il volgo dei nobili, non già alla rinfusa, ma secondo la dignità dei sedili loro: e questi sedili, per chiunque avesse vaghezza di sapere che fossero, erano vastissimi portici aperti, dove da tempo immemorabile i Baroni delle diverse contrade si convocavano per trattare di affari pubblici e privati, o sì per diporto. Allorchè il Conte di Provenza scese in Italia alla occupazione del Regno se ne noveravano ventinove, sei dei quali maggiori, ventitrè minori: primo in prerogative era il Sedile Capuano, così detto per trovarsi presso alla casa del Re: secondo del Nilo, per una statua antica di questo fiume che avevano collocato nel mezzo del portico; terzo quello della Forcella, perchè presso alle forche; quello della Montagna era il quarto, essendo nel luogo più alto della città; pure tra i maggiori si consideravano i Sedili di Porto e Portanuova: i rimanenti passano innominati. Maravigliose a vedersi erano le ricche vesti, i giubboni di broccato, i mantelli, quale foderato di vaj, quale di zendadi verdi, rossi o rosati; aggiunge la Cronaca il nome di alcuni altri abiti, dei quali le memorie non ci hanno conservato la forma, come cipresi, tuni, e cioppe; maravigliosi i gioielli, le catenelle e le cinture di oro o di argento, che lavorate con quanto di più ingegnoso sapessero inventare le arti in cotesta età, e tempestate di diamanti, valevano talvolta mille e più once; ma più maraviglioso a considerare era, come in tanta ragunanza di gente, per natura loquacissima, non s'intendesse il più leggieri susurro; parevano ombre di morti costrette dagli scongiuri del negromante a comparire su quella terra, che da lungo tempo ne ha disfatto i cadaveri.
Mentre con grandissima sospensione di animo stavano i convocati nella aspettativa di eventi mirabili, dischiuse, allo improvviso le imposte d'una porta, comparvero due chierici, che portavano un altare, dice la Cronaca, di legno; ma noi troviamo, che simili altari permessi nelle persecuzioni della Chiesa furono dopo l'Imperatore Costantino solennemente aboliti nell'anno 547 di nostra salute in un concilio di Francia; onde ci è forza credere che Manfredi, il quale voleva fare le tante cose a suo modo diverse dai precetti della Chiesa, così pure si comportasse sul fatto degli altari. Giunti che furono i chierici sul mezzo della sala, quivi si fermarono, e accese due candele, e posto sull'altare un Crocifisso di argento, e un messale con ornati parimente di argento, senza proferire parola, come erano venuti, se ne tornarono. Manfredi soprastette alquanto, poi si mosse per alzarsi dal trono; - parve che non potesse; tentò di nuovo, e invano; alla fine con inestimabile sforzo si levò in piedi, scese i gradini, e si fermò davanti l'altare; depose sopra esso lo scettro, la corona, e la clamide; alzata quindi la destra nuda verso i Baroni esclamò: "Noi non vogliamo sangue.... noi non vogliamo il vituperio vostro.... cessate di cercare nel tradimento la via di rovinarci dal trono.... voi nol potreste. Per libero, universale consentimento vostro, questo scettro, e questa corona assumemmo a Monreale; di libero consentimento nostro, questa corona, e questo scettro vi restituiamo a Benevento: possa colui che voi chiamate a succederci, operare quello che noi volemmo; possa con le sue virtù farvi benedire il momento, nel quale, mutando di fede, sommo bene riputaste la caduta del vostro antico signore!..." E seguitava molto commosso, se non che i Baroni, nulla rispettando la parola del Re, trassero le spade, e proruppero con altissime grida: "Morte ai traditori!... dove sono i traditori?" - e quelli che più urlavano erano coloro che più lo tradivano: il Conte della Cerra fu per perderne la voce; Rinaldo di Caserta alzò la spada, ma rinvenuto dalla sua distrazione, conoscendo che si trattava di difendere, non di ferire il Re, l'abbassò sospirando: - "Non è anche tempo!"
Il nobile Manfredi levandosi contro coteste voci, prorompeva: "Noi non vogliamo sangue: - sia questo l'ultimo comando della nostra autorità."
Allora i Baroni non sapendo che cosa gridare, dicevano: "Riponetevi, messer lo Re, la corona che vi abbiamo data; noi spenderemo la vita per mantenervela su la testa."
"Oggimai" rispondeva Manfredi "la corona di Sicilia, più che di gloria, è diventata di spine: pure noi non rifiutiamo lo incarico, laddove voi partecipiate nei pericoli di sostenerlo; nè noi soli bastiamo: giovi oggi rinnuovare l'antico giuramento; questo è il Cristo medesimo, che ascoltava, ora fa dieci anni, le voci vostre; questi gli Evangeli che sentivano il tocco delle vostre mani: - giurate."
Se qualcheduno pratico delle cose del mondo domandasse qui, come Manfredi, il quale per indole e per esperienza tanto diffidava degli uomini, si commettesse così di leggeri alla fede loro, e stimasse, che alcune parole proferite avanti una immagine valessero a ritenere dal tradirlo anime, che cessarono di essere innocenti dal punto in cui pensarono al tradimento, noi vorremmo pregarlo a porre mente, che i tempi si erano fatti tali pel figlio di Federigo, che pericoloso diventava il non versare sangue, pericolosissimo il versarlo: vedeva anche egli la debolezza dell'espediente che adoperava, ma aveva meditato sul danno di quello che non adoperava: non già ch'egli abborrisse dalle vendette, chè anzi n'era quanto altro uomo desideroso: pure se nella casata dei traditori avesse avuto qualche amico al suo nome, se lo sarebbe alienato col supplizio del congiunto; ed egli molto abbisognava di amici, chè di nemici ne aveva più del necessario. Nello interno dell'animo però disegnava, passata quella tempesta, di farli colpevoli per punirli con la giustizia, e i pochi che suo malgrado si fossero rimasti incontaminati spegnere col veleno. Quello poi che faceva non era scelta; e da che operava costretto, la sua memoria poteva consolarsi nel felice esito dell'avventura, presso a poco uguale, eseguita da Filippo Augusto innanzi la battaglia di Bouvines per confermare la fede vacillante dei Baroni francesi. In tempi a noi più recenti, Maria Teresa, l'animosa Imperatrice, disperate le cose del Regno, suscitò il valore degli Ungari con simile accorgimento, e prevalse al nemico; molti altri Re e capitani usarono di queste arti con lieto fine, molti anche le usarono con tristo, e Manfredi fu degli ultimi; colpa meno del consiglio, che è cosa stolta biasimare dal fatto, che della umana natura, la quale composta di contraddizioni non concede sistema certo, nè regola per condurci con passi infallibili nei casi dubbii della vita: onde s'egli è pur vero che quel Divino lo dicesse, disse poco savia sentenza Galileo quando sostenne, potersi ridurre a dimostrazioni geometriche le operazioni morali dell'uomo. Tanto e tanto c'inabbisseremmo dentro queste sottigliezze, allorchè ci capita il destro di fantasticare a modo nostro, che se altri non ci riscuotesse, immemori della storia che raccontiamo, immemori del principio dei ragionamenti stessi, e di noi, chi sa dove mai andremmo a riuscire: - e' vogliono essere storielle, non raziocinii; e la più parte di coloro che ci leggono, andiamo convinti, che, quando s'imbatte in un discorso come il passato, quasi dovesse affaticarsi su l'erta di qualche gran monte, apparecchia lo affanno, o da bestia leggiera lo scavalca a piè pari. - Proseguiamo il racconto.
Rispondevano in tumulto, sì come vuole il costume della plebe raccolta, i Baroni del Regno: "Messer lo Re, noi siamo pronti a fare quello che comandate."
Scompigliati gli ordini, Anselmo trovò modo di accostarsi a Rinaldo, che tornato su l'astrazione pareva sonnambulo, e dirgli all'orecchio con molta destrezza: "Conte, tornate in voi; bisogna rinnuovare il giuramento di fedeltà.... vedete un misfatto di più."
"Non sarà quello che ci manderà all'Inferno," - rispose Rinaldo: quindi accostatosi francamente all'altare, sì come correva la usanza s'inginocchiò pel primo, e toccando con la destra il libro dei santi Evangeli, con la manca le mani del Re, proferì a voce alta che si fece a mano a mano più fioca: "Al cospetto di Dio e dei Santi, rinnuovo nelle mani del mio Re Manfredi Primo il giuramento di lealtà, e ligio omaggio, che già gli ho giurato a Monreale:" - dette le quali parole, od ira, o coscienza, che il rimordesse, di vermiglio che era si fece pallido, e le parti del volto meno esposte alla circolazione del sangue diventarono di colore oscuro; nondimeno tanta faceva pressa il Gran Giustiziere di prestare il proprio giuramento, che quei moti del Caserta passarono inosservati. Ora si accosta il Conte Anselmo, baldanzoso, ridente di quel suo schifoso sorriso, quasi togliendo a scherno la persona del Re, e l'aspetto molto più sacro del Dio-Uomo, il cielo e la terra; si prostra innanzi l'altare, e stende la destra sopra gli Evangeli....
"Cristo!" - urla spaventato il maladetto, chè una mano ghiacciata gli avvinghiava il polso a guisa di tanaglia, e glielo teneva sospeso.
"Spergiuro!" lo minaccia da tergo un Cavaliere affatto coperto di maglia "se non mi tenesse il rispetto dell'altare, che tu hai polluto, e quello della Serenità del Re Manfredi, io ti darei d'un coltello pel mezzo del cuore; - alzati.... dinanzi al mio Re, dinanzi a voi altri, onorati Baroni, accuso costui, Anselmo Conte della Cerra, colpevole di crimenlese, e traditore del Regno."
"Tu te ne menti per la gola!" - comecchè sbigottito dal caso rispose incontanente Anselmo della Cerra.
"Io" riprendeva il Cavaliere, volgendosi a Manfredi, "costituito nella presenza della Serenità Vostra, con buona grazia e licenza affermo, che Anselmo Conte della Cerra qui presente è traditore. Egli ha tentato dare ai vostri nemici la terra vostra in danno e vilipendio di voi, dello Stato vostro, e con pessimo esempio di tutti i vostri vassalli; si è adoperato nella infame opera con ogni suo ingegno e forza; e quantunque infiniti concorrano gli indizii per chiarire con certezza la mia accusa, mi restringo a produrre questa carta, che per certo di per sè sola sarà sufficiente."
Porgeva assai circospetto la carta al Re, il quale aveva riconosciuto il Cavaliere per quello stesso, che nella sera antecedente andava a scoprirgli la congiura: era la carta una minuta di lettera che il Conte Anselmo divisava mandare a Carlo di Angiò, nella quale gli magnificava i suoi servigii, e molto maggiori dei già fatti di farne prometteva; solo si rammentasse di lui; all'ultimo toccava, tutti i rimanenti Baroni congiurati essere una mano di stolti, che, dove egli non fosse, andrebbero di per sè a riporsi tra le mani di Manfredi; non pertanto non dubitasse, ch'egli saprebbe dominare gli eventi e resistere alla fortuna; per così savio e generoso signore spendere volentieri l'opera della mano e l'ingegno; spenderebbe anche la vita, dove l'occasione lo avesse voluto; - e così continuava con parole, parte lusinghiere, parte piene di cupidigia, tutte vili. La carta però non era firmata dal Conte, solo compariva scritta di suo carattere: Rogiero l'aveva trovata nel corridore, e il Cerra l'aveva perduta nella istantanea fuga.
"Quando" aggiungeva Rogiero "non s'intenda pienamente provata la mia accusa, sì come buono e leale vassallo mi chiamo tenuto a mantenere la onoranza e vita vostre, mio Re, nè schivare pericolo per dedurre a vostra notizia tutto quello che si trama contro lo Stato vostro, se non voglio essere, giudicato del medesimo delitto di crimenlese colpevole: però mi offro di provare, cimentando la sua persona con la mia, quanto ho proposto esser vero. Supplico con ogni istanza vogliate pronunciare lo indizio sufficiente per venire a duello, ch'io spero nella giustizia di Dio convincerlo, ad onore, mantenimento, ed esaltazione dello Stato vostro."
"Ed io" rispose l'accusato "Anselmo Conte della Cerra, con licenza della Serenità Vostra dichiaro cotesto sconosciuto mentitore, e mantengo quella carta non appartenermi per nulla, esservisi falsificato il mio carattere...." Profferite appena l'estreme parole si accôrse Anselmo del fallo commesso; e procurò rimediarvi, aggiungendo precipitoso: "E però mi offro..."
Manfredi, che fino da principio del discorso gli aveva fitto addosso que' suoi occhi scintillanti di malignità, al punto fatale lo interruppe domandandolo: "Chi vi ha detto, messere il Conte, essere questa carta di carattere simile al vostro?"
"Io...." rispondeva Anselmo esitante "io l'ho veduta."
"Ah! l'avete veduta?" - disse Manfredi abbassando lo sguardo.
"Sì" - con terrore crescente aggiunse Anselmo.
Manfredi allo improvviso gli pose di nuovo gli occhi addosso, per lo che egli fu costretto a volgere a terra i suoi, e dopo aver considerato quel turbamento, con voce tra minacciosa e beffarda disse: "Sta bene."
Anselmo, costretto a terminare la sua formula di mentita, come serpe fiaccata sul dorso, continuava: "E però mi offro in ogni giudizio militare e civile, difendere il contrario, solo confidato nella giustizia di Dio."90
Manfredi intanto, dopo aver ben letto la carta, la passava al Contestabile, dicendo: - "Che parvene, Messere?" - Rinaldo, recatasela in mano, faceva atto di guardarla attentamente: i circostanti, non potendosi frenare, gli si aggrupparono intorno; questi lo prendeva per un braccio, quegli per l'altro, chi gli poneva il capo sotto il mento, chi lo sporgeva dalle sue spalle; il più lungo gli stette di faccia, e in punta di piedi col capo ripiegato sul seno, a modo di cicogna quando prende il cibo; il più piccolo levata la faccia, e veduti quelli uomini che gli si paravano dinanzi a guisa di muraglioni, tolse una sedia, e vi montò sopra; così ne nasceva uno scompiglio, un susurro, che la natura napolitana ha in ogni tempo messo nelle più comuni operazioni della vita.
I congiurati, che ad ogni momento si facevano perduti, con voci o con cenni scongiuravano il Caserta a camparli da quella fortuna; ed egli, che sembrava mandar fiamme allorchè tutti gli altri pareano carboni spenti, gli assicurò di uno sguardo, che il suo spirito vegliava. In questo accostandosegli il Re ripeteva sommesso: "Che parvene, Contestabile?"
"Potete concedere il campo." - Il che era vero; ma egli non lo consigliava mica per giustizia, avvisando, che se speranza di salute avanzava, consisteva nel levar di mezzo quella vita tanto sospettata del Cerra; cosa che sarebbe di certo avvenuta, dove fosse stato costretto a combattere, essendo costui d'indole codarda, di corpo indebolito, ed il suo avversario, a giudicarne dal sembiante, assai prode uomo di guerra: faceva in somma il Caserta al Cerra per caso quello che non era riuscito al Cerra di fare al Caserta per arte.
"Noi abbiamo pensato, Contestabile," disse Manfredi al Caserta, "di ridurre questo affare a giudizio civile, perchè da questi giudizii di Dio non si ricava mai nulla che valga, e spesso lo invocato, che vi dovrebbe assistere, non vi assiste, e con manifesta ingiuria della giustizia il torto prevale alla innocenza."
"Pure la religione...." - si avvisò interrompere un Cavaliere.
"La religione è cosa santa; ma v'ha tal donna chiamata superstizione che veste sì come ella veste, oscena di volto quanto quella è leggiadra; e per andare ambedue velate, la gente grossa non le distingue, Barone."
"Dio" insisteva il Cavaliere "ha spesso visibilmente protetto la innocenza nei suoi giudizii."
"Spesso anche no: perchè dobbiamo porlo nella necessità di fare un miracolo, che noi non sappiamo se sia decretato nel suo santo volere? perchè infastidirlo quando l'uomo può fare da sè? non ci ha egli dato il senno per questo?"
Il Cavaliere, sia che non sapesse che cosa rispondere, o che altro, si trasse indietro, mormorando: "È un eretico."
Rinaldo, che pe' suoi fini voleva che quel duello si facesse, aveva lasciato dire il Cavaliere, perchè usava un mezzo di persuasione che a lui non istava bene adoperare, e perchè dimostrarsi troppo insistente avrebbe dato sospetto; adesso, conosciuto che quelle ragioni non bastavano, si mise a proporre le sue.
"Mio Re," favellava a Manfredi "voi sapete meglio che persona due essere le cause per le quali a forma delle costituzioni del Regno ha da permettersi il duello nella vostra terra: per crimenlese, e per la morte occulta di veleno, o in qualunque altra maniera data; sì che non potrebbe la Serenità Vostra senza derogare a un tratto...."
"E se noi vi derogassimo, Contestabile, che direste voi? Meglio una volta che mai: hanno a vivere eterni gli errori? Niun termine, nessun confine alle follíe dei nostri maggiori? Dorrebbevi forse, che fossero aboliti questi barbari avanzi di tempi infelici?"
Giordano Lancia, cugino di Manfredi, a lui per interesse e per volontà sinceramente affezionato, prese ad agevolare il consiglio del Caserta aggiungendo: "Messer lo Re, io stimo bene avvertirvi costituire questi giudizii gran parte dei privilegii baronali; a me pare, che adesso non corra la stagione delle riforme; e di questa, sono certo, si dorrebbero più di ogni altra, come quella che, per consistere in dimostrazioni esterne, più offenderebbe con la mancanza i sensi della gente."
Manfredi, che non aveva creduto trovare così forte impedimento al suo pensiero, mosso dal consiglio di persone tanto autorevoli, si strinse nelle spalle, dicendo: "Pur troppo l'errore giunge con la velocità del desiderio, e si diparte con la lentezza della speranza!"- quindi avanzatosi verso il Gran Protonotario, ordinava: - "Spedite le patenti; noi concediamo il campo."
Il Gran Protonotario, fornito assai prestamente l'ufficio, porse la patente a Manfredi perchè la firmasse, ed egli munitala di sua firma gliela restituì sul momento. Allora Messer Giovanni d'Alife lesse: "Noi Manfredi Primo per la grazia di Dio Re di Sicilia, etc. etc., per tenore delle presenti concediamo a Messer Anselmo Conte della Cerra provocato, e a Messer Cavaliere innominato provocatore, ambedue qui presenti, campo franco e sicuro a primo transito nella terra nostra di Benevento, dove ognuno di loro possa diffinire con l'arme la querela di crimenlese per lo tempo e termine di tutto il presente giorno, nonostante alcuna cosa in contrario, etc. etc. In fede di che Noi abbiamo fatto fare la presente, segnata di nostra mano, e munita del nostro suggello, anno Domini 1265, giorno 24 del mese di gennaio. - MANFREDI."
Anselmo non si aspettava a questo; e veduto che il Re si consigliava co' suoi più eletti Baroni, per essere tra quelli il Conte Rinaldo, stava sicuro che l'affare del Giudizio di Dio non sarebbe andato più innanzi; però se gli giungesse improvvisa quella concessione del campo non è da raccontare; l'ascoltava come uomo smemorato; pure il Gran Protonotario non aveva finito di leggere la patente, ch'egli pensò tra sè: - Rinaldo avrà certamente consigliato che non si venisse a questo fine, almeno doveva farlo; forse che non avrà potuto impedirlo.... ma e non avrebbe anche potuto promuoverlo? - perchè? - io non ne vedo la ragione: questo duello non si ha da fare, nè si farà. Guardiamo se per avventura giunsero i tempi di porre me sotto la protezione del trono, e loro sotto quella della forca.... No, - oggimai è troppo tardi, gli eventi mi hanno strascinato; a mal grado del mio ingegno per ischivare l'unione fatale, l'altrui vita sta essenzialmente congiunta alla mia, nè posso far cadere la scure sul collo dei miei compagni senza ch'io ne perda la testa.... la testa! - qui sì che ci vuole arte davvero: animo, Anselmo, non mancare in questo estremo a te stesso, aguzza lo intelletto, mostra il viso alla fortuna, ella si volge benigna agli audaci, e pensa che non ti resta per la tua salute che audacia. - Così appunto, secondo che narrano le vecchie leggende, quel Gano di Maganza, che occorre nella epigrafe del presente Capitolo, condannato da Carlo Magno allo squarto per aver tradito i Cristiani a Roncisvalle, dove morì il famoso Conte Orlando con la più parte dei Paladini di Francia, ormai presso allo strazio, supplicò l'Imperatore di una grazia, il quale, pur che non fosse di vita avendogliela quegli concessa, domandò di essere squartato da quattro cavalli verdi; invenzione che non giovò a quel tristo, più che ad Anselmo giovasse la sua, perchè dice la leggenda, che Malagigi per arte di negromanzia fece apparire quattro demoni in sembianza di cavalli verdi, e Manfredi con la sua autorità rimosse tutti gli ostacoli che mise in campo il male arrivato Della Cerra.
"Mio Re," con atto modesto parlava Anselmo vôlto a Manfredi, "non v'ha colomba, per innocente che sia, che non possa essere dall'altrui malignità calunniata; la mia lealtà per voi si chiarisce per mille prove, nè teme offesa da questo uomo, che per dirne meno dirò che viene sconosciuto sì come fa il ladro...."
"Potrei scoprirmi, e allora che diverreste Anselmo?"
"Io parlo al mio Re, e prego di non essere interrotto:" (Manfredi accennava al Cavaliere che tacesse;) "ora Dio sa se volentieri io verrei al paragone con qualunque uomo al mondo, ed anche con costui, per sostenerla con l'armi; ma per appartenere ad illustre famiglia, tra le più nobili del Regno onorata, le leggi di Cavalleria mi vietano scendere in isteccato con tale che non pure non prova di essere Cavaliere, ma per istarsi tutto nascosto nell'armi potrebbe bene aver nota d'infamia...."
"Infame io? tu sei infame...."
"O bando per assassino, per tradimento, o per qualunque altra causa contemplata nelle costituzioni...." (Lo sconosciuto fece sembiante di prorompere; Manfredi lo contenne con un suo sguardo severo, tuttavia egli continuò a stringere con mano tremante di rabbia l'elsa della spada) ".... così che lo potessi rifiutare di ragione, e però non venissi, assistendomi Dio, sì come confido per esser questa causa della innocenza, e causa sua, a conseguire vittoria contro costui più vituperosa, che perdita contro un Cavaliere onorato."
"Conte della Cerra," risponde Manfredi, "sappiate che un uomo che si affatica, come fa questo Cavaliere, a sostenere la gloria della nostra Casa, non può essere infame, nè notato di quelle vergogne che voi andate esponendo; nondimeno perchè a noi, quanto a voi, preme che illibate si conservino le leggi di Cavalleria, non vogliamo che con altri combattiate se non con Cavaliere." E così favellando, ordinò a Rogiero che si accostasse all'altare: quivi arrivato: - "Ponete ginocchio a terra," aggiunse, e toltagli la spada da canto, la sguainò, gliela percosse per tre volte su l'elmo, e proseguiva: "Voi siete Cavaliere: i modi vostri assai ci fanno palese, voi da gran tempo conoscerne i doveri; che voi siate per onorare il grado non dubitiamo" (e sì dicendo gli ricinse di sua mano la spada), "nè consentiamo che scendiate in campo senza illustre insegna. Contestabile Rinaldo, noi vi preghiamo esserci di tanto cortese, che lo vogliate accomodare della vostra arme; noi vi assicuriamo che le vostre bande d'oro, e i lioni d'argento, non si dorranno di questo, perchè se a Cavaliere privato fosse concesso portare impresa di Re, noi gli avremmo fatto presente della nostra Aquila stessa."
Il Conte di Caserta, staccato dal suo seggio lo scudo, lo porse con bel garbo a Manfredi, che lo adattò al braccio del nuovo Cavaliere; il quale, sopraffatto da così grande dimostrazione di amore, null'altra cosa poteva proferire oltre questa: "O mio Signore, gran mercè!"
"Ora Conte della Cerra," disse Manfredi, "vedete bene starvi a fronte questo uomo, nè potersi da voi rifiutare con nessuna eccezione, imperciocchè quando anche fosse contaminato di quelle brutte macchie di traditore
e di assassino, che voi gli avete supposto, l'ordine di Cavalleria da noi conferitogli lo ha tutte rimosse, sì come fa dei peccati il santissimo battesimo tra i sacramenti."
Tra male gatte è capitato il sorcio, per dirla con Dante. Il Conte della Cerra più s'ingegna levarsi d'impaccio, più vi si avviluppa, e ad ogni passo gli si chiude un sentiero allo scampo; nondimeno non gli basta il cuore di abbandonare la presa: considerando che quello ostinato celarsi del Cavaliere doveva tener sotto qualche grande mistero, e che dove fosse scoperto avrebbe prodotto accidenti da sturbare il duello, ricorre a nuova sottigliezza.
"S'io punto m'intendo di Cavalleria, parmi, mio Re;" favella rivolto a Manfredi "che a me spetti la eletta dell'armi."
"Veramente voi parlate la verità: eleggete."
"Da che a me sta eleggere, questa è la nota delle armi: due coltelle genovesi di due palmi, taglienti; targa, un mantello di lana; morione in capo, una ghirlanda di fiori."
Molti stupirono alla inaspettata proposta del Cerra, tenendola per animosa; molti, e tra questi Manfredi, con più senno la tennero per codarda, ravvisando in essa un cavillo per impedire la prova.
"Noi, come signore del campo," parlò il Re un po' turbato "non possiamo ammettere coteste armi, insolite al costume cavalleresco."
"Io pure non vorrei levarmi da dosso questo vituperio di sospetto in diversa maniera...."
"Se sia maggiore vituperio dare con la propria condotta luogo al sospetto di tradimento, ovvero la manifesta dimostrazione di sfuggire la prova che potrebbe purgarlo, noi non sappiamo, messer Conte; il primo è incerto, il secondo comparisce certissimo...."
"La scelta dell'armi non tenga la Serenità Vostra dal concedere il campo," interruppe il Cavaliere innominato "perchè io posso combattere sconosciuto anche nel modo proposto dallo avversario."
"E come lo potrete voi?" - domandò il Re.
"Coprendomi il volto con un velo di seta nera, simile a quello che nascondeva il Conte Anselmo, allorchè mi condusse entro una prigione di Napoli per farmi conoscere mio padre."
Rinaldo, che attentissimo ascoltava la disputa, riconobbe chi fosse il Cavaliere, e raccolti i pensieri, si diede a considerare la prepotenza dei destini che lo avevano costretto a porgere di buon animo la sua impresa a tale uomo, che or sono molti anni, con solenni giuramenti sacramentava, non avrebbe indossata giammai.
Lo riconobbe anche Anselmo, e nessuno migliore espediente trovò per nascondere la fiera alterazione, che gridare: "Or via, sia come volete; accetto di combattere con le armi solite adoperarsi tra Cavalieri."
"Contestabile," allora disse Manfredi "a noi non è concesso per le gravi cure del Regno assistere a questo abbattimento; pertanto a voi deleghiamo le parti di giudice, e di signore del campo, ed espressamente ordiniamo, che vi sia senza nessuna esitanza obbedito, come se foste la nostra stessa persona: avvertite, noi aver concesso il duello al primo transito; togliete sufficiente scorta onde reprimere chi si volesse muovere a favorire alcuno dei combattenti; e se insistesse, si uccida, che sarà bene ucciso; provvedete al vostro e al nostro onore; abbiate cura all'ordine, non dimenticate mai che spesso queste prove di onore hanno finito in obbrobriosi assassinii. Voi, Giordano d'Angalone, costituisco padrino del Cavaliere innominato; voi, Benincasa, di messer Anselmo; adempite da valenti Cavalieri l'ufficio: Conte Lancia, seguitemi; Contestabile, nel nostro palazzo aspettiamo la novella del fatto." - Profferite queste parole, salutò con cenno cortese i ragunati Baroni, e scomparve col Conte Lancia per una porta della sala.
"Rinaldo," parlò il Conte della Cerra, cogliendo l'occasione di accostarsegli, quando camminavano alla volta dello steccato fuori delle mura di Benevento; "Rinaldo, voi avete veduto con quanta costanza io vi abbia salvato la vita; adesso ragione vuole che voi facciate alcuna cosa per salvare la mia."
"Io bene pensava a questo, Anselmo; state di buon animo."
"Ditemi il come, Messere, perchè sta in mia mano perdervi tutti...."
"E voi stesso con noi però...."
"Non vuol negarsi questo: ma che dice il proverbio, Conte? mal comune mezzo gaudio; e poi chi vede la fine? da cosa nasce cosa...."
"Voi parlate saviamente, Anselmo; uditemi: adesso bisogna non isbigottirci per nulla; state saldo, parate i primi colpi, chè per essere voi coperto di piastra, di leggieri lo potete; allora susciterò scompiglio nel campo, farò ammazzare il vostro avversario, che se mal non vedo, dovrebbe essere...."
"Il figlio della vostra consorte.... è certo."
"Sia: e voi fuggire...."
"Chi mi assicura che voi lo farete?"
"Come posso assicurarvi, Anselmo? non ho condotti già io questi tempi, nei quali uomini senza fede è di mestieri si affidino sopra la mutua lor fede."
E proseguivano; se non che in questa giunsero al campo. Rinaldo, chiamato il Capitano della gente d'arme. segretamente gli commetteva, desse ordine ai soldati di disporsi in quadrato; badassero bene che nessuno passasse la fila, finchè l'uno o l'altro dei combattenti non fosse morto, o abbattuto: e se persona l'osasse, senza rispetto al mondo la uccidessero; avvertisse che quanto gli comandava fosse eseguito sotto pena del cuore. Poi ristrettosi col vecchio congiurato, di cui la troppa età ci ha nascosto il nome, gli disse, che dove il Cavaliere sconosciuto avesse, sì come pareva certo, morto o ferito il Conte Anselmo, egli co' più audaci compagni rompesse le file dei soldati, che non avrebbero fatto resistenza, e s'ingegnasse in tutti i modi di ammazzare anche lui. Il Cavaliere, udito il comando, scosse la testa, e rispose: "Sta bene, - assai mi piace, - ella va in regola, - non dubitate, chè sarà fatto."
Intanto i padrini, smontati da cavallo, come correva la usanza, si posero a guardare con molta diligenza il proprio campione per conoscere se fosse di tutto punto armato, se alcun pezzo di maglia fosse male affibbiato, se alcuna piastra debole; poi il padrino di Anselmo andò al Cavaliere innominato, e verificò di propria mano se sotto i cordoni di seta, che allacciavano il bacinetto alla gorgiera, fosse rame, ferro, od altro metallo; lo stesso praticò il Conte Angalone con Anselmo, e trovarono tutto senza frode. Ciò fatto, i combattenti mutarono tra loro le spade, perchè la consuetudine voleva che l'uno combattesse con la spada dell'altro; e queste pure vennero provate dai padrini per escludere il sospetto, che fossero fabbricate con ingannevole magistero, o con falsa materia; la lunghezza non misurarono, perchè giusto per essere quella di Anselmo più corta e quella di Rogiero più lunga, si compensava così il vantaggio di statura, che l'ultimo aveva sul primo.
In quei tempi non facevano altre ricerche: in appresso, variati i costumi, pervertiti gli animi, e prevalso l'uso che il provocato portasse arme offensive e difensive per sè e pel provocatore, fu di bisogno consumare gran parte del giorno in questa prova, perchè tra l'armatura mescolarono alcuni pezzi inchiodati con chiodi di stagno, elmi bruniti dentro per modo che togliessero il vedere, o fatti con arte tale che non si potesse guardare se non in cielo, guanti che forte stringendo cacciavano fuori punte che ferivano le mani che li portavano, usberghi avvelenati, che escoriata la pelle il mortifero veleno trasfondevano nel sangue; che più? perfino panzeroni e schinieri fatti di cartone, e acconciamente coperti di foglie di argento; onde quelle buone anime di scrittori che composero libri intorno questa materia, ebbero ad esclamare sovente: o tempora! o mores!
I padrini posero dopo questo i capi di una cordicella, forse lunga tre braccia, in mano ai combattenti, e rimontati in sella specularono il campo se avesse alcuna fossa o rialzo che impedisse l'indietreggiare dei Cavalieri; dipoi tornarono appresso loro, e fecero cenno al Contestabile essere tutto preparato.
Il Contestabile mandò lo araldo, che con la spada della giustizia divise la corda, e i Cavalieri principiarono l'assalto. Racconteremo noi le vicende di cotesto duello? ripeteremo noi quello che da qualsivoglia straniero od italiano poema viene troppo sovente descritto? Noi nol faremo, sì perchè ogni uomo che ne abbia vaghezza ne troverà un mirabile esempio nella Gerusalemme liberata, e un altro mirabilissimo nei Lombardi di Tommaso Grossi, gloria vivente d'Italia, a nessuno secondo, e, dove il desideri, agevolmente primo; - sì perchè comunissimi furono i casi del nostro. Troppo soverchiava Rogiero di forza e di destrezza Anselmo; tuttavolta questi fidente di aiuto andava a gran fatica schermendosi, e mostrava chiaro che non poteva durare: adesso, trapassato alquanto di tempo, nè vedendo, giusta il convegno, muovere alcuno a soccorrerlo, suppose che Rinaldo, caduto nella solita astrazione, se ne fosse dimenticato; però volse il capo a quella parte onde egli rinvenisse, od alcuno dei congiurati lo facesse avvertito: - inutile tentativo: nessuno dei molti quivi raccolti fece pur cenno di levare una mano. Rogiero conobbe essergli capitato il destro di spingersi innanzi, menare un bel colpo, e fornire la bisogna; nondimeno, come avviene, sentendosi più forte del suo avversario, volle che prima dei dolori della morte gustasse i dolori non meno terribili dello spavento. Così seguitò anche un poco il duello: Rogiero era intatto: Anselmo, in parte disarmato, aveva in due o tre luoghi falsato l'usbergo, ammaccato il bacinetto, ma non gettava anche sangue: bene lo facevano spasimare l'aspre percosse; la qual cosa unita allo stupore di non essere aiutato, ed alla paura di esserlo, ma non in tempo, tanto gli scompigliò la mente, che fuori di sè, perduto il lume degli occhi, sconfortato dal rumore che annunziava la sua sconfitta, cominciò a lasciare il terreno; ad ogni passo volgeva disperato la testa verso il Caserta che se ne stava immobile, e tante volte offriva occasione al nemico di finirlo a un tratto: di vero infastidito Rogiero di quel gioco, aspetta il tempo, mena un gagliardo manrovescio, coglie Anselmo nei cordoni di seta che la gorgiera allacciavano al bacinetto, e ad un punto gli getta queste armi per terra, e lo ferisce alla gola. Anselmo stramazza tramortito; se a levarlo di sentimento contribuisse il terrore o il dolore, noi non sappiamo; certo molto tremendi furono ambidue;, mostrava il volto giallo come itterico, la fronte livida dai colpi, i labbri congelati in un brivido; sgorgava dalla ferita impetuosamente il sangue, fluido e vermiglio, segno certo di arteria recisa; - era la piaga insanabile. Gli spettatori levarono un grido, e rotte le file dei soldati si precipitarono a gran corso verso il caduto. Rogiero, guardatosi attorno, vide che sopra tutti gli altri si affaticavano a farglisi vicino i Baroni congiurati, e temè di perfidia; accostatosi al suo padrino, proferì queste parole: "Ora salvatemi, valente Cavaliere, o che son morto."
"E che cosa vi fa tanto temere della fede siciliana?" - domandò arrossendo Giordano d'Angalone.
"La fede è già rotta: perchè sforzare le file? Io vi dico che mi trucideranno, e voi sarete debitore della mia vita in faccia degli uomini e del cielo."
"Tolga Dio tanta infamia! balzate in groppa, che il mio Sauro mi ha salvato da ben altri pericoli che non è questo."
Rogiero, senza por tempo tra mezzo, di un lancio maraviglioso, tutto armato com'era, inforcò il cavallo; Giordano d'Angalone concitandolo con la voce e con gli sproni, lo spinse di piena foga là dove vide meno gente. A quella tempesta, a quel furioso rovinio, non vi fu uomo che comparisse zoppo: taluno gittandosi da questo lato, tal altro da quello, e molti cadendo, e per la caduta loro, frapponendosi ai passi, molti altri forzando a traboccare, si sbarattarono, lasciando libero il campo, pel quale precipitandosi l'animoso destriere, ben tosto ebbe condotto quelli che lo cavalcavano fuori di ogni pericolo.
Quando apparve vicina la porta di Benevento, in quei tempi conosciuta col nome del Calore, Rogiero, che per la prestezza con la quale andava il destriero non aveva potuto formare parola, lasciò cadersi da cavallo, ed offerta la mano al Conte Giordano gli tenne il seguente discorso: "Conte, vi ho per salutato; io so pur troppo che le imprese gentili non hanno bisogno di altro guiderdone, e sono premio a sè stesse; tuttavolta sappiate che vi devo la vita, e che mi torna dolce manifestarvi...."
"Che è ciò che dite, signor mio?" interruppe Giordano; "forse non volete ch'io vi conduca al Re?"
"I tempi stringono, o Conte, e molto mi rimane da fare; io non posso...."
"Salvo vostro onore, che lealtà è questa vostra verso Manfredi? Conoscete i traditori, nè li volete svelare?"
"Non posso. Quello che mi era concesso mostrargli gli ho mostrato: il mio silenzio procede da una serie di tali avvenimenti, che io, io stesso, il quale sento tutta la gravezza della loro atroce realtà, appena li tengo per credibili; di questo vi prego, che gli diciate, avere spento il più ribaldo dei suoi traditori; pure restarne molti altri, che si guardi e diffidi di cui più si confida, ch'è minacciato di estremo esterminio...."
"La salute del mio Re dunque richiede ch'io non vi lasci andare...."
"No, Cavaliere; voi mi fareste villania, nè giovereste al Re; lasciatemi libero, chè ogni passo, ogni pensiero miei, sono per la preservazione della Casa di Manfredi."
"Noi perdiamo un valente compagno, il Re un leale vassallo...."
"Nè egli, nè voi mi perdete: io vado ad apprestargli quattrocento uomini d'arme, e un condottiero famoso."
"E dove li condurrete voi?"
"Ditegli a San Germano; colà ci rivedremo, Conte; forse mi riconoscerete allora, e passato il pericolo sarà bello e piacevole per me raccontarvi le durate fatiche, i sofferti travagli. Addio, Conte; salute a Manfredi."
Ciò detto con presti passi si allontanò. Il Conte Giordano tutto dolente s'incamminava a portare queste novelle a Manfredi.
Per altra parte Rinaldo ordinava si fasciasse il ferito Anselmo, si adagiasse dentro la bara, e lo conducessero al proprio palazzo; per via comandò al Capitano della gente d'arme, che quando vi fosse entrata la bara, impedisse a qualunque altro l'ingresso: sì come di fatti egli fece. Il vecchio congiurato vedendo non potere entrare, nè essendo fino ad ora riuscito a parlare con Rinaldo, tanto spinse che gli si accostò, e presolo pel lembo della cappa lo costrinse a voltarsi.
"Che volete?" - interrogava severo il Conte.
"Conte, rammentatevi che secondo le regole non dovrebbe vivere..."
"A questo penso io; così voi aveste pensato al vostro incarico!"
Il vecchio stava per rispondergli; ma Rinaldo gli volse le spalle, e si cacciò dietro la bara di già entrata in palazzo.
Rinaldo solo accanto al letto dove giace il ferito gli conta i momenti di vita, e vedendo come ella di punto in punto si consuma, resta di affrettarne la estinzione: a un tratto però, mentre il giacente raccoglie con lungo anelito nel polmone maggiore quantità di aria, che egli crede per l'ultimo sospiro, dato un gemito profondo, rinviene.
"Anselmo, amico mio, come vi sentite voi?"
Anselmo, aperti gli occhi, conosce il Caserta, e mormora tra sè: - "Ora sono perduto davvero."
"Io sono Rinaldo, Anselmo.... perchè vi dite perduto?"
"Satana sta al capezzale... aspetta l'anima al varco... egli ha ragione... è cosa sua... io ho ben veduto che voi siete il Caserta..."
"O amico mio, Dio sa se forte m'incresce del vostro male..."
"Che parlate voi? ma che devo morire? sono io così presso alla morte...?"
"Siete."
"Oh! allora, in carità, mandate per un confessore, che venga presto."
"Un confessore! E che volete voi fare del confessore?"
"Chi mal vive, mal finisce... pure una speranza in Dio...."
"Novelle!"
"No... io vi dico di no... mi si risvegliano in mente i precetti di religione che io appresi da bambino, e mi confortano a non disperare: oh! come bella ci apparisce la fede nell'ora della morte! il poco bene che ho fatto mi lusinga del Paradiso..."
"Il vostro senno vien manco, Anselmo; io comprendo che voi tornate sul bambino: che discorrete di Paradiso? dov'è l'animo indomato, la minaccia di Dio, la bestemmia del vostro Creatore?"
"Io l'ho detto, Satana sta al capezzale. Voi venite per perdermi... andate via, vi comando, vi prego... in nome di Dio, andate via... no, accostatevi, che forse potrò vincere anche voi... Rinaldo, muoviti; egli è un grande arcano la morte! potessi dirti la millesima parte di quello che sento, di quello che vedo.... alza gli occhi, non contempli la gloria del cielo?"
"Io non vedo che il soffitto."
"Pure v'è luce più viva del sole, pure v'è melodia malinconica; v'è Cristo... Cristo co' fulmini che gli corruscano nella mano terribile... Un confessore, Rinaldo, un confessore..."
"Che diavolo volete voi farvi del confessore a questa ora? animo via, che pensate esser la morte? ella è una bevanda amara; chiudete gli occhi, trangugiatela senza sbigottirvi, passata la gola, non si sente più altro."
"Oh! io voglio confessare le mie colpe."
"Ma pensate che non potete accusare le vostre colpe senza perdere i vostri compagni, e me stesso..."
"O dunque volete che pel corpo vostro perda l'anima mia?"
"E voi volete che per l'anima vostra perda il mio corpo?"
"Questo è affanno! questa è barbarie! Io griderò tanto, che alcuno mi sentirà...."
- Tu non griderai, - pensò il cervello del Caserta, e fu quella sentenza di morte: poi, levatosi in piede, si pose la destra sotto il farsetto, e si accostò al giacente: "Or via, tacete, amico," gli disse "da che questo è il desiderio vostro, io vi contenterò...."
"Sì? gran mercè.... Dio ve ne rimeriti in questo stesso punto.... andate...."
"Vado, solo vi prego che non isveliate i nomi...."
"Ve lo prometto."
"State di buon animo."
"Sto.... ma andate."
"Vado. - E qui che sentite?" - domandò il Caserta, premendolo con la manca presso la ferita.
"Dolore!"
"E qui?" scorrendo con le dita, e toccandogli la clavicola sinistra.
"Dolore!"
"E qui?"
Il Conte Rinaldo, sottentrando velocemente con la destra alla manca, aveva piantato fino al manico un pugnale nel cuore allo infelice Anselmo; e súbito ritirandosi per non essere bruttato dal sangue, stette con istupida curiosità a contemplare le scosse che faceva il coltello secondo che riceveva gli impulsi dal viscere lacerato: quando si fu del tutto estinto quel moto, e la vita con esso, lo estrasse, prendendolo pel bottone con l'indice e il pollice, e si pose a nettarlo, fregandolo traverso il ventre del morto. - "Povero Anselmo!" frattanto andava dicendo "ve' un poco come hai finito. Ma! se lo dice il proverbio! finchè abbiamo denti in bocca, non sappiam quel che ci tocca; la tua lunga servitù, l'antica amicizia nostra, non meritavano questo, no certo; nè io ti portava rancore, odio nemmeno: ecco, ti ho incontrato su la mia via, ed io ti ho distrutto. Male accorto! e non sapevi che il mio alito consuma, il guardo abbrucia, il tatto disperde? perchè mi ti sei cacciato tra i piedi? Io ti ho morto... uno di noi doveva morire; tu hai perduto la prova, - colpa tua; se l'avessi perduta io, - colpa mia:" (e qui guardava la lama s'era divenuta netta; comparendovi pur sempre qualche striscia di sangue, continuò a fregarla sul ventre del trafitto;) "tanto hai detto, che le tue dottrine mi sono scese nel cuore; secondo quello che tu sentenziavi, io doveva abbandonarti avanti, chè corre assai tempo che non mi porti utile al mondo; pure ho aspettato che tu mi diventassi pericoloso, allora... non puoi dolerti... ell'è cosa tua... forse ho imparato più di quello che volevi; ma ti consoli la gloria di aver fatto un ottimo discepolo: io per me vado convinto che quando la tua anima sarà assicurata dal sofferto terrore, non potrà condannarmi, - forse sarà la prima a lodarmi: ora tu hai cessato di travagliarti, tu mi devi la quiete e il riposo; tu sei andato dove il prigione non ode la voce del carceriere, dove il servo non obbedisce al signore; quivi abita il grande e il piccolo91 - nella comunione della polvere, chi condanna, e chi è condannato...."
Allo improvviso con fracasso spaventoso parte della invetriata di quella camera violentemente percossa cadde giù sul pavimento; un corpo trasvolando velocissimo sollevò, col vento che suscitava, i capelli del Caserta, e andò a quietarsi dentro il soffitto.
"Vendetta di Dio!" - proruppe in un urlo salvatico il Conte Rinaldo, e incrociate le mani sul petto, agitato da tremore convulso, abbassò il capo al solaio: così stette assai tempo; poi, diminuita la paura, aprì gli occhi e gli sollevò peritosi: un grosso verrettone compariva conficcato al soffitto; guardò meglio, e vide una carta pendente dalla sua penna; ascese sopra uno sgabello, stese la mano e la tolse; lo scritto diceva così: - "Conte di Caserta, pensa come l'eterna provvidenza punisca; tu hai l'esempio sotto occhio; muta consiglio, e ti sia pena avere fino ad ora male operato; altramente un mio detto può farti morire della morte dei traditori."
"Minacciano!" mormorò Rinaldo, e, stretto di nuovo il pugnale si guardò attorno con ciglia severe; "ma qui non vedo alcuno," aggiunse guardando il cadavere "nè mi vi rimane a fare più nulla." - Poi avviluppò il morto nelle coltri e si allontanava co' passi del peccato. Giunto al capo della scala gli si parò dinanzi il Re, che scortato da molti cortigiani veniva a visitare il ferito, onde súbito facendoseli incontro gli disse: "Messere lo Re, avete fatto il viaggio invano."
"Perchè questo, Conte Rinaldo? come sta il ferito?
"È spirato."
"Spirato! Era la piaga così mortale che non gli abbia lasciato un'ora di vita?"
"O signor mio, ell'era spaventosa, gli ha tagliato più che mezza la gola; - le ultime sue parole sono state ch'io vi chiedessi perdono per lui..."
"Dunque egli mi tradiva?"
"E' pare"
"Buon per lui, che mi ha risparmiato il cordoglio di mandarlo alla forca..."
"Salvo vostro onore, Messer lo Re," interruppe il cortigiano che aveva consigliato il duello con la religione "dovevate dire al taglio della testa, perchè a norma delle costituzioni del Regno, tale è il privilegio dei nobili."
Manfredi sorrise; e il Caserta pensò: - ti ho risparmiato il cordoglio di uccidere Anselmo, ma ti ho tolto il piacere di uccidere me e i miei compagni -, - questa tua gioia mi piace. -
Il Re, conoscendo la sua venuta vana se ne tornò palazzo dove tra le altre cose ordinava al Caserta ai seppellire segretamente il cadavere del Conte della Cerra.
Nel più buio della notte, due vassalli portando una bara e una torcia di resina, che rischiara il sentiero di luce vermiglia, si accostano alla porta di Benevento, chiamano la guardia che sonnacchiosa si leva, ode una parola, e brontolando abbassa il ponte, e lascia passare. Giunti alla valle, danno di mano alle zappe, e cominciano a scavare; goccia dalle fronti loro il sudore, ma il terreno è sassoso, e fanno poco frutto: uno di loro cominciando il discorso con fiera bestemmia dice all'altro, non meritare tanto travaglio quel ribaldo del Conte della Cerra, essere il meglio lasciarlo sul campo, chè i lupi avrebbero loro risparmiato la fatica: - questi risponde: da che egli si era aperto, gli avrebbe molto miglior modo insegnato: prendesse il morto per le braccia; - egli lo afferrò alle gambe, e così lo portarono ad un pozzo poco quinci discosto, gli legarono al collo un sasso di enorme gravezza. e lo precipitarono dentro; miserabile, non indegna fine di tanto scellerato! - si dolse la Pietà dell'atroce sepolcro, non già la Giustizia. Le acque contaminate svelarono l'opera nefanda; e la gente del contado, non tanto per misericordia, quanto per abbisognare del pozzo ad abbeverare il bestiame, estrassero quelli avanzi di membra putrefatte, e con meno disonesta sepoltura li sotterrarono accanto al pozzo.
Rosalia, figlia naturale del Conte Anselmo, caduta per la morte del padre nella più orribile miseria, cacciata da tutti, quasi fosse appestata od idrofoba, spesso fu vista sul far della sera aggirarsi intorno quel pozzo, e affacciarsi all'orlo, e sporgervi dentro le braccia: lamentava la misera, da che nessuno altro retaggio le aveva lasciato, se non che l'avvilimento e la infamia, la soccorresse almeno con la morte, le partecipasse la impassibilità e la immobilità sue; disprezzarla ogni anima vivente. abbeverarsi il suo cuore di obbrobrio, contaminarsi il suo sangue nel vilipendio, non poter durare agli insulti feroci; soccorresse la tapina che niun'altra colpa aveva oltre quella di esser nata da lui; sentissero le sue ossa pietà, riparasse il fallo, le facesse un po' di luogo entro la fossa.... - Queste cose parlava la sconsolata, ed altre molte aggiungeva, che l'intelletto di soverchio commosso non mi concede riferire. Giunta la nuova alle orecchie di Yole, questa gentile opero sì col padre, che la povera fanciulla venne tolta da quella vita raminga, e messa nel monastero di Santa Maria della Pace; quivi conobbe a prova non darsi travaglio che la religione non blandisca, non pena che non volga in gioia. Aggiunge la Cronaca, che dopo la conquista di Carlo, essendo le opere di suo padre diventate presso il nuovo signore titoli di onoranza, sì come furono presso lo antico d'infamia, ricercata dalla Contessa Beatrice di andare a Corte, ricusasse, e come abborrente dalle umane cose prendesse il velo, e si consacrasse al servigio di Dio, nel quale tante pietose opere fece, e tante devote parole favellò, che dopo molti anni morisse in odore di santità. Vero è poi che quanto racconta qui la mia Cronaca non trovo confermato dalla Curia romana, che non ha mai ventilato causa per chiarire Rosalia della Cerra venerabile, beata, e santa, che sono le tre fermate per conseguire la Dulia, ovvero culto che si rende ai Santi del Signore.