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Francesco Domenico Guerrazzi La battaglia di Benevento : storia del secolo 13. IntraText CT - Lettura del testo |
Ma egli ha più paura della vergognosa vita, che
della bella morte, e si mette tutto nella misericordia
del Signore, e alza la mano destra, e
si segna, e poi piglia la spada, e volta il cavallo......
Impari la morte il Re che fu vinto. Il giorno destinato per termine della gloria, quel giorno medesimo, chiuda le palpebre della sua vita mortale. Dal campo dove lo prostra la forza si guardi attorno, - qual lusinga lo affida? Non v'è braccio che si levi per lui: - il pianto dei desolati, che si smarrisce nell'urlo della vittoria, adesso solo, insistente, gli si addensa su l'anima. Se tra lo avvilimento di essere tratto in trionfo dietro il carro del vincitore, e la morte, ha scelto lo avvilimento, meno che rettili furono coloro che lo sopportarono, e la corona cadde su la sua testa come l'embrice su quella di Pirro. Non si sgomenta allo insulto dei codardi che accorrono quasi a festa per riparare all'ombra della grande caduta? - Non lo tormentano gli scherni dei traditori? - Al confine della sua meditazione non vede una vendetta di sangue, una giustizia sul taglio della spada nemica? - Il vincitore teme Dio, - non lo ucciderà: conviene all'uomo dal quale pendevano milioni dei suoi simili gustare l'amarezza di anelare dubbioso per lo suo stesso destino? - L'ora di passione è trascorsa; - mezza eternità non varrebbe a compensarla!.... egli vivrà; - ecco la vita: - fisso sopra un diadema, che non ornerà più le sue tempie, nè quelle dei suoi figli, struggersi al suo fulgore a mano a mano che si accosta al tramonto della speranza, sì come il fiore, che fu ninfa, alla vicenda quotidiana dell'astro che ha cessato di amarla103: - avventarsi contro i ferri della carcere, e morderli, e insanguinarli, e stramazzare rifinito di forza nella disperazione della impotenza; - i suoi pensieri sono l'avvoltoio che gli divora le viscere; - teme ogni cibo; - non beve liquore se prima non lo abbia speculato traverso la luce; - non avventura un passo, se non tenta il luogo dove gli è forza posare il piede; - lo spaventa la propria ombra.... E i figli? - non può vederli, nè vuole. - A che ammaestrarli? A maledire? - Più della sua voce li farà germogliare nell'odio il cigolío delle catene. - Mostrerà loro la sua miseria? - Non basta quella che sopportano? - Ascolterà rinfacciarsi la vita, - la truce rampogna di averli generati? - Egli non vuol vedere nè udire anima viva; feroce gli è diventata la mente, l'intelletto salvatico: - nessuno gli parla, e pure tende l'orecchio a voci sconosciute, e risponde. Sovente una rimembranza di vittoria gl'infiamma lo sguardo: allo improvviso lo abbassa, e mira un oggetto tanto miserabile, che la stessa pietà non ha lagrime per compiangerlo: gli si chiude lo sguardo, e il cuore con quello, così stretto, che non lascia sfuggire un sospiro. - Sempre esalta la vittoria, quantunque talvolta la disfatta non avvilisca; ma l'anima di bronzo che può sopravviverle ha pagato pena maggiore del premio della corona.
Io non impreco nessuno, e se una cenere si commuovesse entro la sua cella di morte, e mandasse un singulto.... oh! io non ho voluto aggravare la mano sul Grande che dorme. - Stanno oltre il sepolcro nel giudizio di Dio il premio e la pena, nè la polvere ardisce usurpare l'attributo dell'Onnipotente. - Quali occhi però seguiranno il Fatale fino alla tomba senza versare lagrime di sangue? - Circondato di fastidii che avvelenano la esistenza e non danno il conforto delle grandi sventure, - di gemere senza vergogna, - trafitto di minutissime piaghe dalle quali a goccia a goccia distilla la vita, - costretto a limosinare il pane presso coloro che pel battesimo di fuoco erano della sua religione....104 che il cielo sia pio di riposo alla cenere del guerriero! dovea egli, - lo immenso, che aveva riguardato l'universo da tale una altezza, che appena a mente umana è concesso immaginare, - lasciarsi cadere sì basso? A lui stava morire per la spada dei valorosi, o per la perfidia della paura. - Non si aspettava a questo105? E che? colui che indagava schernendo i vizii degli uomini, e li toglieva a fondamento della propria potenza, doveva affidarsi alla virtù? Nell'Isola, dove, nuovo Prometeo, lo incatenava un odio profondo, ogni giorno lo infiammato pianeta gl'insegnava come doveva morire l'uomo, che non aveva conosciuto pari sopra la terra, però che quivi il sole, non come nei nostri climi, sia accompagnato dal mesto crepuscolo, ma comparisca improvviso nella pienezza dei raggi sul firmamento, ed improvviso lo abbandoni allo impero dell'ombre106. - Chi sa quante volte lo austero contemplando l'esempio solenne piegò vinto la faccia, e mormorò parole di dolore su la perduta occasione! - Oh! se, cadendo, in lui non fosse scomparso l'eroe! Oh! s'egli stesso non avesse svelato il segreto che il suo cuore era composto di creta come negli altri figliuoli di Adamo! Se la curva della sua vita non impallidisse al tramonto, e sfolgorante di luce si perdesse nel silenzio dei secoli, - qual nato di donna potremmo noi assomigliargli? - La Sapienza che governa il creato forse volle mostrare con la vicenda solenne gli estremi dove può suscitare e deprimere un'anima immortale? Se così è, mi spavento, perchè l'ultima azione di Colui, che poteva numerare con le vittorie i suoi anni, la gente maravigliata non distingue ancora se deve attribuirla a costanza, o a viltà107.
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Bello è il riposo della vittoria, più bello il mattino salutato dal cupido pensiero dell'acquisto. Il destinato Carlo appena vede diradarsi le tenebre, chiamati gli scudieri, si fa allacciare la più grave armatura; mille volte li rimprovera della lentezza loro, ed egli con la sua impazienza dà cagione alla dimora; alla fine esce armato; lo antiguardo lo aspettava su la piazza in punto di mettersi in cammino; accolto con iterati applausi, risponde modesto: "Non abbiamo anche vinto."
Gli ordini sono trasmessi, il muoversi cominciato: Carlo perseguita il suo emulo con la cupidigia del falco pellegrino, che ben egli sapeva, spesso la fortuna cangiarsi per un'ora d'accidia, - e i suoi invincibili su quei primi bollori; - non prese la strada di Capua, come troppo lunga; se ne andò a Venafro, dove, conoscendo che i fatti incomportabili commessi a San Germano gli alienavano i Napolitani, ed anche con istanti rimostranze ammonito dal Legato apostolico, volle riparare al fallo: accolse pertanto con lieta fronte i Sindaci della città, e li rimandò con parole amorevoli; - andassero, - impose loro, - e dicessero ai cittadini, lui essere venuto per ristorare la religione, e per vendicarli: - poi si condusse a visitare le ossa di Santo Nicandro martire, dalle quali ogni anno scaturisce un chiarissimo liquore chiamato manna; - veramente quando egli le visitò, il tempo del miracolo era scorso; nondimeno, tanto seppe il Conte di Provenza pregare il Legato Pignattelli, e il Pignattelli i Monaci, e i Monaci il Santo, ch'ei fu contento per quella volta di rinnuovarlo fuori di stagione. Non è da dirsi se la gente ne levasse rumore: rammentava, Manfredi mai aver visitato quelle sante ossa, mai per lui avere rinnuovato il prodigio; essere Carlo vero Cristiano, verace campione della Chiesa, - Manfredi eretico, non volere più oltre sopportare il dominio di un reprobo, di uno scomunicato. Lo Arcivescovo di Cosenza levava l'interdetto, e profondeva a piena mano i tesori delle indulgenze; le campane suonavano a gloria; i preti chiamavano il nuovo signore - braccio di Giuda; - i cittadini, - invitto e cortese; - pochi più prudenti tacevano, e aspettavano. - Il breve soggiorno che fece a Venafro sanò la sinistra impressione derivata da San Germano, assicurò i dubbiosi, confermò i parteggianti: abbandonava questa città accompagnato dai voti della gente, e costeggiava il fiume Volturno verso la foce per valicarlo con maggiore sicurezza, perchè sebbene egli s'ingrossi quanto meglio va accostandosi al mare, nondimeno scorre sempre meno rapido che sopra Venafro, a cagione che quivi sboccano quasi istantanei i fiumi Cavaliere, e della Lorda. Tentato il luogo più agevole a guadarsi, già erano passate alcune compagnie, quando Carlo osservò per la campagna una brigata, che faceva sembianza di piegare alla sua volta; soprastette dubbioso di ciò che fosse per recare; allorchè fu vicina, dalle vesti e dalle insegne conobbe essere ambasciatori: venivano deputati a rendere omaggio al Signore da Rocca d'Arce, Rocca d'Evandro, Rocca Guglielma, Rocca Monfina. Castel Forte, e da molte altre terre, parte spontanei, parte istigati dal Conte Rinaldo. Furono i ben venuti: Carlo li confortò a rimanersi fedeli; aggiunse non volere introdurre presidii entro le rôcche per non mostrare di aver sospetta la fede loro; - in sostanza, perchè non voleva diminuire l'esercito, e divisava di assaltare grosso il nemico, conoscendo che nella condizione in cui si erano ridotti gli eventi, la somma delle cose pendeva dallo esito di una battaglia; - poi gli accomiatò pieni, egli di carezze, e il Legato d'indulgenze. Traghettato il Volturno, si cacciava a gran corso per la via che s'inoltra alle falde dei monti del Matese, tanto che al declinare del giorno giunse ad Alife. Anche questa città gli schiuse le porte; e se meno era severo, lo portavano i cittadini per le vie quasi in trionfo: Carlo represse il moto, ed essi si contentarono di urlare tanto alto, da soffocare la voce della coscienza che li chiamava traditori. Se però v'è ragione che scusi il tradimento, gli Alifesi l'avevano. Essi serbavano in mente l'ingiuria di Federigo II, che per mezzo del Conte di Celano distrusse col ferro e col fuoco quella loro patria infelice: ben lo supplicavano i mal condotti di perdono, lo Imperatore fu inesorabile; egli morendo lasciò agli Alifesi un legato di vendetta, ed essi lo fecero pagare al suo figliuolo: certo, turpe il misfatto, turpissima la vendetta; ma dalla colpa nasce la colpa, e la infamia si perpetua nel mondo. - Talese non resse meglio di Alite: un'antica memoria raccontava che i ruderi di una città, che si vedevano circa un miglio distanti da questa terra, fossero un'altra Talese, rovinata dai Saraceni; e però i Talesi gli odiavano, e per cagione loro anche Manfredi avrebbero desiderato morto; tuttavolta, al primo apparire dei soldati di Carlo chiusero le porte, e mostrarono far testa. Si apparecchiavano i Provenzali all'assalto, quando l'Arcivescovo di Cosenza, parato degli abiti pontificali, si condusse sotto le mura, ed intimò i cittadini ad aprire; se resistessero, mal per loro; aspettassero, e tra breve, condegno castigo in questa vita, e nell'altra. Talese venne in potere di Carlo al modo stesso che Gerico in mano dei Giudei, se non che in Talese non caddero le mura. Carlo non prese altra vendetta di quell'ombra di resistenza che di poco onorarla del suo aspetto; andò oltre, e diresse il suo cammino a Santa Agata dei Goti: non già ch'ei sperasse averla come l'ebbe, ma perchè, se la battaglia doveva definirsi nella pianura di Benevento, bisognava che se ne assicurasse, come quella che troppo da presso minacciava alle spalle. Il destino gli concedeva più del desiderio; e sì che di propria natura il desiderio suole essere intemperante. Lontano due miglia da Santa Agata occorse in una solenne ambasceria, che gli consegnava le chiavi della terra, e con umili preghiere gliela raccomandava. Rispose, l'avrebbe come figliuola. Tanto inaspettata prosperità commoveva così il cuore di Carlo, comecchè di salda tempera, che a mala pena facesse distinguergli quali parole adoprasse: entrò giubbilante in Santa Agata, e fu visto, mentre passava la porta, curvarsi dall'arcione, e baciarne lo stipite. Romani e Francesi, in quel più tosto viaggio che conquisto dicevano apparire chiara la mano della Provvidenza; Carlo stesso cominciava a persuadersene: quell'essere destinato pare a tutti un bel che, e seduce le menti più forti. Senza prendere riposo, armato come era, si condusse alla Chiesa che serba le sacre reliquie di Santo Menna il Solitario, e rese grazie all'Altissimo; nell'uscire del tempio incontrò un capitano che aveva lasciato alla porta, il quale gli si accostò affannoso, come chi si è travagliato nel correre, e gli disse: "Messer lo re, gente con l'insegna bianca è venuta alla porta; dovrò introdurla dentro io? Ella demanda parlarvi."
"Sì, introducetela tosto, sire La-Croix; non aspetti l'amico alla porta dell'amico; ci troverete al palazzo dei Sindaci."
Carlo per questa volta s'ingannava; non erano amici coloro ch'egli accolse nella sala del palazzo della città con maniere semplici e dimesse, affinchè prendessero buona opinione di lui; per questa volta seminò su la sabbia; non ne rimasero punto edificati; anzi un Cavaliere, che pareva il principale dell'ambasciata, con soldatesca ruvidezza gli domandò: "Siete voi Carlo Conte di Provenza?"
L'alterezza del Conte rimase trafitta da così aspra interrogazione, onde, riassumendo quel superbo contegno che gli era naturale, rispose: "Siamo."
Il Cavaliere senza inchinarsi soggiunse: "Or via, sire Conte, la Serenità di Manfredi I, Re di Sicilia, mio signore, mi manda a voi ambasciatore, affinchè, se vi piace, consentiate una tregua di un mese a patti, e..."
"Quale è il vostro nome, bel Cavaliere?" interruppe Carlo.
"Giordano dei Marchesi di Lancia."
"Ebbene, bel Marchese di Lancia, tornate presto, e riferite al Soldano di Lucera, che noi non vogliamo con lui nè tregua nè pace, e che noi tra poche ore metteremo lui nell'Inferno, od egli metterà noi in Paradiso."
Così favellava Carlo, insolente per arte e per natura, Un Cavaliere del séguito di Giordano, il quale teneva lo scudo traverso del petto a bello studio, affinchè meglio si vedesse, e su lo scudo mostrava il fulmine, che, cadente dalle nuvole, abbatteva una torre, col motto da man celuta scende; il nostro Ghino insomma, il quale si era fatto aggiungere all'ambasciata, e per disprezzo, od anche per iattanza (imperciocchè questa sia il pelo vano della bravura, come il timore della prudenza), portava quella insegna, onde i Cavalieri francesi riconoscessero in lui il vincitore del torneamento di Roma, mal comportando il superbo parlare esclamava: "Sire Conte, da quel valente uomo che siete, accettate la tregua, che in verità io vi giuro sarà per voi tanta vita trovata."
"Che cosa favella quel membruto, che, se mal non vediamo, ci pare il vincitore del torneo di Roma?" domandò Carlo ad alcuni suoi Baroni.
"Egli brava!"
"O sire Conte," aggiunge Ghino "da quel valente uomo che siete, accettate la tregua, perchè non sempre troverete traditori che vi lascino il passo, non sempre i Saraceni che abbandonino il posto, nè Benevento,..."
"Bel Cavaliere," favellò Carlo facendosi presso a Ghino "tu dunque ci prometti una battaglia prima di entrare in Benevento?"
"Cavaliere di ventura, pensi ch'io mi sia aggiunto ai tuoi nemici per vederti trionfare?"
"Nè più gradita, nè più cortese ambasciata potevi farci di questa; abbine in guiderdone questo nostro stocco...."
"Mi basta il mio per ucciderti, Conte; - me lo trasmise mio padre, come a lui lo aveva trasmesso il mio avo: noi Italiani non abbiamo costume di tenere molte spade, perchè non siamo usi a renderle."
Carlo strinse le ciglia, e interruppe: "Or sia come desideri, bel Cavaliere; solo ti ricerchiamo di un dono, ed è, che tu voglia portare a Manfredi lo Svevo il nostro guanto in segno di sfida per la battaglia di domani, e dirgli da nostra parte che cessi una volta di fuggirne dinanzi: certo, eroe non lo credevamo noi, ma almeno uomo. Quando ci partimmo di Francia conducemmo in nostra compagnia gente di arme, stimando venire al conquisto di Napoli; se potevamo supporre quello che è avvenuto, avremmo condotto damigelli, Trovatori, ed assediato le città con le Corti di amore: che si direbbe in Corte del Re Luigi, se il Conte di Angiò senza un affronto premesse il soglio dei Reali di Napoli? Sono così fatti i discendenti di Federigo? Oh! di grazia, riporta al tuo signore che non c'invidii la fama di una vittoria, che non privi sè stesso di una bella gloria, perchè la più onorata azione della sua vita sarà di morire per le mani di un figlio di Francia."
Voleva rispondergli Ghino, ma il Conte gli volse le spalle, e si condusse in altra stanza: guardò il guanto che gli era rimasto, vide che appena gli avrebbe coperta la metà della mano, e sorrise; poi tendendo il braccio verso la porta dalla quale era scomparso il Conte, esclamava: "Io terrò per me questo guanto, e ti giuro, Conte. che quando abbiano i tuoi la vittoria, lo che tolga il Barone Messere Santo Ambrogio, tu non godrai del frutto, se il braccio mio, e de' miei compagni, non viene meno alla impresa."
Si avvicinano i tempi fatali. - Manfredi, alla dimane convocato il consiglio dei suoi, così favellava al Conte Giordano d'Angalone: "Or via, vedete, Giordano, se vero è stato il nostro presagio? Non ve lo dicevamo noi, che da questa tregua non avremmo ricavato altro che la infamia di averla proposta?"
"Messere lo Re, tristo è chi perde; voi per vincere dovevate fare questo; il nemico non si lasciò andare all'amo; provvedasi ch'ei vi sia costretto."
"Le medesime cagioni che dovevano rovinare la impresa di Carlo a San Germano la rovineranno a Benevento; prendiamo la lepre col carro; non vi dolga indugiare; soprastando si consuma il nemico; Vostra Serenità s'ingrossa della gente che Corrado di Antiochia tiene in Abruzzo, di quella che i Conti Federigo, di Ventimiglia, e i Capece, ragunano in Calabria e in Sicilia, ed offre eziandio spazio di tempo necessario ai Baroni per condurre le taglie."
"Conte d'Angalone," interruppe Manfredi "oggimai le cose non sono più intere come a San Germano; adesso sarebbe danno quello che allora appariva lodevole; l'onore nostro chiede l'ammenda."
"Salva vostra grazia, Messer lo Re, voi sapete meglio che altrui gli affari del Regno non governarsi con le canzoni dei Trovatori, e l'onorato esser chi vince...."
"E che dunque?" interveniva terzo Ghino di Tacco "da che questo ladrone provenzale fu sì veloce a investire il Reame, e si mostra così presto di lingua, e insolentisce fino a mandare il guanto di sfida al figlio dell'Imperatore," e qui mostrò il guanto che gli aveva consegnato Carlo "saremo noi sì codardi da non rispondere alia chiamata?"
"Da quando in qua, bel Cavaliere," soggiunse il d'Angalone "dobbiamo combattere quando piace al nemico? forse i duelli hanno altra legge, ma nelle battaglie il tempo utile è sempre il tempo onorato...."
"Voi parlate da quel maestro di guerra che siete," interruppe il Marchese e Conte di Lancia; "tuttavolta pensate, per i sussidii che abbiamo trovato in Benevento noi superare di già l'esercito di Francia; ponete mente che questa scorreria di Carlo si diffonderà con la fama di una vittoria, e certo sarà sovvenuto dalla Chiesa, assuefatta ad aiutare, allorchè conosce di farlo con certezza di premio; e poi, - io lo dico con l'angoscia dell'anima, ma pure l'esperienza mi costringe a dirlo, - chi sa la dimora quanta gente del Regno, lusingata dalla novità, delusa dalle promesse, e forse anco condotta dal proprio mal talento, può ribellare al nostro Re? questo è un incendio che bisogna arrestare a ogni patto; l'esempio si allarga contagioso: e dove si sparga per le provincia nei avremo guerra esterna, e civile, quando ora l'avremmo soltanto esterna."
"Machatub Ruby!" esclamò l'Amira "è destinato: se Allah vuole, tu troverai successa l'avventura mentre provvedi a resisterle: se dobbiamo vincere, bastano quelli che abbiamo, se perdere, non bastano quelli che verranno."
"Io vi dico che le probabilità del vincere non sono mai troppe, e cotesta vostra dottrina non giova all'anima nè al corpo, e poi gli Evangeli la condannano." Così rispondeva il savio Giordano; e comecchè solo a sostenere la sua opinione, sarebbe co' savii argomenti venuto a capo di svolgere Manfredi, allorchè un suono di trombe gli troncò in bocca le parole. Assorse Manfredi impugnando la spada, assorsero i convocati, gridando: "arme! arme!" Lo stesso Giordano, senza che il suo cervello vi contribuisse per nulla, travolto dalla chiamata guerriera, trovò la sua mano su l'elsa, e la voce "arme" su l'estremo contorno del labbro.
"Ed arme sia!" esaltato di nuovo ardore esclama Manfredi; quindi velocissimo comandava: "Conte d'Angalone, Calvagno, prendete con voi le compagnie dei Tedeschi, e formatene una sola schiera più tosto profonda, che larga su la fronte; sia essa l'avantiguardia, assalti la prima, tenti sforzare le file nemiche, e s'inoltri più e più sempre, senza sbandarsi, - dovesse anche riuscire alle spalle di Carlo: - voi, Conte Lancia, Ghino, co' vostri Toscani, e Lombardi, e tu, Jussuff, con tutti i tuoi Saraceni, comporrete la battaglia, seguirete immediatamente l'avantiguardia, non troppo presso però, - a mezzo tratto di freccia, - vi prevarrete della impressione dei Tedeschi, che reputiamo infallibile; cacciatevi dietro di loro, sbandatevi, scendete, se fa di mestieri, da cavallo, e scompigliate le file; - a voi, Rogiero, affidiamo lo stendardo reale; - noi al capo del ponte co' Pugliesi comanderemo alla riscossa; - andate, provvedete: vi raggiungo all'istante; già non vi conforto a mostrarvi valenti, solo preghiamo la fortuna a favorire la valentia vostra."
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"Elena, dolcissima donna mia," favella Manfredi correndo armato di piastra e maglia verso la Regina, e le strinse con la mano aspra di ferro la sua delicata così fortemente, che per assai tempo vi portò la impronta violetta; "Elena - addio! avanti che il sole tramonti io sarò vittorioso, o morto." - Poi senza attendere risposta si volse ai figli, e gli abbracciò, e li baciò: "Voi sarete felici, spero; se però la fortuna statuisse altramente, sovvengavi in ogni caso voi esser nepoti d'Imperatore, figli del nobile Manfredi; l'unico insegnamento che un Re vinto può dare ai suoi figli per ben condurre la vita è di saper morire; una, voi lo sapete, è la via per cui si viene alla luce, perchè una la cagione del vivere; innumerabili quelle per le quali si fugge, perchè innumerabili le cagioni del morire; se la natura ci aggravò di travagli, ne concesse anche il modo di deporli: non temete la morte; bugiardo è chi l'afferma terribile; più l'uomo le si avvicina, meno gli apparisce repugnante; al punto di abbracciarla, par bella; serbate, miei figli, i vostri giorni contro la persecuzione, contro la miseria, ma non obliate che il cielo ha fatto un asilo contro la infamia - sotterra..." Piangevano tutti; Manfredi gli sogguardò amoroso, e soggiunse: "In questa guisa dunque voi date animo al vostro Re per la vicina battaglia? Conviene accompagnare col pianto un guerriero al pericolo? In verità vi giuro, che avanti che sia molto coteste lacrime bagneranno le gote alla donna del Provenzale.... Ma se il destino.... Oh dove sei, mio fedele Benincasa!
"Mancano fedeli alla vostra sacra persona?" esclamò avanzandosi con passo sicuro il medico del Re, chiamato Giovanni da Procida; "se il mio Re vorrà onorarmi dei suoi comandi, per quanto basta la vita, io giuro adempirli."
"Figlio generoso di generoso padre, noi non dubitiamo della tua prodezza; se tu avrai il senno del Benincasa, oltre il nome, e il sembiante, non sapremmo qual differenza sarebbe tra voi; pure tanto mi giunge gradita la tua offerta, che noi vogliamo, sebbene giovane, affidarci a te solo: se il fine del nostro regno è fisso lassù, se la stirpe di Federigo non deve più reggere le terre di Sicilia, tu condurrai in salvo la moglie, e i figli nostri, a Lucera, o meglio a Manfredonia.... Mia diletta, tu riparerai, come o piace, in Epiro presso tuo padre, o in Aragona alla Corte di Piero: certo tu avrai perduto la corona, perduto me tuo consorte, che avresti amato anche senza corona; - ti rimarranno i figli. - i figli, Regina, sostegno ai tuoi anni cadenti, consolazione delle passate sciagure; - il sapervi salvi anche dopo la mia morte, m'invigorisce lo spirito. Or via, un abbraccio... non piangete così... voi non conoscete s'egli sia l'estremo. Dio solo lo sa." Poi si sciolse dagli amplessi loro, parlando a Giovanni di Procida: "Abbilo fermo, a Manfredonia; nè finchè giunganti galere di Catalogna, o di Grecia, nè per minaccia, nè per prego...."
Rogiero, il quale, finchè Manfredi stava stretto nelle braccia dei suoi, era rimasto immobile, forse quattro passi discosto, adesso osò sollevare gli sguardi, e muovere un piede: tentò parlare, - le parole uscivano imperfette, tremolavano i labbri convulsi; lo guarda Yole fisso fisso senza battere palpebra, con le pupille smarrite pel bianco dilatato in terribile maniera; tenta anch'essa rispondergli, si affollano le voci alla gola, vi lasciano l'angoscia dello sforzo, e tornano a gravitàrle sul cuore; riprova: - ogni potenza dell'anima, ogni facoltà del corpo è impiegata in quel conato; le vene che le errano su pe' cigli, e per le tempie, sporgono turgide, e di colore di piombo; la faccia va tinta di un sangue rappreso; tutta la vita sembra debba sgorgare in que' detti; soccombe la natura allo sforzo inusitato, un lungo strillo strazia le orecchie, e il cuore dei circostanti; - Yole bianca, sciolta nelle membra, stramazza come statua percossa dal fulmine. Le trombe provenzali chiamano un'altra volta il nemico a giornata; pare a Manfredi intendere in quel suono una voce di scherno, balza alla porta gridando: "Svevia! Svevia!" Rogiero vede partirsi il Re, guarda Yole, alza la mano al cielo sospirando: "Ch'io la rivegga lieta, o non la veda più!" e fugge. - Elena sorreggendo la figlia non può seguitare Manfredi co' passi, lo segue con un grido; solo Manfredino corre dietro le poste paterne chiamando: "O padre mio, padre mio! ritornerai stasera?" - Fanciulletto infelice! ode prima dei passi distinti, poi rumore confuso, alla fine più nulla; ritorna piangente con le mani entro i capelli, e lamenta per via: "Il padre è sparito, - sparito, e non mi ha promesso di ritornare stasera."
Lo esercito di Carlo, giunto sul vertice dei monti vicini, ammirava la città di Benevento, tanto famosa per la bellezza e antichità sue, non meno che per l'erronee credenze dei popoli. La sua origine si smarrisce nelle tenebre della Mitologia, sebbene non manchino scrittori che affermino averla edificata Diomede Re degli Etolii dopo la guerra troiana. Poche novelle ci avanzano di lei durante la dominazione dei Romani, imperciocchè la storia di questa nazione assorba ogni altra storia dei paesi conquistati; e finchè ella fu, Roma sorpassò la universa Italia. Narrano le Cronache, Totila averla tolta dalla signoria dei Greci; ma la sua grandezza comincia dopo la conquista dei Langobardi, chè Otari sommettendo la Italia fino all'ultima Reggio di Calabria, ne fondò un nobilissimo Ducato, donandolo a Zetone suo generale. Noi non faremo la cronologia dei Duchi che successero; solo diremo, che per la venuta di Carlomagno in Italia non fu distrutto il Ducato a patto che Arechi Duca si radesse, e facesse radere la barba ai Langobardi, coniasse moneta col nome di Carlo, e rovinasse le fortezze di Salerno, di Acerenza, e di Conza. Grimoaldo generoso figlio di Arechi non li serbava, allegando sè esser libero, e ingenuo per lato di madre e di padre, e sempre si manterrebbe libero con lo aiuto di Dio. Nè i fatti suonavano diversi: si vendicava in libertà, si faceva ungere dai Vescovi, a modo dei Re, adoperava corona reale. I Duchi che tennero dietro a questo Grimoaldo fino ai Normanni, non vanno distinti che per la varia immagine impressa su le medaglie, - o per qualche delitto. I nuovi signori duramente calcando i popoli fecero sì che implorassero lo aiuto di Papa Lione IX, il quale si condusse in Germania presso lo Imperatore Arrigo III, e seco lui convenne di permutare il censo delle cento marche d'argento e del cavallo bardato, imposto da Benedetto II su la Chiesa di Bamberga, con la signoria di Benevento, pur che di sue milizie lo accomodasse per conquistarla: riuscì l'opera a Papa Lione pel molto favore dei popoli, ed investì del Ducato un Raidolfo langobardo, che in breve fu cacciato da Anfredo normanno Conte di Puglia, fratello maggiore del Guiscardo. Per la nuova ingiuria crebbero le asprezze tra Roma e i Normanni, e ne derivò una serie fastidiosa di piccoli affronti, la quale non ha altro di comune con le grandi battaglie tranne la strage. Finalmente nell'anno 1059 furono composte in pace queste contese nella città di Melfi, e Benevento fu restituita alla Santa Sede, per esserle tolta di nuovo nei tempi successivi. Il maggior danno però che soffrisse la straziata città venne da Federigo II, il quale nel 1242, dopo averla sottomessa, ne spianava le mura. Ella portava impressi i segni della ferocia e della ambizione di coloro che l'avevano conculcata prima, poi scelta a dimora; era il suo aspetto medesimo la storia delle sue vicende, chè presso a lei si ammirava un arco trionfale di marmo pario eretto a Traiano per la strada ordinata a sue spese da Brindisi a Roma; - parte delle mura non demolite da Federigo mostravano la strana foggia di architettare portata dai Settentrionali in Italia; le nuove riparazioni, e le otto porte costruite per comando di Manfredi, - il risorgimento delle arti. Il castello fondato dalla Chiesa per istanza del Governatore pontificio, inalzandosi con le brune sue torri su la città, avvertiva, o forse avverte ancora al viatore, qual fosse in quei tempi la solenne maestà dei successori di San Pietro.
Il Conte di Provenza più la guardava, più gli pareva degna di essere conquistata; la circondò molte volte degli occhi per iscoprirne il debole nel quale far breccia, e tentare l'assalto; la conobbe munita con tanta maestria di guerra, che impossibile cosa fosse espugnarla per forza; - gemè, si volse a considerare la sottoposta valle; - spaziosa compariva, e degna di combattervi campale battaglia; i fiumi Calore, e Sabato, confuse le acque alla estremità di Benevento, l'attraversavano, e un ponte magnifico dava il passo dall'una all'altra sponda: domandava come avesse nome la pianura, - gli rispondevano: - Santa Maria della Grandella. -
"Oh se ci venisse fatto" favellava Carlo al Monforte "di chiamare il nemico in questa valle!"
"Spingiamoci alla dirotta ad occupare il ponte, e...."
"E il nemico scorgendo il vantaggio, non verrà più fuori.... date fiato alle trombe."
Questa fu la prima chiamata, che interruppe il consiglio di Manfredi. Dopo il segnale ristette, ansante di speranza e di timore, a spiare quello che fosse per nascere. Si aprono le porte, e le compagnie dei soldati nemici prendono a stendersi per la pianura verso il capo del ponte.
"M'ingannano gli occhi," domandò Carlo ai Baroni che gli stavano attorno "o sorte Manfredi? - Sì, sorte.... Sire Dio, gran mercè! - Or ecco, Baroni, il giorno che avete tanto desiderato.... Mongioia! Mongioia! la battaglia è vicina."
"Bel cugino," parlò sotto voce il Monforte al Conte di Provenza "perchè il Cavaliere del fulmine...." E il rimanente gli disse in modo che nessuno dei Baroni quivi ragunati lo intendesse. Carlo parve sdegnato, e negò assoluto: insistendo il Monforte, lasciava piegarsi, e rispondeva: "Fa, cugino, quello che vuoi; ma guarda che sia degno di portarle: - certo egli è un molto terribile cavaliere."
"Lasciate fare, io troverò il vostro uomo, cuore di ferro, testa di nuvolo." E tale discorrendo il Monforte si dette a cercare per le file un gentiluomo guascone nominato Sire Arrigo di Cocence, e gli riferiva come al Re, tratto dai suoi tanti meriti, era venuto in pensiero di vestirlo delle sue proprie armi, e farlo condottiero dell'avantiguardia: "io" gli soggiungeva lo scaltrito "avrei potuto contendervi l'onore, ma come grande amico vostro ho voluto lasciarvelo; pensate alla gloria che sta per ridondarne alla vostra famiglia, pensate, sire Arrigo, che di qui innanzi inquarterete nell'arme vostra il fiordaliso di Francia."
"Grande per vero" rispose il Cavaliere "è la dignità che ci comparte sire Carlo, pure non tale a cui la illustre stirpe dei Visconti di Cocence non sia assuefatta. Vedete, Monforte, questo morso d'oro in campo rosso? ne sapete voi la cagione?"
"Ne udii, sire Arrigo, narrare qualche novella...."
"E che! ignorereste voi forse, sire Monforte, averlo posto Regnault de Cocence per aver tenuto la briglia al Re Clodoveo, che il Signore riposi, dopo la battaglia di Soissons? E queste mani intrecciate in campo d'oro?"
"Sì veramente, Visconte: ma venite, che il Re ne aspetta, e il nemico si avanza."
"Geffroi Visconte, alfiere dell'Imperatore Carlomagno. che Dio faccia requie alla sua anima, l'ebbe mozze alla battaglia delle Chiuse portando l'Orifiamma; e la fama racconta, che sire Geffroi, senza punto sbigottirsi, la stringesse co' denti, e così la restituisse all'Imperatore, il quale gli disse: o Sire...."
"Già, già, - trovasi nella Storia del Regno, pagina quattromila cento otto; vi mostrerò il luogo; si dice che la scrivesse Arduino.... gran savio maestro Arduino, Visconte, - primo consigliere di Carlomagno, e Diacono di San Remigio." - E così interrompendolo, e strascinandolo, condusse Monforte il Visconte alla presenza di Carlo, e gli disse: "Ecco il Visconte."
"Sire Arrigo, tanto di grazia nel nostro aspetto hanno trovato gli alti meriti vostri, che noi siamo venuti nella determinazione" e fece cenno agli scudieri, i quali attorniarono il Visconte, e presero a spogliarlo dell'armatura "di vestirvi della nostra divisa, e preporvi alle prime schiere."
"Gran mercè, sire Carlo: molto è l'onore che mi fate, nondimeno tale a cui la stirpe dei Cocence si trova da secoli immemorabili assuefatta. Sapete...." (e "tout doucement" disse stizzito agli scudieri, che quasi rabbiosi gli levavano gli arnesi da dosso), "sapete, sire Carlo, la cagione del morso d'oro?"
"Santo Dionigi! pensate noi essere tanto ignari delle glorie di Francia?"
"Dico bene: e le mani intrecciate in campo...."
"Già.... gran fama vi aspetta là su quella valle, sire Arrigo."
"L'uomo fa quello che può; nondimen tanto faremo, sire Carlo, che ne andrete contento: "noi volgeremo alle spalle...." ("Doucement" ripetè agli scudieri che nel torgli le manopole gli avevano graffiato le mani) "alle spalle, scavalcando quei monti.... Vero che, prima dei nemici s'incontra Benevento; noi lo prenderemo per forza, e poi...."
Così favellando era rimasto in giustacuore di bufalo; - i nemici ingrossavano alla pianura; - Carlo cominciò ad armarlo dei suoi arnesi, e mentre lo armava lo avvertiva: "No, sire Arrigo, voi lascerete lo impaccio di guidare le mosse al Maliscalco Mirapoix, ed ai Vandamme; state intento a ferire bei colpi, potrebbe distrarvi il comando...." in questa gli stringeva gli sproni "io giurerei che nessun Cavaliere avrà guadagnato meglio di voi gli sproni d'oro." Quindi si levò dal collo l'ordine di Gran Commendatore d'Oltremare, e ponendolo a quello del Visconte: - "Questo d'ora innanzi onorerà la vostra vita, o la vostra sepoltura." - L'ordine d'Oltremare, conosciuto eziandio col nome del Naviglio, e della doppia luna, fu instituito da San Luigi, fratello del Conte d'Angiò, nel 1262, nel suo secondo viaggio nell'Affrica. Egli era composto di una collana di conchiglie intrecciate con mezze lune, e di una medaglia che rappresentava una nave sul mare: ogni oggetto aveva il suo significato; le conchiglie dinotavano la spiaggia di Aigues-mortes, dove ebbero i Francesi ad imbarcarsi, le mezze lune la guerra da imprendersi contro gl'Infedeli, la nave il tragitto del mare. Veramente Carlo rammentava impresa poco onorata con quelle insegne di Terra Santa sul petto; tuttavolta, calcolando l'utile che poteva derivargli dall'ostentazione di pietà, maggiore del danno della reputazione nell'armi scemata, non mai le depose in Italia.
Armato di tutto punto il Visconte, Carlo fece condurre il destriero: comparve il generoso animale avviluppato entro immensa gualdrappa ricamata a fiordalisi; ed appena conobbe il signore, nitrì; Carlo mostrò qualche cordoglio a cederlo, pure allo improvviso si scosse, e: "Va," disse "Benevento vale bene un cavallo bardato." - Terminata cotesta faccenda, "Baroni," aggiunse "ascoltate i comandi: voi, sire Visconte di Cocence, Maliscalco Mirapoix, Vandamme, Clermont, prendete con voi mille cavalieri francesi, e sostenete l'assalto; compongano la battaglia le brigate dei Fiamminghi dei Brabanzoni, dei Piccardi, i Romani, e i cavalieri della Regina; porti l'insegna Guglielmo lo Stendardo, li comandi il nostro cugino Roberto di Fiandra, il Contestabile Giles Lebrun, e Beltramo di Balz; noi terremo la riscossa co' Provenzali, avremo con noi Guido Monforte, Crary, e voi, Conte Guerra, co' Guelfi di Toscana; la parola è la solita di Francia, Mongioia, cavalieri. Andate dunque, miei figli, ed acquistatevi signoria."
Si muovevano, allorchè seduto sopra bianchissima mula comparve circondato da molti prelati Bartolommeo Pignattello Arcivescovo di Cosenza, addobbato dei suoi più magnifici arredi; la stessa mula andava coperta di un manto di oro ricamato a pignatte d'argento; vesti di oro con pignatte di argento ostentavano i servitori, e pignatte di argento su le mazze dorate portavano i maggiordomi. Certo, cotesta arme è gloriosa, perchè le Cronache dei tempi antichi raccontano che un Landolfo, capitano su le galere del Re Ruggiero nello assedio di Costantinopoli, di tanto fu audace, che penetrato nelle cucine dell'Imperatore Emanuele rapì tre pentole di argento. e le assunse ad impresa di sua famiglia; pure ella sente un po' di ridicolo, e la voglia dell'Arcivescovo di trametterla da per tutto la rendeva piacevole anche più. Pertanto il Pignattello, fattosi al cospetto di Carlo, lo domandava, gravemente, se voleva che leggesse le bolle delle indulgenze date da Alessandro IV, Urbano IV, e Clemente IV, a cui combattesse in quella santa Crociata; Carlo rispose non essere mestieri, saperle tutti par coeur, li benedicesse, di questo sarebbongli tenuti. L'Arcivescovo si reca in mano l'aspersorio, e senza scendere dalla mula, con assai buone orazioni, li benedisse: poi, recitata in fretta un brano di perorazione nel quale diceva Manfredi figlio di Acab, fulminato dal sacratissimo anatema, razza di vipere, ariano arnaldista, priscillanista, ed ateo, tutto insieme, e chiamando allo incontro i Francesi veri figli d'Israello, e discendenti in linea retta dalla tribù di Giuda, intuonava l'Exurge Domine et defendem causam tuam ecc., e gli avviava a sgozzarsi allegramente su la pianura. -
"Ora incomincian le dolenti note."
Quinci e quindi a gran corsa, gridando Mongioia, e Svevia, si precipitano le schiere l'una contro l'altra, bramose di vincere; sparisce lo spazio che le divide, sorge la strage. I Francesi per comando del Maliscalco Mirapoix assaltano con la fronte assai vaga, perchè vedendo gli squadroni tedeschi avanzarsi in forma di quadrato, sperano ricingerli di fianco con le punte delle file, alle quali erano preposti i fratelli Vandamme. La cavalleria tedesca aveva in quei tempi riputazione d'invitta, e a vero dire, - tanto variano le cose in questo mondo, - incapace allora per difetto di disciplina a resistere, era insuperabile nel dare la carica. Adempiendo dunque i comandi del Re, insiste contro il centro dell'avantiguardia nemica, e sforza, e punta con sì fatta costanza, che, un po' pel suo estremo valore, un po' per essere il centro francese troppo sottile, comincia a balenare, diradarsi, e finalmente aprirsi; le punte, o vogliamo dire ale dell'antiguardo, già ripiegandosi per ferire i Tedeschi di fianco descrivevano un mezzo arco, allorchè occorrono nella battaglia di Manfredi difilata in linea retta a breve distanza dalle prime schiere, e così in vece di assaltare di fianco fu mestieri si difendessero di fronte da forze preponderanti. La fortuna più oltre conduce la trista lusinga: le schiere mezzane della battaglia, composte della masnada di Ghino, e dei Saraceni, prevalendosi della via aperta dai Tedeschi, vi si precipitano dentro. "Svevia! Svevia!" gridano muovendosi, e il suono si propaga per le valli circonvicine, e cresce il terrore: aggiungono spavento i Saraceni coll'incessante percuotere dei tamburi, chè in quel secolo soli essi adoperarono cotesta loro invenzione, la quale fu in processo di tempo accettata dalla civiltà europea per trasmettere i segnali in guerra, e per istraziare gli orecchi dei cittadini in pace, mettendoci di proprio i pifferi, onde compire l'armonia. Roberto di Fiandra, e il Contestabile Giles Lebrun, accorrono con la battaglia francese a sostenere le sorti vacillanti della giornata. Mongioia, e San Martino urlano a posta loro, e affrontano francamente. Formavano parte di questa schiera i cavalieri della Regina, e molti bei colpi di spada è fama che menassero, i quali però non ci conservano le storie; solo ci narrano come sire Arrigo di Cocence, non potendosi dar pace di avere indietreggiato meglio di due trar d'arco, infuriava per le file esclamando: "Cavalieri cristiani, fate testa per San Dionigi... che diranno di me in Francia? Vergogna! avanti... avanti... sono paterini, eretici i nostri nemici... le spade loro non tagliano, Dio gli ha riprovati." - Due cavalieri di Manfredi osservato il Cocence, cui tolsero in cambio di Carlo di Angiò, avvolgersi così allo scoperto tra i suoi soldati, si spiccarono di fila, e abbassata la lancia, e premutala di forza sotto l'ascella, gli si disserrano addosso: erano questi Ghino e Rogiero. Bene avvertirono i vicini il Visconte dell'imminente pericolo, ma egli aspettandoli di piè fermo gridava: "Ora vedrete il bel giuoco." - Giunti i Cavalieri di piena corsa, al punto stesso colpiscono il Visconte nel mezzo il petto, per modo che ambedue le punte riuscirono in angolo a tergo, e toltolo di sella per qualche tempo lo portarono confitto nell'aste. Si levò un grido di vittoria dall'esercito di Manfredi, stimando morto il Conte di Provenza, e più acre che mai continuò la battaglia: non meno vigorosi si difendevano i Francesi, comecchè si conoscesse chiaro che alla fine avrebbero perduto la prova. Travagliandosi così i due eserciti sul campo insanguinato, segnava il sole l'ora di nona, quando Giordano d'Angalone senza cimiero, mezzo scoperto di maglia, con lo usbergo falsato in più parti, recando in mano la spada rotta, si avvenne nell'Amira Jussuff, e: "Dammi la tua scimitarra," disse "pochi colpi a ferire mi avanzano, e la vittoria è compita."
"Viemmi dietro, Conte," gli rispose l'Amira "chè ti provvederò di una spada." - E così favellando sprona verso Clermont, che dalle armi, e più dalla prova, mostrava essere assai valente Cavaliere. Clermont vedendo colui stringersegli contro senza consiglio, si mette in guardia, reputando il manrovescio sicuro; allorchè gli è a tiro, mena di pieno vigore: l'Amira con ammirabile destrezza si curva sul collo del cavallo, passa la lama nemica, e appena gli sfiora le spalle; egli stringe la briglia allo snello Borak, torna indietro, e cala un fendente sul cimiero di Clermont, che, levate le gambe, aperte le braccia, cade morto per terra: l'Amira si piega dall'arcione, raccoglie la spada, e: "Prendi," parla al Conte Giordano "così provvede di arme i suoi amici Jussuff."
"Prode uomo!" rispose Giordano "io l'adoprerò in guisa, che corrisponda degnamente al modo col quale mi viene donata." E sparve internandosi nel folto della mischia.
Respinto su tutti i punti, lo esercito di Carlo aveva lasciato soli i cavalieri della Regina, i quali, disposti di morire anzi che indietreggiare, ordinatisi in isquadrone serrato contrastavano a tutto lo esercito di Manfredi. Giordano Lancia considerando come non fosse bene che tutte le forze del suo signore trattenesse quel pugno di gente, il quale nei suoi stessi conati si disfaceva, temendo che i respinti si rannodassero, e tornassero ad ingaggiare l'assalto, chiamati tosto Ghino e d'Angalone, comandava che di là si spiccassero, e senza riposo inseguissero i Francesi; rimarrebbe egli a prostrare cotesto avanzo dell'esercito di Carlo. Obbedivano al cenno; dietro la traccia dei fuggitivi si cacciavano a briglia sciolta; resistenti o cedenti ammazzavano; i quartieri non concedevano; era spenta ogni misericordia; funestava lo sperpero lagrimoso gli sguardi di molti tra gli stessi vincitori.
"Sire Dio! non ne sostengo la vista;" grida Carlo, che dal sommo della collina chiamata la Pietra del Roseto contemplava la strage; "l'asta, scudieri... il mio cavallo... qui, presto, alla riscossa!"
"Bel cugino," ritenendolo esclama guido da Monforte "sta saldo per San Martino, lascia ch'ei vinca anche un quarto d'ora, e poi la vittoria è nostra..."
"Io non sopporto..."
"Io ti giuro per l'anima di mio padre che ti faccio arrestare... costanza!"
I Tedeschi, a mal grado che il d'Angalone contrastasse, tratti dall'ingordigia della preda, rotti gli ordini, presero, come sicuri della vittoria, a sbandarsi qua e là per fare sacco; erravano i cavalli in balia di sè stessi; i cavalieri smontati si davano a frugare per le tasche dei morti e dei moribondi; a rapire di su le armature gli ornati che stimavano preziosi, adoperando le spade a guisa di leva; taluno, imprimendo la rapace mano sopra i cadaveri per isvellerne panno o corame che accomodasse ai suoi bisogni, così rabbiosamente trasse, che panno, corame, e pelle strappava a un punto; molti anche, non potendo cavare le anella dalle dita dei morti, tagliarono le dita, e non aborrirono riporsele in seno, - tanto si palesa schifosa l'umana cupidigia! - In questa, Ghino e d'Angalone si affaccendavano, e a calciate di lancia battendo il dorso ai ribaldi: "A cavallo, ghiottoni!" esclamavano, "a cavallo!" - I battuti, intenti al guadagno, o non sentivano le percosse, o correndo più innanzi scrollavano un po' le spalle, e tornavano a far peggio. "Adesso scendiamo, cugino," disse il Monforte; e Carlo montando a cavallo: "seguitemi, Baroni;" favellava ai suoi "voi vedrete il mio cimiero dov'è più gloria a conseguire; voi, Guido Guerra, rammentate ai vostri, che vincendo a Benevento ricuperano la desiata patria." - E si slanciò alla pianura.
Un corriero spedito dal Conte Lancia si presenta a Manfredi, e gli dice: "Messere lo Re, abbiamo vinto."
Il Re, levando gli occhi al firmamento per un pensiero che spontaneo gli si suscitò in mente di ringraziare il Signore, vede la schiera di riscossa francese che stendendosi sul pendío della collina del Roseto dechinava al piano, e ordina al corriero: "Va, va, torna a Giordano, e digli che si guardi, perchè non abbiamo anche vinto."
Poi si fissò attento a considerare la masnada dei Guelfi, e parendogli, com'era, troppo bella, domandava, che gente fosse: gli rispondevano: - i fuorusciti di Firenze. - "Or dove" è fama che soggiungesse "abbiamo l'aiuto di parte ghibellina, che noi con tante fatiche e tanto tesoro favorimmo in Italia?" - E più sempre innamorandosi nella vista della masnada, che avanzava con ammirabile compostezza: "Veramente quella gente non può oggi perdere!" volendo significare, che qualora avesse egli vinto l'avrebbe tolta al suo soldo, e messa in istato.
"A cavallo vituperati! a cavallo! ecco il nemico!" - gridarono Ghino e Giordano; ma i Provenzali galoppando di tutta carriera già soprastavano: i Tedeschi e gl'Italiani, lasciando, quantunque a malincuore, la preda, assorsero per combatterli; i cavalli pascendo si erano allontanati, e nell'improvviso scompiglio molti li perderono, però che aombrando fuggirono; nessuno ebbe il suo. Non anche avevano formato gli squadroni, che i Francesi vi dettero dentro di furiosissimo impeto, e gli respinsero forse quaranta passi; allora i Tedeschi ristettero; lo spazio che li divideva appariva ingombro di cadaveri: i Francesi vacillavano aborrendo di calpestare i corpi dei fratelli. Carlo avvisando che da quella incertezza potevano i nemici prendere tempo a rannodarsi, e forse nascere la perdita della impresa, esclama: "Su, cavalieri, non badate a calpestarli, sì bene a vendicarli: quei vostri morti sono lieti di offrirci sui loro petti la via alla vittoria; Mongioia! Mongioia!" - E fu il primo a passare.
"Fate testa, avanti! - fuggirete chi avete in prima fugato? - Manfredi vi guarda, - vincere o morire, - Svevia! Svevia!" avevano un bel gridare Ghino e Giordano; i soldati andavano a ritroso, la paura si era cacciata tra loro. Il Monforte imperversava più fiero degli altri: montato sopra un forte cavallo normanno, menando a destra e a sinistra la mazza d'arme, faceva aspro governo della gente di Manfredi; l'osservò Ghino, e lo conobbe dallo scudo, che dopo il torneamento di Roma deposta l'insegna della Italia rovesciata riassumeva quella di sua famiglia, che mostra tre sedie rosse all'antica in campo di argento. - Non dette l'animo al buon Toscano di contemplare lo strazio, toglieva la lancia ad uno dei suoi, e correndogli addosso gridava: "Guardati, che sei morto."
Il Manforte schivò il colpo, e quando Ghino fu trascorso gli trasse dietro la mazza d'arme, ma non lo colse. Ecco che Ghino, riabbassata l'asta, sprona di nuovo contro Monforte; questi con fermo volto, e col cuore tremante, attendeva a ripararsi, allorchè un suo scudiere si precipita alle spalle di Ghino, e lancia una zagaglia, che passando là dove la panciera si unisce all'usbergo penetra sotto l'ultima costa spuria, e ferito a morte lo stramazza per terra.
"Da vero, Raul," parlò sorridendo Monforte al suo scudiero "il Cavaliere che hai ucciso era prode uomo, nè meritava morire a tradimento; nondimeno ben per te, chè uomo spento non fa guerra, e odore di nemico morto manda odore di rosa." - Ciò detto, gli spinse sopra il cavallo, che meno tristo del suo signore sdegnò calpestarlo. - Stolto! e non sapeva che i cieli gli destinavano morte mille volte più miserabile. È da credersi che la Provvidenza la quale fece morire Simone Monforte suo bisavo di un sasso nel capo all'assedio di Tolosa, Almerico suo avo di una saetta nel ventre sotto Tolemaide, e Simone suo padre di onorate ferite sostenendo la libertà degl'Inglesi contro il Re Enrico, contendesse a Guido in pena della sua barbarie la gloria di cadere sul campo, oggimai ereditaria nella sua famiglia; preso nella battaglia navale combattuta tra Siciliani e Napolitani avanti il Golfo di Napoli nel 1287, conchiuse nello squallore del carcere una vita, che aveva illustrata di bei fatti d'arme, e contaminata di feroci misfatti.
Il Conte Giordano d'Angalone mirò quella morte; la mirò, e una tenebra gli si diffuse su l'anima; nondimeno, risoluto di non tornare in sembianza di vinto là d'onde si era dipartito come vincitore, trovandosi presso la masnada dei Guelfi vi si lanciò in mezzo, desideroso della bella morte. Trapassando imperversato molti percuote, molti stramazza, tanto che giunge allo stendale che in quella giornata portò Corrado da Montemagno di Pistoia; lo afferra con la manca, con la destra mena la spada; Corrado a sua posta tiene stretto, e si difende: i Paladini, che così, come abbiamo avvertito nel Capitolo decimosesto, si chiamarono i dodici Guelfi che condussero a morte Tacha da Modena, circondano il d'Angalone, e lo trafiggono di mortalissime punte; non vi bada il prode uomo, e segue la sua battaglia col bandieraio, il quale, soverchiato da troppo maggior forza, ferito in più parti, lascia cadersi di sella; al punto stesso trabocca il d'Angalone, spirando l'anima sul giglio di Firenze. - Atroci erano gli odii dei faziosi d'Italia in quei tempi, atroci i fatti; combattevano i fratelli contro i fratelli, i figli contro i padri, e però non senza commozione trovo nella mia Cronaca come i Guelfi dessero dopo la battaglia onorata sepoltura al d'Angalone deponendolo nella fossa stessa con Corrado di Montemagno, e sopra vi piantassero una croce, che nel braccio diritto presentava il nome di Giordano, nel traverso quello di Corrado, e pregava il passeggiero a recitare una requiem all'anime di due forti morti sul campo. Spenti i capitani, non fu più modo alla fuga, non si scôrse più altro che un correre alla dirotta per la campagna, non s'intese che un gridare: "salva chi può." In questa maniera rovinando pervennero dove Giordano Lancia, vinti i cavalieri della Regina, riordinava i soldati per condurli in sussidio dei suoi. "Ecco i nemici!" bianchi di paura gli gridavano i primi arrivati. - "Quali nemici?" - "I Guelfi, i Francesi, una schiera di demoni scatenati." - "Vengano, col nome di Dio; siamo qui per combatterli."
Urtano i sorvegnenti Francesi le schiere del Lancia con inestimabile valore, e sono con pari prodezza ributtati; rinserrano le file, tornano alla carica, e di nuovo indietreggiano respinti; fu il terzo rincalzo il meglio sanguinoso, nè quantunque laceri, peranche si sbigottivano; - tentarono il quarto; - infiniti i colpi percossi e ripercossi, infinite le piaghe, infinite le morti; ma il Lancia: "fermi!" gridava ai suoi, e i suoi confortati dall'esempio non piegavano un'oncia: combatteva Rogiero nella prima fila; stava la bandiera di Manfredi nella sua mano salda quanto su la cima di un torrione; intorno di lei si affollavano con impeto rabbioso i più prodi, e quando egli l'agitava al vento, sorgeva un grido di gioia, e il coraggio dei combattenti si raddoppiava. - Allora che assaltiamo, non vincere significa perdere, e Carlo oggimai conosceva, per quella ostinata resistenza, disperata l'impresa; l'animo contristandosi però non si smarriva, anzi più acre per la sventura meditava lo scampo. Sovente osservammo, l'uomo sfortunato diventare maligno, e commettere nel disastro tal fatto, cui egli non avrebbe pensato nel tempo felice. Questo appunto avveniva nel caso presente: ricorse alla frode il figlio di Francia, e rompendo ogni patto dal diritto delle genti costituito in quella età, inteso solo ad apportare il maggior male possibile al nemico, ordinò che prendessero a ferire i cavalli: fu cotesto comando contro la fede che scambievole si davano i due popoli guerreggianti su la forma del combattere; ma la vittoria assolve ogni peccato commesso per acquistarla, e se Grozio sentenziò, - doversi serbar fede ai nemici, e recare loro il minore male possibile, - crediamo che lo dicesse di luglio, nè lo avrebbe confermato di gennaio.
Propagavasi il cenno di Carlo per tutte le file, da ogni parte sorgeva il grido: "Agli stocchi! agli stocchi! e ferire i cavalli." - Ponevasi immediatamente in esecuzione; la prima fronte del Lancia innanzi che avvisasse a difendersi si trovò scavalcata; il Lancia medesimo ebbe morto sotto il cavallo; gli abbattuti si ripiegarono in disordine su le schiere che stavano a tergo; si aprirono queste per preservarli; - gli accoglievano; - solo infelici, che siccome raccolsero i compagni non poterono ributtare gli avversarii; - entrarono alla rinfusa; la francese gagliardia. fatta maggiore per la speranza della vittoria, menava le mani a precipizio; non mancarono in quell'estremo frangente a sè stessi i soldati del Re, pari era il valore, disuguale la condizione. Nessuno stimi più sanguinosa battaglia, o con maggiore prodezza, essersi mai combattuta negli antichi o nei moderni tempi; lunga stagione la pianura di Santa Maria della Grandetta esalò vapori pestiferi a cagione del lezzo che intensissimo mandavano i corpi insepolti; per oltre cinquanta anni le bianche ossa sparse alla campagna attestarono con quanta rabbia vi si straziassero migliaia di vittime, ed anche adesso avviene sovente all'agricoltore tracciando il solco di sentirsi a mezzo trattenere l'aratro; si abbassa, e trova frammenti di scheletri attraversatisi al vomere, gli afferra imprecando, e gli sbalestra nel campo del vicino.
Senza elmo in testa, co' capelli rappresi di sudore e di sangue, ferito nel volto, tenendo nella manca lo stendardo reale lacero, nella destra la spada dalla punta all'elsa intaccata, si presenta Rogiero a Manfredi, e da lontano gli grida: "Alla riscossa. Messere lo Re, alla riscossa!"
"Ch'è questo? lasciano il campo i codardi? Dove è Messer Ghino?"
"È morto...."
"D'Angalone?"
"Morto...."
"Vendetta di Dio! Baroni, alla riscossa! seguite il vostro Re, egli vi condurrà alla gloria, o alla morte." - E spinse il cavallo: non intendendo che un fievole rumore, volge la testa; - forse dieci lo accompagnavano; i rimanenti, in numero di mille quattrocento cavalieri, e forse quattromila fanti, non si muovevano.
"Su presto, affrettatevi! alla riscossa! chè l'indugio è rovina!" replica Manfredi. La medesima immobilità per la parte dei suoi. Comincia a chiarirsi il grande inganno; trema il cuore del Re. - -"O miei fedeli Baroni," riavvicinandosi a loro esclama smanioso "muovetevi per la vostra salute, pe' vostri figli.... già non voglio rammentarvi qui i miei beneficii, - pensate all'onor vostro, pensate al vituperio...."
"Noi pensiamo all'anima, noi vogliamo l'assoluzione della scomunica...."
"Che fingete ora voi? Non combatteste meco contro Papa Alessandro? Non fa ancora l'anno, non iscorreste voi, armata mano, la campagna di Roma? Adesso non vi propongo investire la terra altrui, sì bene difendere il Regno...."
"Il Regno è vostro; difendetelo, se sapete."
"Sì, lo saprò col valor vostro: usi a militare sotto l'Aquila del figlio di Federigo, voi non l'abbandonerete a mezzo della vittoria: il giuramento di fedeltà pronunziato a Monreale, e a Benevento, adempite: deh! fate che per la seconda volta Manfredi vi sia tenuto del trono."
Gli rispondevano dando fiato alle trombe, e volgendo il tergo alla battaglia: - incredibile tradimento, se le storie del tempo, guelfe e ghibelline, nol riferissero. I Baroni napolitani, nella medesima maniera dei Pollacchi nell'antica costituzione, montavano a cavallo nei pericoli del Regno, e, come essi, formavano la principale, o la più numerosa parte degli eserciti: chi ha letto la storia di Polonia, si maraviglia della somiglianza tra i Pospoliti e le masnade dei Baroni napolitani; medesimo il lusso, medesima la instabilità, le abitudini medesime: solo diversi, in questo, che i Pollacchi difendevano ciò che reputavano libertà, i Napolitani la Monarchia. Manfredi che dubitava della loro fede, li sottoponeva ai suoi proprii comandi, confidando che l'autorevole presenza gli avrebbe frenati; come rispondessero alle sue speranze adesso vedeva; - per brevi istanti contemplò sbigottito l'immensa viltà. - "Stolto!" finalmente proruppe "ed io li pregava!" Poi levò la mano in atto d'imprecare: "No.... immeritevoli delle mie imprecazioni, io li condanno a vivere!... me avventuroso! chè, come il trono, non istanno nelle loro mani la gloria e rinomanza nostre." - Volgeva il destriero; col grido e con gli sproni lo stimolava alla corsa. In quel momento avvenne un caso stupendo: l'Aquila di argento, che teneva per cimiero, gli cadde su l'arcione.... impallidì all'augurio fatale, dicendo: Hoc est signum Dei, però che questo cimiero aveva di mia mano appiccato per modo, che non doveva cadere."
Raccolse, ciò detto, le sue virtù; e da che gli era impedito di vivere, ruinava nel furore della battaglia per morirvi da Re.