Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText
Francesco Domenico Guerrazzi
La battaglia di Benevento : storia del secolo 13.

IntraText CT - Lettura del testo

Precedente - Successivo

Clicca qui per attivare i link alle concordanze

CAPITOLO DECIMOQUARTO.

 

LA TESTA DEL GIUDICE INIQUO.

 

Signor, far mi convien come fa il buono

Sonator sopra il suo strumento arguto,

Che spesso muta corda, e varia suono,

Ricercando ora il grave, ora l'acuto.

ORLANDO FURIOSO.

 

Lui fortunato! negli estri della mente divina seppe variare le corde dell'arpa, e piovere celeste voluttà sopra i suoi versi immortali. Leggiadro come il segno dell'alleanza di Dio, scherzoso come la farfalla sul prato, lieto quanto il saluto dell'amante, guardò le cose terrene traverso la luce della sua felice allegrezza; libò il mèle dai fiori, le piante velenose o per istinto singolare schivò, o sopra le sue labbra si tramutarono in dolcissimi succhi. - Ahimè! chi privo dei conforti della immaginazione dal ventre della madre fu abbandonato nell'angoscia del mondo, e volgendosi agli anni della sua infanzia non trova luogo dove il pensiero goda riposarsi un istante, e la più parte delle notti della sua bella giovanezza passò seduto su le fosse che chiudono le generazioni della polvere per meditare intorno alle sciagure e alle colpe, - e pianse di essere uomo, - e rise di essere mortale, - e al turpe sentimento di andare composto di creta porse la faccia nel fango invocando eterna la tenebra sul creato per celarvi dentro la propria vergogna, - chi tale nacque, non osi stendere la mano sull'arpa dell'armonia; le corde si spezzeranno sotto le sue dita, quelle del misfatto e del dolore accompagneranno soltanto la sua voce lugubre: - non lauro di poeta, ma cipresso nudrito di lacrime sarà la corona della sua testa, l'odio della gente la sua ricompensa, la esecrazione l'applauso; maledirà, e verrà maledetto.

O anime innocenti, che vagheggiate dal sorriso dell'Eterno, tratte dalla lusinga dell'amore godete affacciarvi alla vita, e tutte esultanza intendete ad una aurora di cui non vedrete mai il sole, nè badate alla bufera che vi minaccia alle spalle, vivete, - vivete nelle beate illusioni di un tempo che passa; non guardate queste mie carte, non le toccate, che grondano sangue! - La pace del mio cuore è distrutta, ma io non amo distruggere la vostra; lasciatemi nella solitudine dei miei tormenti: - che potrei darvi in ricompensa della gioia perduta? - la scienza? - Adamo cibò il frutto fatale, e seppe che doveva morire; - ecco la scienza dell'uomo! - Povera creta animata, come amari sono i giorni che trascorri su la creta inanimata!

È Yole! - Vedetela, a passi lenti e tardi cammina pe' viali del giardino; le posa una mano sul cuore, l'altra le pende giù abbandonata pel fianco; il suo volto apparisce candido quanto il velo verginale che le ricopre il seno, ma solamente candido: - Vergine benedetta! i suoi occhi splendono lucidi come vetro, le palpebre immobili per così lungo spazio, che ogni uomo che le avesse vedute sarebbesi maravigliato come potessero tanto lungamente durare in quella situazione; - la pupilla gelata. Che guarda la misera? Nessuno oggetto di questa terra. Le facoltà di quel senso sembrerebbero morte, o sospese, se non che a poco a poco una lagrima si forma nella cavità inferiore, e sgorga con incerto cammino giù per le guance, quasi in testimonio dello affanno che la sua anima non ha potuto contenere. Da lontano la seguono cautamente Gismonda e la Regina Elena. Povera infelice! allo annunzio dell'avventura di Rogiero cadde svenuta tra le braccia materne, ed ecco come ritorna alla vita. Ella pensò che avessero udito il loro colloquio di amore, temè che lo avessero ucciso, e le fibre dilicate del suo cervello piegarono sotto il peso della angoscia: ora le volano traverso lo intelletto mille rimembranze interrotte, in nessuna delle quali può fissare il pensiero; onde ne nasce una vicenda vertiginosa, un roteare confuso, che la percuote con sensazione di fastidio, simile a quella di colui che s'ingegnasse con ogni sforzo di ritenere nelle mani alcuna cosa sdrucciolevole, nè per quanto si affaticasse pervenisse mai a ritenerla: ora le immagini dei suoi timori le appariscono come eventi, che si operino alla sua presenza: - affretta il passo, muta la via, ma nè per accelerare di quello, nè per variare di questa può fuggire lo inganno della sua mente traviata; - come talora premendo il cuore sul letto del nostro riposo ne sembra tra i sogni di vederci inseguiti da un demonio indefinito e terribile, e di fuggire, e fuggire, e ad un tratto stramazzare: - tenti rilevarti, ma le membra son fatte di piombo; nondimeno ti alzi su le ginocchia, prosegui la fuga carponi, finchè torni a mancarti la lena, - e ti rimani immobile come pietra; - intanto senti alle spalle il fragore dei denti, lo ardore delle narici infuocate, e la pelle graffiata dalla branca infernale; - la natura non può sostenere strazio sì fatto, ti svegli impaurito, bagnato di sudore stendi le mani; conosci che fu sogno, e un gemito di conforto ti si discioglie dal profondo del petto. - Il passato per Yole è divenuto una nebbia, il futuro una tenebra; rammenta un amore, un sembiante, un pericolo, ma slegati, e senza séguito tra loro: le sue idee, come le nuvole del cielo, quando imperversano due venti contrarii, ora precipitano da un lato, ora si cozzano impetuose, nè la procella che ne deriva è niente meno terribile di quella che travaglia la testa di lei. - Che cosa fa adesso l'anima, quella regina delle umane sensazioni? Perchè rimane nella creatura ch'è diventata soggetto di pianto e di riso? Si mantiene ella lucida, o disordinata quanto il corpo in cui continua ad albergare? Non vuole, o non può, riprendere l'impero su gli organi ribellati? Perchè più sublime della creta a cui sta unita si sottopone a tutte le sue modificazioni? La scienza non giunse ancora, nè forse giungerà, a svelare sì fatti misteri: ma la compassione è lungo tempo che geme su questo avvilimento della nostra schiatta infelice. - Non pertanto bellissima si avvolge Yole pei silenzii della notte, come la luna nel firmamento, - scortato dalla quale il pellegrino, poichè schivò i pericoli della via, e giunse a salvamento tra la sua famiglia, si sofferma su la soglia a benedire quel raggio benigno: - quantunque spesso varii cammino, ella si dirige a un punto determinato; qualsivoglia oggetto in che le avvenga di urtare, le si presenta come ostacolo insuperabile, onde tutta smaniosa si pone per altro sentiero; se il caso avesse fatto che per nessuna parte avesse potuto procedere liberamente, forse sarebbe morta. Andando oltre, giunse al luogo dove la notte precedente l'aveva rinvenuta sua madre; si fermò alquanto, si pose in ginocchio, si guardò attorno per ispiare se alcuno la osservasse, poi pianse sommessa: ciò fatto, raccolse un monticello di terra, si trasse di seno una Croce di pietre preziose, e ve la piantò sopra: - oh la preghiera di quella sventurata, che sospirava a mani giunte, era fervida e degna di essere intesa! - finalmente si levò, e parve volesse tornare al castello. La Regina Elena la precorse con un cuore, che se alcuna madre poserà l'occhio su questa nostra istoria potrà immaginare, perchè quei travagli possono sentirsi, non raccontarsi.

"Ben sia giunta," diceva la Regina Elena vedendo Yole affacciarsi su la porta della sala "ben sia giunta la figliuola del mio affetto!" e le corse incontro, e la baciò in fronte. "Dove sei stata fino adesso, che ti ho chiamata tanto, e non mi hai risposto?"

"Egli è morto."

"Chi?"

"Egli."

"Il nome?"

Yole non risponde parola.

"Ah figlia mia! quando cesserai di straziare l'anima della tua povera madre? che ti ho mai fatto, perchè in questo modo tu voglia compensarmi? non sono io che nove mesi ti ho portato nel seno? non io che col mio latte ti ho nudrito, e il pianto della tua fanciullezza acquietato? Sfógati qui nel mio cuore; tutto farò per te, - tutto, pur che non ti veda infelice: - dove speri pietà più profonda di quella di tua madre?"

Yole tace.

"Tu vuoi la mia morte, lo vedo: ingrata! tu non promettevi di farti così feroce, - no, tu non lo promettevi; eri una volta umana, timida, pietosa, - ora come tu sei mutata! per te si consumano nello spasimo i pochi giorni che Dio mi aveva concesso; tu me li togli.... tu.... ma io non maledirò mai l'ora del tuo nascimento."

"Io l'ho maledetta."

"L'hai? Dunque è finita per me; io non devo mostrarti più questo mio volto; perdonami la colpa involontaria di averti dato la vita, come io ti perdono il fallo meditato di averla maledetta. Là nelle mie stanze, nascosta ad ogni vivente, lascerò logorarsi nella fame un corpo, che ha generato figliuoli alla miseria. Da te non vo' lagrima, non preghiera; nè devi darmela, perchè tu aborri quello che la Natura ha posto per vincolo di amore tra madre e figlia: - ma per gli affanni che mi hai fatto durare, per le pene passate, per le presenti.... quando sarò morta, deh! ti scongiuro, figliuola, non venire a rimproverare la tua vita alla mia polvere, - lasciala dormire in pace.... ossa delle mie ossa, non mi perseguitate nel seno dell'eternità!"

E qui la Regina Elena si allontanava. Yole agitata da fiera convulsione stese le braccia co' pugni chiusi, e stirò la persona, levandosi su l'estreme punte dei piedi; il bianco degli occhi orribilmente dilatato non aveva più pupilla, che tutta le si era nascosta nel ciglio, - solo una reticella di vene sanguigne che lo sforzo aveva fatto comparire: era sua intenzione richiamare la madre, ma il detto non potè uscire intero dalla gola ingrossata; appena con istento infinito suonò come singulto. La Regina non comprese quell'accento, e continuò suo cammino: Yole disperata di potere farsi intendere con la voce, ricorse alle mani; pure se le fu concesso stendere le braccia, non potè articolare le dita, e fare l'atto che richiama, però che la convulsione gliele teneva serrate in tanto aspra maniera, che le unghie le si erano fitte in mezzo delle palme: ritentò con la voce.... miserabile racconto! così duramente le tornò respinta nel petto, che vi mormorò roca, confusa, soffocata, come il bramito di fiera, o come cigolío di cosa che si rompe: la tensione dei nervi si convertì in languidezza, le palpebre superiori rovinarono su le inferiori; - Gismonda la raccolse tra le braccia.

 

*

* *

 

Dopo molto tratto di via, Rogiero seguendo i passi della fidata sua scorta giunse all'albergo; imperocchè, a quel modo che ci racconta Omero delle navi di Achille e di Aiace, le capanne di Drengotto e di Ghino fossero lontanissime l'una dall'altra, e situate, in segno della costanza dei loro signori, alle estremità di quelle dei masnadieri. Infatti essi sopra tutti i compagni spregiavano i pericoli; il primo per la indifferenza del bene e del male, principale distintivo della sua indole; il secondo per una certa sicurezza tranquilla, che suole accompagnare le anime veramente grandi. Entravano. Ghino, poichè ebbe suscitato il fuoco, si accostò a Rogiero per aiutarlo a levarsi l'armatura: questi vergognoso ricusava; ma insistendo il cortese albergatore, lasciò fare. Ghino a mano a mano che ne sfibbiava i pezzi, attentamente li considerava, e parte come buoni lodava, parte riprendeva di alcun difetto, mostrandosi in questo finissimo intelligente, e pratico molto. Rogiero girando gli occhi d'intorno la capanna vide un'asta lunghissima, che per essere più alta della parete era stata posta trasversalmente tra i due angoli; maravigliando forte della grossezza di quella, come vago di sapere domandò: "Cortese albergatore, di grazia, è l'asta del Re Artù cotesta che conservate in quel canto?"

"Visse un uomo in Italia che soleva trattarla nella sua fanciullezza, come il pastore maneggia il vincastro; egli vinse con essa più d'un torneo, ed abbattè più di un cavaliere in battaglia. Questa sola mi rimane del retaggio dei miei padri, - ella è la lancia del mio genitore: anche io un tempo la palleggiai, - adesso comincia ad essere troppo grave per le mie membra affralite."

"Che Dio vi aiuti! affralite! Parmi che degli anni voi non potete giungere oltre i quaranta."

"Sono i soli anni, quelli che indeboliscono il corpo?"

"È vero... ma, in cortesia, perchè quel pennoncello bianco ne cuopre la punta?"

"Perchè vi si conservi vermiglio un sangue, che da più anni vi sta sopra rappreso."

In questo punto si fece udire il lamento di una remota campana, che suonava per la prece che i Cristiani sogliono nell'ore della notte recitare per le anime dei loro morti: Ghino ne raccolse i tocchi concentrato, come lo annunzio di disastro avvenuto, poi disse a Rogiero: "Bel Cavaliere, vi chiedo perdono se per un momento vi lascio senza compagnia, perchè m'è forza recitare alcune mie orazioni."

"Che! avreste voi cosa per pregare, o per ringraziare il Cielo?"

"Io nulla chiedo per me; qualunque ventura mi sia mandata, o lieta, o trista, chino la faccia rassegnato: ma io prego per la pace dei miei defunti."

"E credete voi che possa loro giovare la preghiera dei vivi?"

"Lo credo; e quando anche non giovasse a loro, varrebbe per rammentarli a me. Un padre ucciso a tradimento vuolsi richiamare alla memoria almeno una volta al dì."

"Dite il vero; io pregherò con voi, benchè per rammentare la morte di mio padre non reputi necessaria la preghiera."

"Voi pure lo piangete defunto!"

"E ucciso co' maggiori tormenti che possano immaginarsi da mente infernale."

"De profundis clamavi" disse Ghino inginocchiandosi innanzi una immagine, ove molto ferventemente per lungo tempo orò, tenendo celato il volto nelle mani. Quando si rilevò, i suoi occhi apparvero lagrimosi, ma la passione che gli aveva sforzati al pianto era ormai trapassata: allo improvviso, come se la preghiera fosse stata una parentesi, tornando sopra l'ultimo discorso domandò a Rogiero: "Lo avete voi vendicato?"

"No."

"Me ne duole."

"Nell'anno che viene, se mai ci sarà dato incontrarci su la terra, spero che potrò rispondervi in altra maniera."

"Amen, bel Cavaliere."

Sebbene i nostri eroi non sieno affamati quanto quelli di Omero62 per doverli, come egli ha fatto, mettere tre volte a cena in una stessa sera, nondimeno, od ora o poi, convien pure che ce li poniamo. Ghino, imbandita la mensa, porse da lavarsi a Rogiero, ed egli ancora data acqua alle mani gli si assise di faccia. Le vivande non furono molte, nè ricercate; una grù arrostita fino dalla mattina bastò a saziare ambedue. Se ad alcuno dei nostri lettori non piacesse il cibo, incolpi i tempi dei quali trattiamo. Il mondo da quel giorno in poi procede assai variato in tutte le cose, tanto piccole, come grandi: i falconi, gli sparvieri, i moscadi, e simili, tennero in gran pregio, ed imbandirono su la mensa dei grandi signori; ora gli spregierebbe il più vile accattone che abbia mai limosinato per amore di Dio. Quello che merita andare osservato si è, che tutte le generazioni si accordarono nel diletto di tracannare del vino, cosa che fa meno il suo elogio quanto quello degli uomini. i quali hanno sempre amato di stolti diventare ubriachi, e viceversa per omnia sæcula sæculorum.

Mentre così sedevano a mensa, Rogiero venne in un pensiero, e tanto vi si internò, che dimenticando il mangiare rimase immobile: Ghino, poichè lungamente stette a considerarlo, ruppe alla fine il silenzio, e favellò: "Bel Cavaliere, se la mia domanda non vi riesce indiscreta, vorrestemi dire a che pensate con sì grande attenzione?"

"Messer Ghino," rispose Rogiero esitando "molto volentieri vi compiacerei della richiesta, se non temessi divenirvi importuno."

"Non vi rimanete per questo; dite pure francamente. che nessuna cosa può derivare da voi, che molto non sia per piacermi."

"Io pensava, come un gentile Barone, qual voi mi sembrate, possa dilettarsi di tale mestiere, che la gente concorda a chiamare infame; e mi pareva che voi non foste nato per questo."

"Voi avete indovinato giusto: - io non sono nato per questo; nè punto discordo con la gente a chiamare il mio mestiere infame, quantunque conosca, che se a questa gente fosse detto: chi senza peccato scagli la prima pietra, - nessuno tra lei sarebbe sì grande imprudente da osarlo: aborro i masnadieri che mi circondano, e mi trovo unito necessariamente con loro. La fortuna mi aveva dato larghezza di averi, e un nome illustre; le mie facoltà sono convenite in miseria, il mio nome in obbrobrio. Voi potete considerare in me uno scherzo della fortuna, o, meglio, uno avanzo della persecuzione, ch'io sono Ghino di Tacco dei Grandi di Siena."63 "Voi Ghino di Tacco, il famoso masnadiere!" esclamò Rogiero, levandosi in piedi.

"Ghino di Tacco Monaceschi dei Pecorai da Torrita;" senza punto commuoversi rispose Ghino "voi avrete sentito favellare di me strane novelle: so che la plebe matta mi dipinge come gigante di terribile aspetto, di cuore senza pietà; so che le femmine adoperano il mio nome per ispaventare i fanciulli, e fargli star cheti, non altramente ch'io fossi la tregenda, o la versiera, perchè suona antico quel detto, che gli uomini quando perseguitano non si contentano di fare infelice il loro simile, ma lo vogliono infame: questo è il meno; - parvi ch'io sia tale da curarmi del biasimo, e della lode?"

"Io ho inteso rammentarvi sovente, come cavaliere valoroso nelle armi, e più d'uno si dolse in mia presenza della necessità, che vi ha spinto a cosa, che voi non amate di certo."

"Sieno grazie a quei discreti. Nello stato di guerra in che io mi trovo contro la società, mi studio a seguitare più che mi riesce possibile il precetto di far del male meno che posso: se nel correr le strade incontro qualche valente uomo povero, lo soccorro; se scolaro, gli dono danari onde si compri libri, e gli raccomando a bene applicarsi, perchè amo il mio paese: ma il cherico dovizioso, il nobile superbo, devono pagare il riscatto; mi hanno tolto tutto, bisogna pure che qualcheduno mi mantenga: essi tentano uccidermi, e fanno il loro dovere; io non gli uccido, ma ne ricavo danaro, e faccio il mio; se vogliono la pace, io pel primo depositerò le armi: intanto, se è vero che la ricchezza dei pochi faccia la miseria dei molti, io giovo alla società quando anche la guerreggio."

"Certo, molto perdè Siena quando la abbandonaste."

"Non l'abbandonai, bel Cavaliere; ne fui cacciato."

"Dunque non rimane speranza che voi possiate tornare buono e leale cittadino?"

"Nessuna. L'ingiuria è maggiore del perdono. Piacevi ascoltare la storia delle mie avventure? Ella non è lunga, sebbene terribile quanto altra mai accadesse nel mondo."

"Io la terrò, messer Ghino, per la più alta cortesia con la quale mi abbiate onorato."

"Là su le sponde dell'Arnia, ove Farinata degli Uberti, il magnanimo Cavaliere, vinse i suoi nemici, e la causa loro distinse dalla causa della patria, - che quelli amò morti, questa potente, - solleva le sue umili torricelle il mio castello di Torrita. Non lontano da noi giacciono i ricchi poderi e i superbi castelli dei Conti di Santa Fiora, - orgogliosi! che gonfii di umane ricchezze stimano non albergare virtù in povero stato, ed ogni loro potere dimostrano in far male, che questo reputano signoria, - essere gentile e cortese, debolezza. Tacco mio padre, l'uomo che giocolava con quell'asta là, tutto inteso a conseguire fama di virtuoso Cavaliere, quantunque assai minore in facoltà dei Conti di Santa Fiora, molto si studiava a soccorrere i miserelli del vicinato, riparare i torti, e ricondurre la pace laddove si era del tutto partita: quando gli veniva fatto passare pel borgo, udivasi gridare di bocca in bocca! accorrete a vedere il Cavaliere, - ed ecco un recarsi di donne alle finestre, di uomini su gli sporti delle botteghe con la testa scoperta, e di giovanetti che gli si affollavano intorno per baciargli la mano; egli, non che essere infastidito di quella scena, assai se ne compiaceva, e a quale di quei fanciulli batteva leggermente delle dita su le guance, e a quale altro spiegava sul capo la sua mano terribile, come branca di lione alla tutela dei proprii figli; spesso fu visto lagrimare di tenerezza, più spesso intesero dirgli: - Signori scudieri, perchè allontanate da me quella gente? avete voi a male che mi vogliano bene? - Talora sul tramontare del sole, vestito di un giustacore di pelle, sopra povero ronzino si metteva traverso la strada, e chiunque passava, a nome di Tacco da Torrita suo padrone, pregava ad accettare per quella notte albergo al castello; poi sè stesso per signore godeva manifestare, e l'ospite, se era povero, secondo il suo avere mandava contento.

Spesso avvenne che i Conti di Santa Fiora mettessero gran corte, e la facessero bandire all'intorno; - vituperio irreparabile! le tavole loro furono deserte, mentre in quei giorni medesimi non mancarono ospiti a Torrita; perchè dovete sapere, bel Cavaliere, che si vuole in donare arte finissima, che non può insegnarsi, ma viene dalla natura, come la bellezza del corpo; donando ad altri dimostri te più potente di lui," e qui Ghino alzò il dito, onde Rogiero ponesse attenzione, "e gli uomini mal volentieri perdonano qualunque specie di superiorità; il dono il più delle volte si parte dalla superbia del donante, e si fonda su la umiltà del donato; quindi non fa maraviglia se così spesso tu odi parlare d'ingratitudine con non retto consiglio, che il presente del signore più che benefizio è obbrobrio per l'umile, e per avere più argento di lui stima comprargli l'anima a contanti: quella leggiadria, quell'affabilità di riso, per le quali la propria piccolezza non sentiamo, o non rammentiamo, che su quel subito persuadono che accettando fai piacere a cui offre, e ricusando gli daresti sconforto, onde per un senso gentile tu ti trovi costretto ad accettare l'altrui cortesia, sono cose, come io vi diceva, bel Cavaliere, da ammirarsi, ma non da insegnarsi. Queste furono le virtù civili del mio genitore; le militari.... - voi avete tolto la sua lancia per quella del favoloso marito della Regina Ginevra; bastivi questo, che una volta correndo lancia in campo chiuso nel torneo del Natale, che suole tenersi in Siena, conquistò venti armature ed altrettanti cavalli, i quali non pure senza riscatto volle restituire ai cavalieri, ma gli menò seco a Torrita, dove magnificamente onorati gli mantenne più giorni, rimandandoli ai loro castelli stupefatti della virtù del Barone. I Conti di Santa Fiora, non potendo mai prevalere in quelli esercizii cavallereschi, molto si adoperarono presso il Comune di Siena, affinchè gli abolissero, ma sempre indarno, chè i Senesi sono prodi di mano, e troppo amanti di cotesti combattimenti. Nei tempi corrotti nei quali viviamo, la emulazione anzichè esser madre di virtù partorisce odio; nè mio padre, gentile con tutti gli altri, tenne modi assai soavi coi Conti di Santa Fiora; anzi ogni volta che poteva trovarsi a far di arme con loro, sempre si poneva nella battaglia contraria, e quivi di tali colpi li percuoteva, che spesso gli rimandò ai loro castelli versando sangue dalla bocca e dal naso. Sovente da più piccole cause derivarono ferocissime avventure: l'odio dei signori si trasfuse nei vassalli, i quali spesso incontrandosi pei campi vennero prima a parole di minaccia, poi alle ferite ed agli omicidii; i Baroni reputarono andarne dell'onore loro dove con le proprie armi non gli sostenessero, ed ecco come ruppero in manifesta guerra in seno di un paese che vanta libertà di stato e governo di repubblica. Mio padre, quantunque di uomini e di averi fosse molto di sotto, così bene con la sua virtù si andava schermendo, che i Conti considerando inutile la forza manifesta ricorsero al tradimento. Io non mi ricordo, che forse di quattro anni era nato, della notte terribile nella quale il perfido vassallo posto a guardia della porta del castello mise dentro la gente dei Conti di Santa Fiora; solo conservo rimembranza, confusa di donzelle scarmigliate accorrenti qua e là come ossesse, e di una donna che pallida pallida mi prese tra le sue braccia, e mi trasportò per molti sentieri tenebrosi alla presenza di un uomo tutto armato di ferro, che fece infinite carezze a me ed a lei. Povera madre mia! pensate con qual cuore una così grande gentildonna fuggisse scalza, in camicia, col figlio in collo, dalle case saccheggiate del suo nobile consorte, incerta s'egli vivesse, perchè al súbito rumore era corso ad armarsi, e a ferire! Mi hanno raccontato le mille volte i più vecchi dei miei vassalli, che mio padre in quella notte fece prove incredibili, da scomparire al confronto le imprese favolose dei Cavalieri della Tavola Rotonda; e che dove i nemici non fossero stati troppi, Dio sa dove sarebbe andata a finire: incalzato da tutte parti, non si ritrasse, se prima non seppe i figli, la moglie e i più fedeli vassalli suoi, giunti a salvamento in luogo sicuro. Ei fu l'uomo armato che mi raccolse alla campagna, e che io, sebbene uso a vederlo ogni giorno, non potei riconoscere, tanto compariva mutato pel travaglio del corpo e dello spirito. Mi hanno pur raccontato che quantunque non avesse piaghe mortali su la persona, tanti però erano i tagli e le scorticature, che lungo tempo stette senza potere vestire armatura. Qui nella mia mente occorre una lacuna, e mi ricordo soltanto di essere stato condotto in un castello da quella donna che mi aveva salvato, dove trovammo una bella signora vestita di nero, ed un cherico che conobbi in appresso pel cappellano del castello; essi ci accolsero cortesemente, e dopo che mia madre l'ebbe favellato in segreto, piansero tanto che non avrei mai creduto che creatura al mondo potesse piangere sì fattamente il danno di altra creatura. Mia madre tutte le sere mi conduceva in un luogo oscuro, ove ardeva una sola lampada innanzi alla immagine del Redentore, e quivi pregavamo assai con la signora del castello e col cappellano; poi mi menava al mio letto, e prima ch'io prendessi sonno molte cose mi diceva di cavalieri antichi operate con prodezza di mano e con pietà di consiglio. Certa sera non la vidi comparire, la seguente nemmeno; ne domandai alla signora, ed ella non mi rispose; senza sapere il perchè, io mi posi a piangere dirotto; il cappellano si asciugava le lacrime dietro la sedia di madonna, che pareva più crucciosa del mio pianto, che della morte di sua infelice cognata. - A cui appartiene quel bastone sì lungo? - domandai un giorno alla dama, vedendo appesa l'asta paterna nella sala del castello. - Ella è la lancia di vostro padre. - E quella camicia insanguinata? - È la camicia di vostro padre. - Perchè non viene a vedermi? gli sono forse mal gradito? - Orfano, ei vi amava più della sua vita, ma i suoi nemici lo hanno trucidato. - Oh Dio! dove sono eglino questi traditori? come si chiamano essi, signora? - Figlio del tradito, voi lo saprete quando potrete vendicarvi. - O mia bella signora, e quando lo potrò io? - Quando maneggerete quella asta, come la bacchetta che adesso tenete nelle mani. - Ecco come nel mio spirito entrarono le idee di vendetta e di morte, prima che sapessi come possa offendersi un uomo. Da quel punto in poi nessuno altro desiderio mi si avvolse per la mente, che farmi robusto per maneggiare quell'asta: l'alba mi trovava nel bosco, il sole mi lasciava là dentro; in breve diventai forte cacciatore: quando trafelante di fatica io giungeva al castello portando su le spalle il cinghiale morto per la mia lancia, la signora mi occorreva con lieto viso, e mi baciava; se privo di preda, il cammino era deserto, ed io mi nascondeva nella parte più remota a fremere su la mia rabbia. Spesso nella notte, allorchè tutto attorno taceva, me ne andava sospettoso, come ladro, al luogo dove stava appoggiata la lancia; e prendendola pel calcio, mi affaticava a sollevarla; incredibili erano gli sforzi che vi adoperava; poneva le mani in tutti i modi, stringeva, scuoteva, ma tutto questo era nulla, che ella con la sua immobilità pareva schernire la mia debolezza; finalmente tolta di equilibrio cadeva con alto fragore, ed io celerissimo mi confondeva nella tenebra per non essere côlto in quell'atto vergognoso: alla mattina mi si presentava nella medesima situazione, come se tornasse a sfidarmi. Venne il momento in cui contraendo i muscoli, coi denti stretti, gli occhi gonfiati, l'afferrai con ambe le mani, e giunsi a sollevarla. - L'hai sollevata! - gridò la voce della signora, che all'improvviso mi percosse la spalla; - orfano, tra un anno e un giorno saprai quello che si vuole da te.

Fu imbandito uno splendido banchetto, le bandiere sventolarono sopra le torri del castello, e le trombe suonarono dalla mattina alla sera per celebrare la festa della lancia sollevata. - Passa il giorno, - si fa il mese, - l'anno si compie: a mezza notte sento toccare la porta della mia camera, ed una voce che grida: - Perchè dorme il figlio del tradito? l'ora della conoscenza è arrivata. - La signora del castello mi piglia per mano, - ella tremava come foglia, - e mi conduce alla cappella: su l'altare stava un libro aperto, e la camicia insanguinata; la lancia era nella mia destra. - Quella è la camicia che vestì tuo padre nel giorno della sua morte; quel sangue di cui va tinta è sangue di tuo padre, cavatogli dalle vene a tradimento dai suoi nemici: giura, figlio del tradito, sopra i santi Evangeli, che lo vendicherai. - Appoggiai l'asta all'altare, e battendo con ambe le mani sul libro urlai: - Lo giuro. - La signora mi si gittò al collo, e pianse, e rise, e mi baciò forsennata. - Anima sicura, vero figlio del mio tradito fratello, ascolta chi sei. - Qui mi narrava gran parte delle cose che già voi sapete, ed aggiunse: - La donna che ti menava la sera alla cappella, era tua madre; ella viveva meco, come può vivere la moglie del profugo di cui la testa è messa a prezzo: una sera un vassallo vestito a lutto giunse al mio castello, e domandò vedermi: - Che nuove, vassallo? gli richiesi, allorchè pose il piede nella sala. - Madonna, vi porto parole del vostro fratello, ma le ultime. - Dille. - Avanti di perder la testa sotto la scure, Monsignor Tacco, chiamatomi a sè, mi ordinava: quando sarò morto, fa di levarmi la camicia, e intingila più che potrai nel mio sangue; poi prendi la mia lancia, e va con queste cose a Radicofani da mia sorella madonna Gualdrada, - intendi bene, - mia sorella; - la mia sposa morirebbe all'annunzio; - e le dirai: Madonna, questo è il retaggio che vostro fratello manda al suo figliuolo Ghino, e vi raccomanda per quanto aveste caro il suo amore in vita, e amate la pace della sua anima in morte, che nulla facciate sapere al fanciullo dei suoi casi, finchè giunto a conveniente età possa maneggiare questa lancia; allora gli svelerete il suo lignaggio, e gli farete giurare su l'Evangelo di vendicarlo. Della sua moglie non vi parla; - questa speranza ha reso meno amara l'ora del suo assassinio. - L'annunzio non si potè tanto celare, che non giungesse alle orecchie di tua madre; venne nella mia camera per saperne la verità, io non negai nè affermai, ella cadde.... ora giace - sepolta - qui - sotto i tuoi piedi. Tuo padre bandito dal contado di Siena sì dette alla strada; incatenato nel sonno venne in mano dei Farisei: le sue parole commossero i cittadini, forse era salvo; ma il Benincasa di Arezzo giudice criminale di Siena ne vendè la vita, e i conti di Santa Fiora sborsarono il prezzo del sangue: egli è morto sul patibolo, dico - sul patibolo; - sia il tuo odio contro i Conti, - se hai nell'anima qualche cosa più dell'odio, pel Benincasa: - quegli erano antichi nemici, questi un codardo tremante che trafficò l'anima dell'innocente co' fiorini: ora egli tiene ufficio di Senatore a Roma; la fortuna ti offre luogo splendido per la vendetta; da questo momento non puoi più albergare nel mio castello; già di un'ora è trascorsa la mezza notte, il cielo stride tempestoso; ma armati, e vattene: il solo segno pel quale ti sia abbassato il ponte di Radicofani è la testa del Benincasa. - Muggi la procella, ma non la intesi; in compagnia dei miei pensieri cavalcai per le usurpate mie terre. Videro la camicia insanguinata, videro il figlio del buon Cavaliere, che trattava l'asta paterna, e tutti i vassalli mi proffersero aiuto: ne scelsi quattrocento; e veloci quanto la mia impazienza, giungemmo a Roma, - Roma il gran scheletro. - Siamo a piè del Campidoglio: - pareami udire da quelle magnifiche rovine gemere gli spettri romani; - per un momento dimenticai la mia vendetta, - per un momento. - Lasciai i miei compagni: e ascesi tutto solo le scale. - -Un uomo di bassa statura, di colore cadaverico, smunto, cresputo per la fronte e per le guance, sfogliava un grosso volume con mano paralitica: nel primo vederlo mi sentii preso dal ribrezzo, che produce la cosa schifosa dalla quale ti allontani per non imbrattarti il calzare: questo ribrezzo mi ha poi sempre accompagnato allorchè si offerse ai miei occhi gente di toga: infatti ella è schiuma dei vizii umani; venditori di parole senza senno, venali quanto l'anima di Giuda, fondano l'arte loro nelle discordie di uomo e uomo, spesso di fratello e fratello, o di padre e di figlio; impudenti senza paragone, scoprono con mani profane le vergogne della nostra schiatta, vi suscitano la rabbia di avere, e vi seminano, come i denti del serpente, la massima, non darsi al mondo gentile passione, che valga al confronto di un pezzo di oro coniato; tronfii per vano sapere, come l'ebbro pel vino ingoiato, gobbi pel travaglioso mestiere di svolgere libri, e di confondere lo intelletto che la natura aveva loro compartito ordinato, tre stoltezze d'ignoranti che hanno scritto innanzi di loro fanno per essi una ragione; chi più ha grassa la memoria di queste stoltezze, è più reputato; come la tignola, la quale più rode, più si approfonda: oh! avessero tutti una testa sola!... Mi accostai al banco di cotesto abiettissimo; egli alzò la faccia, e strinse gli occhi per meglio vedermi, che la lettura glieli aveva indeboliti. - Chi siete? che cosa volete? - mi disse con voce strillante: - spacciatevi, che ho da finire molte faccende questa mattina. - Magnifico Senatore, - risposi appressandomi sempre più al banco, - la mia è piccola cosa, e da sbrigarsi in un solo momento. - Non venite più oltre, ch'egli è difeso farsi tanto vicino al Senatore. - Io non gli badava, e continuando il passo, e il discorso: - Voi mi dovete un debito. - Qual debito? voi siete folle. Allontanate quel pazzo, spingetelo fuori, cacciatelo prigione! - Folle tu, che credesti essere salvo quando vendesti l'innocente; tu mi devi la vita di mio padre. - In questa, io me gli era avventato addosso, e lo aveva stretto alla gola con tale furore, che gli occhi gli scoppiavano dalla fronte, le sue labbra balbuzienti mormoravano: - Salvum fac spiritum meum; - ed io gli susurrava all'orecchio: - Dannazione! dannazione! - Poi trassi il coltello, e seguendo la impronta violetta delle mie dita gli segai il capo, e lo afferrai pe' radi capelli che avea su la fronte con la gioia dell'amante che stringe la mano della fanciulla desiata. Intanto era accorsa assai gente; senza sconfortarmi mi vôlto, stendo il braccio mostrando il pugno e il coltello insanguinati, e grido loro: - Cristiani, fo voto a Dio, che a quale si oppone al mio cammino, io do di questo coltello per mezzo del cuore. - Pare che il sembiante corrispondesse al detto, perchè si ritirarono chi qua, chi là, mormorando come, il mare quando il vento cessa. Mi accolsero i miei vassalli con alte strida di allegrezza, io conficcai la testa del Benincasa su la lancia di mio padre, e dato ordine che suonassero lietamente le trombe, me ne uscii di Roma, traversando immensa quantità di popolo atterrita per così grave ardimento. - Guardia! guardia! abbassa il ponte. - Chi è di là dal fosso che vuole entrare a questa ora? - Abbassa il ponte, che sono Ghino. - Messere, voi sapete l'ordine di Madonna: avete il segno? - Sciagurato! parti che vorrei comparirle avanti senza esso? - Passo il ponte, volo alle stanze di madonna Gualdrada, - non v'era; corro alla cappella, e già da lontano me l'annunzia la sua voce salmeggiante: entrai per una porticella allato dell'altare, e vidi madonna inginocchiata ai balaustri, intenta a leggere la sua orazione; il debole lume di una sola candeletta la illuminava, e a canto alla candela potei osservare una disciplina: al cigolio che fece la porta volgendosi su gli arpioni, al rumore dei miei passi, levò gli occhi, che assuefatti alla luce non poterono scorgere nella oscurità; io camminava lentamente senza proferire parola sporgendo il braccio con la testa del Benincasa: madonna a proporzione che mi avvicinava alla luce vide un oggetto indistinto, - una testa di uomo sospesa per l'aria. - Il volto del Benincasa! - allora esclamai: - il segno fu portato, il ponte fu abbassato. - Ben fu abbassato, - rispose la dama, e chiuse tranquillamente il libro, prese la candela, e fattala innanzi ai miei occhi si pose fissa fissa a guardarmi. Poichè si fu accertata ch'era il suo nepote, divenne a un tratto vermiglia, di lì a poco bianca; fece prova di sostenersi al balaustro, ma le forze le mancarono, e priva di conoscenza cadde nelle mie braccia. - Da quel giorno tutti mi hanno dichiarata la guerra, ed io assai lietamente mi difendo da tutti. La savia dama morì, e m'istituiva suo erede: ella teneva Radicofani dalla Chiesa, io non lo tengo da alcuno, e non corrispondo vassallaggio, nè omaggio; - che vengano a cacciarmi, se valgono. I Conti di Santa Fiora più di una volta hanno avuto le tempie rotte, i castelli arsi, i poderi guasti: alla fine, lasciata la campagna, si ripararono nelle mura di Siena, io ve gli ho chiusi in confino; se osassero romperlo, pena - la morte. Le mie imprese non sono da raccontarsi; - figuratevi che, cosa può fare un povero masnadiero! se però non furono illustri, non furono nè anco crudeli. Il bene mi è conteso, la gloria vietata; ciò che mi si concede sperare è di essere meno aborrito. Ora poi mi ha preso vaghezza di accostarmi al Regno, perchè amo Manfredi; e quantunque ei non lo sappia, ha in me un amico che lo sosterrà finchè l'anima gli basti."

"Santa Maria! Voi amate Manfredi?"

"E perchè non dovrei amarlo? non sono i suoi costumi quali la stessa invidia non potrebbe emendare?"

"Male accorto che siete! egli è il più tristo che illumini il sole: uccisore del suo fratello, mortale nemico mio." E in questo punto Rogiero gli narrò le cose avvenute, quelle che disegnava operare, e alla fine delle sue parole interrogò: "Che parvene? è egli uomo da amarsi costui?"

"Voi avete ragione di odiarlo, se le cose esposte sono ben vere. Io italiano vedo in Manfredi un mio fratello valoroso, e sapiente, che ama la Italia, e vuol farla grande; però non posso, nè devo odiarlo: quando anche non fosse tale, ma straniero avaro e rapace, ben io vorrei dare mano a cacciarlo con le nostre proprie armi, non già con le altrui: ci viene da tempi assai remoti la favola del cane, che carico di vespe stavasi immobile senza batter palpebra, perchè, come egli disse a cui lo interrogò, quelle ormai si trovassero sazie di sangue, nè gli dessero più fastidio, mentre se si fosse mosso sarebbero sopraggiunte altre assetate a suggere ciò che vi lasciavano le prime."

"Dovrei dunque rinunziare alla mia vendetta, perchè i suoi interessi stanno uniti a quelli d'Italia? Intanto mora egli, all'armi straniere provvedemmo."

"Distruggere gli stranieri non riesce così agevole come chiamarli; e voi con incerta speranza apportate al vostro paese danno certissimo."

"Disperisi l'anima di mio padre! Lo avreste voi fatto?"

"Cavaliere, io non vo' dirmi più buono nè più tristo; non so quello che nel caso vostro avrei operato; ringrazio la ventura, che vendicandomi non ho nociuto che a pochi uomini."

"Questa vostra risposta si rassomiglia alla spinta data al naufrago che cerca la riva."

"Ma!" rispose Ghino celando la faccia "potrei darvi l'anima, non il consiglio."

"Voi mi aborrite?"

"Io vi compiango. In ogni caso rammentatevi, ch'io vado lieto di dovervi la vita."

Allora si levò, e andarono a riposare. Alla mattina Rogiero, tolto commiato dal suo ospite, che assai doloroso lo vide partire, proseguiva la via.

 

 

 

 




62 Ulisse e Diomede sono gli eroi omerici che fanno mostra di tanto appetito nel 9 e 10 dell'Iliade.



63 Ghino di Tacco non è una invenzione fantastica, ma un personaggio rigorosamente storico, come il lettore potrà conoscere, se gliene prenda vaghezza, dai Comenti di Benvenuto da Imola, e del Landino, al canto 6 del Purgatorio, dalla Novella II, Giornata decima, del Boccaccio, e dalla storia di Girolamo Gigli.






Precedente - Successivo

Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2007. Content in this page is licensed under a Creative Commons License