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Francesco Domenico Guerrazzi Racconti e scritti minori IntraText CT - Lettura del testo |
A don Luca poi capitò per la testa un'altra strana fantasia: si mise a voler trovare il modo di fabbricare dell'oro, non mica per vaghezza di oro, oibò! bensì per comporre l'oro potabile da prolungare la vita; ed affermava come questo fosse altra volta accaduto, e doveva rinnovarsi: anzi su tale proposito raccontava che certo bifolco, nelle parti di Sicilia, ne aveva trovato pieno un fiasco; ed essendoselo bevuto tutto di un fiato, campò cinquecento anni e non so quali mesi34. Fece pertanto nelle sue stanze fabbricare fornelli, e quivi notte e giorno si tribolava il cervello fra le storte, i lambicchi, vetri e pentole a soffiare, rimestare, mescolare, bollire e squagliare, ch'era pietà: poi leggi e rileggi certi libracci che pareano messali, e puzzavano d'inferno cento miglia alla lontana: nè qui terminava la strana passione dell'uomo, che quante bestie gli cascavano sotto ammazzava, ricercandone poi studiosamente le viscere; piante, minerali e sassi, niente insomma sfuggiva alla perpetua sua investigazione: frattanto anch'egli trasanda le mondizie del corpo, e a lui pure doventano gli occhi torti e feroci. Un altro demonio aveva preso possesso dell'anima sua.
Ora non istette guari che vedemmo comparire in casa uno accidente pieno di terrore: non vi era animale, o vogli cane o vogli cavallo, che più di tre giorni potesse durarci vivo; dagli animali la morìa passò negli uomini; morì il lacchè; morì poco dopo la sua moglie; morirono quattro staffieri uno dopo l'altro in un giorno solo; morì il cappellano che veniva a celebrare la messa nella cappella di palazzo: appena ebbe mangiato e bevuto il pane e il vino della eucarestia incominciò a urlare disperatamente: ohi! ohi!, a rotolarsi per la terra, e in breve, così parato com'era con la pianeta addosso, vomitando frammenti di ostia e il vino consacrati, e dibattendo la testa sopra i gradini dell'altare, se ne morì. Don Luca a tutte queste morti accorreva, tastava i polsi agli agonizzanti, ne speculava sottilmente le sembianze prima e dopo la morte loro, e raccolto con diligenza il vomito, si rinchiudeva dentro il suo laboratorio.
Questi casi misero addosso ai suoi tanto fiera paura, che chiesta licenza abbandonarono il servizio; e taluni furono spaventati per modo, che se ne fuggirono senza domandarla nemmeno: nè solo i servi uscirono di casa, ma i vicini eziandio fuggivano la contrada. Anch'io andai per tòrre commiato da don Marcantonio come maiorasco di casa; ed egli schiusa alquanto la porta di camera, per l'apertura guardatomi in viso un cotal poco alla trista, mi rispose:
"O chi vi para? chi vi ha mai parato? Potete andarvene quando vi piace: un mangiapane di meno."
"Sta bene; ma prima di andarmene, eccellenza, capisce che sarebbe di dovere mi saldasse il salario."
"Non vo' malinconie: - oggi mi duole il capo - ne parleremo la settimana entrante...."
E mi chiuse furiosamente la porta sul viso. Sicchè non potendo ottenere meglio, mi rassegnava ad andarmene; quando ecco con pari furia torna quel tristo ad aprire la imposta, e, fatto capolino, e' mi dice spedito:
"Bene inteso però, che da oggi in poi non vi corre più paga."
E da capo giù la porta a scavezzacollo, e tira catorci, e metti bracciòli, come se si accostassero i turchi. Quinci me ne andai difilato nelle stanze di don Luca, e lo trovai secondo il solito intorno ai fornelli col soffietto in mano: mi udì senza guardarmi in volto, e cessare la sua bisogna; ma terminato ch'ebbi di parlare, mi battè sopra la spalla, e con sembiante umano mi disse:
"Orazio, hai paura, eh? Non temere., io... qui... no, tu in casa non incontrerai niente di male..... fede di galantuomo..... anzi ho bisogno di te..... non te ne andare....
"Eccellenza, gli risposi, avendo avuto congedo da sua eccellenza don Marcantonio...."
"Se don Marcantonio non ti vuole, starai con me; io ti voglio far del bene, e non voglio che tu te ne vada, hai inteso? Rammentati che ho le braccia lunghe, ed uscendo di qui mio malgrado, vattene difilato a prendere a pigione una fossa al camposanto: hai inteso?"
"Eccellenza sì."
In questo modo rimasi.
Nella stessa notte sento raspare alla porta della mia camera.
"Chi è là? - domando un cotal poco spaventato.
"Zitto. Sono io; vèstiti prestamente, e vieni meco."
"Oh Dio! a quest'ora; ed a che fare, don Luca? Veda, casco proprio dal sonno!"
"Vèstiti." - E me lo disse con tale un suono di voce, ch'io reputai prudente vestire i miei panni e presto, senza altri discorsi; se non che fingendo di cercare qualche cosa sotto il capezzale, agguantai il mio bravo coltello, e me lo nascosi nel petto. Allora mi parve essere rinato. Don Luca, vestito che fui, mi diè a tenere la lanterna, ed ordinò mi avviassi alle cave del palazzo; e come mi venne comandato feci. - Scesi là dentro, egli chiuse cauto le porte, ed io di traverso gli stava attento alle mani; ma egli liberamente si accostò a me, mi tolse la lanterna di mano, e sollevatala verso il soffitto mi disse: "Vedi?"
"Eh! vedo una bellissima carrucola agganciata dentro una campanella murata nella volta; - vedo una fune lustra e insaponata infilata nella girella toccare da due parti terra: e' non fa punto mestieri essere profeta per vedere chiare e distinte tutte queste cose."
Ed io mi accostai: quando gli fui presso egli si chinò, e accolse dal pavimento la fune; poi rialzò la persona, e mi pose una mano sul braccio. Allora mi cadde in pensiero ch'egli disegnasse fare su di me qualche suo matto esperimento con la corda, ond'io detti di un balzo indietro gridando:
"Eh! don Luca, non vi sarebbe saltato in testa di darmi la colla?"
"Oibò! all'opposto; tu la devi dare a me."
"Senti questa, che è nuova di zecca! - In fede di Dio mi sembrano gusti guasti; ma che vi par egli, eccellenza, che io vi abbia a collare?"
"Fa' quello che ti comando, Orazio, e non badare ad altro."
"Corpo di Pluto! Vuoi tu fare com'io ti comando? o che con le mie mani ti scanno qui come un cane;" e traendo il pugnale faceva le viste di corrermi addosso.
"Don Luca, rimettete il coltello nel fodero: non ci abbiamo mica ad ammazzare per questo: corda volete, ed io vi darò corda a beneplacito."
"Or be'; legami le mani, le mani dietro la schiena.."
"Eccole legate...."
"Adesso tirami in su un poco per volta."
"Eh! Oe! Ecco, che vi tiro: faccio a dovere?"
"Che diavolo! volete anche lo squasso?"
"Lo squasso! lo squasso! Traditore.... tu mi mangi il pane a tradimento... dammi lo squasso."
"Non v'incollerite, don Luca, ecco lo squasso."
Dopo lo squasso volle i piombi, ed io i piombi; dopo i piombi lo squasso ed i piombi, ed io lo squasso co' piombi; insomma le asperità della corda ei volle provar tutte, che voi, onorandissimi colleghi, già sapete per pratica, o saprete in seguito, come dobbiamo fermamente sperare. Don Luca sostenne da pari suo il tormento senza né anche stringere ciglio; e così per bene un mese durammo, facendosi ogni dì più gagliardo a sostenere; per la qual cosa, su l'ultimo, quando lo sospendeva alla corda gli pareva andare a nozze.35
Un giorno sul cadere delle foglie (saremo stati a fin di ottobre, o a mezzo novembre) il cameriere, che unico aveva conservato presso di sè don Marcantonio, venne ad avvisarci tutto atterrito, come il suo padrone da bene ventiquattro ore non avesse aperta la stanza; non osare aprirla egli stesso, perchè il padrone glielo aveva divietato; poi, perchè si era chiuso per di dentro; ed in ultimo, perchè sforzando la porta aveva sospetto di buscarsi una pistolettata; non sapere per tanto che pesci pigliare, essere ricorso a noi per consiglio. "Che vuoi tu ch'io ti consigli? rispose don Luca: quel tristo del tuo padrone sarà morto di fame, tanto è misero costui; e tu pure, vedi, barelli per la fame; vieni qua, sciagurato, prendi un sorso di questa acqua arzente, ch'io stesso con le mie proprie mani ho distillata, e so ben io che ti rimetterà l'anima in corpo"36. Il povero uomo dopo qualche smorfia buttò giù il bicchiere fino all'ultima goccia, e gli parve, com'egli disse, sentirsi riavere. - Io era lì presente, ma non lo potei impedire.
Don Luca incominciò a pensare; sembrava sostenesse dentro una qualche battaglia, imperciocchè le gambe come impazienti di andare si agitavano, ed egli con le mani si aggrappava ora a questo, ora a quello altro oggetto a guisa di uomo che caschi giù dalla tettoia rasentando la parete della casa; e quando io lo confortai a rompere gl'indugi, e ad accorrere in soccorso del fratello, egli mi lanciò contro uno sguardo da basilisco, e mormorò fra i denti:
Finalmente ripiegò la persona, chiuse gli occhi, giunse ambe le mani facendo scricchiolare le dita incrocicchiate, e la sua faccia gli diventò verde: tacque lunga pezza a bocca aperta, poi susurrò con parole tronche:
"Il demonio mi vince.... io non posso resistere al demonio.... e tra me e Dio si distende la maledizione paterna."
Ciò detto, prese risoluto certo suo astuccio con entrovi varie caraffine, e venne via. Ci fu mestieri abbattere le porte, però che don Marcantonio, come dubitava il servo, si era sprangato per di dentro; e quando, atterrati gli usci, ponemmo il piè sopra il limitare, un molto stupendo spettacolo si offerse agli occhi nostri.
Il soffitto da un angolo all'altro sosteneva festoni di ragnatele, donde i ragni a modo di stelle cadenti precipitavano giù sopra gl'insetti: due gatti stavano accovacciati a piè del letto sbalorditi dalla fame e dal grave odore, che là dentro esalava: sopra un seggiolone a bracciòli foderato di velluto cremisino sedeva un rospaccio dalla vista maledetta, che pareva tutto un avvocato fiscale: di sotto lo stipo di ebano, per tarsìe di madreperla e di argento prezioso, sbucavano fuori due pizzughe: qua e là escrementi, ossa e rimasugli di sozzi cibi aborriti o rigettati dagli animali; da per tutto immondezze. In un canto, coperto da parecchie lenzuola, appariva un monte di argento lavorato: ve n'era d'ogni maniera; candelieri, calici, reliquiari, lampade da cristiani, lampade a sette becchi da giudei, cangiarri, ed altre più cose, tutto sottosopra a rifascio: una lunga tavola andava ingombra di lavori di oro e di gemme sciolte, o legate: alcune cantere dello stipo aperto lasciavano vedere inestimabile quantità di moneta di oro e di argento.
Don Marcantonio giaceva sul letto supino con gli occhi stralunati; sopra le labbra gli ribolliva la spuma; contorcevasi smanioso, e mugolava ora sommesso, ora con urli spaventevoli; e i gatti allo schiamazzo infernale rispondevano miaulando, e il rospo gracidando. Don Luca, quando lo ebbe contemplato in faccia, disse:
"Tra le altre belle doti, che il cielo gli ha dato, ci mancava il benedetto37: adesso può chiamarsi compita: tenetelo fermo, ch'io vi farò vedere mirabilia."
E così favellando andò allo stipo, donde tolse una manciata di ducati di argento, e questi prese a contare vicino agli orecchi dello infermo battendoli forte fra loro: - ecco don Marcantonio cessa dalla convulsione, e fa vista di porgere ascolto. Allora don Luca gli apre le mani, e vi mette cinque o sei ducati per parte.
Volete crederci, o non ci volete credere? Se volete crederci fatelo gratis, però che io non voglia nè possa pagarvi. Don Marcantonio sgranchiò le dita; e quantunque fosse sempre fuori di sè faceva l'atto di contare la moneta: alla fine rinvenne38. - Oh come ratte e feroci vibrava le pupille d'intorno! parevano lingue di vipera.
"Chi siete? - urlava. - Che cosa volete? come qui dentro? Non mi portate via la roba; piuttosto l'anima.... Non mi scannate..... vi do uno scudo per uno.... quanti siete?"
"Tacete là, sciagurataccio, lo interruppe don Luca; chi mai vorrebbe avere la vostra ricchezza a costo della vostra miseria? Lo vedete! La trista vita che menate; - lo starvi qui perpetuamente intufato a tribolarvi su l'oro e su l'argento vi ha fatto capitare addosso il mal comitale. Adesso a che vi gioveranno le vostre ricchezze?"
"Io mi vi farò stendere sopra, e morirò contento.. Io comando, e voglio essere seppellito col mio argento, col mio oro, con le mie gioie...."
"La è cosa da barbaro, fratel mio. Alarico è fama che ordinasse come voi39; ma forse si giacque costui più morbido degli altri morti sotto terra? I vermi vedendo l'oro del re gli fecero di berretta, o si rimasero a rispettosa lontananza? - Pensate che ogni testa di queste vostre tante monete nel giorno del giudizio, per virtù di Dio, acquisterà lingua e loquela per raccontare il misfatto pel quale voi lo estorceste alla vedova e all'orfano per seppellirle nello inferno del vostro forziere..."
"Don Luca, se il demonio vi ha deputato suo procuratore per prendere l'anima mia, potete andarvene: tanto per ora non ho volontà di morire."
"In quanto a questo, Marcantonio mio, la vita e la morte non istanno nella volontà dell'uomo: e voi, vedete, tornate a sbadigliare e a torcere la bocca: indizio certo, che vi riprende il male."
"Andate via.... lasciatemi morire solo.... Taddeo, chiudi le cantere... portami le chiavi..."
"Prendete presto una cucchiarata di questo elisirvite se non volete tornare a svenirvi."
E fattosi dare un cucchiaro pieno di acqua vi gettò dentro quattro gocce o sei di liquore da una delle caraffine dello astuccio, e l'acqua ribollì fremendo, e fiammeggiò come se fosse fuoco. Don Marcantonio vedendosi accostare il cucchiaro alla bocca lo allontanò rabbioso, dicendo con amaro sogghigno:
"Don Luca, don Luca! E sì.... e sì che dovrebbe bastarvi quello che avete fatto fin qui..."
"E che ho fatto io?" - rispose don Luca spaventato.
"Voi? Siete presso a colmare la misura d'iniquità, che vi è stata assegnata per vostro compito."
Don Luca allora trangugiò il liquore che aveva mesciuto pel suo fratello: poi favellò pacato le seguenti parole:
"Vedete, io l'ho bevuto; volete che io ne mesca un'altra cucchiarata per voi? La sincope sta per ripigliarvi... io vi assicuro che vi ristorerà..."
"Ebbene, mescete," - rispose don Marcantonio; e bevve senza sospetto.
Di vero tanta parve esercitare virtù lo elisirvite di don Luca, che indi a breve don Marcantonio si levò in piedi e ci accomiatò con pessimo garbo, tenendo di occhio alle nostre mani; nè di ciò contento, quando fui per uscire me lo agguantò di forza, e aprendomi le dita mi disse;
"Avete preso nulla? - E visto, ch'io le aveva vuote, soggiunse: - non mica per non fidarmi; ma talvolta, senza volere, qualcosa si attacca alle mani, e allora si passa per ladri... sicchè il meglio è ben guardare avanti."
"Accomodatevi a vostro bell'agio, signor Marchese," io gli risposi.
E don Marcantonio, prima che avessi profferito le parole intere, mi pose le mani in tasca frugandomi così squisitamente, che un gabelliere non poteva far meglio; e tuttavia andava dicendo:
"Non mica per non fidarmi... ma perchè in caso di mancanza... io non abbia a sospettare di voi, Orazio, che siete un galantuomo... pare..."
E mentre con le mani frugava me, con gli occhi ricercava don Luca: però di un senso solo sembrava non si volesse fidare, e con qual pretesto mettere le mani addosso al suo fratello non sapeva: di repente gli cadde in pensiero un suo trovato, e fu di gittarsi alla vita, e abbracciarlo con affettuosissimo amplesso, intanto che con bel garbo gli andava palpando le tasche. Che pocanzi ci avesse accomiatati così villano o non ricordava, o faceva le viste di non ricordare. Don Luca rideva; e mentre don Marcantonio gli stringeva la vita, egli col pollice e lo indice delle mani allargati circondava il collo di lui esclamando:
"O ineffabile dolcezza dello amore fraterno!"
Nella giornata don Marcantonio mandò pel fabbro, e fece mutare tutte lo serrature, e raddoppiare i ferramenti alle imposte. Inutili cure! Indi a due giorni egli venne sorpreso da orribili convulsioni e da sincopi, che lo lasciarono per morto. I fisici, dopo avere tenuto lunga consulta fra loro, lo dichiararono spacciato. Allora sentendosi egli in fine della vita, e degli umani rimedi senza speranza, ordinò gli si chiamasse il prete; il quale accorse senza farsi pregare, e sedutosi a canto al letto richiese il moribondo in che cosa potesse avvantaggiarlo. Don Marcantonio, dopo avergli aperta la intenzione sua di lasciarsi tanto bene quanto bastasse per andare in luogo di salute, se ci fosse verso, ad un tratto gli domandò:
"Reverendo, e quanto mi metterete la dozzina di queste messe?"
"Don Marcantonio, parvi questo tempo di scherzare? O che le avete prese per chiocciole? Parlate con più rispetto delle cose sacre."
"Ma signor no, ch'io non intendo mancare di rispetto alle cose di religione... segnatamente nello stato in cui mi trovo ridotto... e per di più con la speranza di potermi salvare mercè di quelle: - io credo, che senza peccato uomo possa informarsi di quello che ha da spendere..."
"Eh! togliete la mente dagli oggetti mondani; di ciò prenderanno cura gli eredi..."
"Gli eredi? Ci vo' pensare io..."
"O che volete istituire erede voi stesso, come fece quel pazzo avaro di Ermocrate nell'antichità?"
"Badate al fatto vostro, reverendo, e lasciamo stare gli antichi. Dunque, a quanto la dozzina le messe?"
"Le cose di Dio non si comprano, nè si vendono: ma per elemosina della messa potreste assegnare mezzo ducato."
"Misericordia! O che limosina sarebbe allora cotesta vostra? Intendasi per ogni singola messa..."
"Signore! E allora a morire si va proprio in rovina. - Sentite, reverendo, io non posso spendere assolutamente tanta moneta; - e poi ci è chi me le dice a meno: - se mi fate prezzo più grato io vi do la preferenza."
"Questo non è possibile..."
"Come non è possibile? Il Priore di san Simone me ne ha chiesto quarantaquattro baiocchi per messa; - e poi, sentiamo un po' quante messe contate che mi abbisognino per andare in paradiso....?"
"Innanzi tratto, eccellenza, messe sole non bastano per ottenere la eterna salvezza: in vita voglionsi opere buone; e se uomo ebbe la sventura di commetterne delle prave, allora fa mestieri una sincera contrizione di aver peccato: dopo la contrizione giovano i suffragi, ma quanti ne occorrano non può determinarsi; questo dipende dalla infinita misericordia di Dio."
"Ma allora quel tristo del Priore di san Simone mi ha ingannato quando mi accertava, che con sei dozzine di messe ed un mortorio egli lo reputava affare fatto! Anzi, avendolo supplicato che rifacesse i conti per vedere se qualcheduna poteva risparmiarsi, egli mi aveva promesso di ripensarci sopra, e darmene risposta. Ora, a sentir voi, con quattro dozzine si potrebbe sbrigare la faccenda, ed anche avanzarne..."
"Potrebbe..."
"Ma io non vo' che ne avanzi; ho sentito sempre predicare contro il lusso, ed ha ad essere un grosso peccato anche in paradiso."
"Difficile cosa è, che all'uomo avanzino meriti: ma quando anche ne avanzassero, non per questo andrebbero punto perduti; chè voi li potreste applicare in suffragio dei vostri defunti."
"Io non intendo applicar niente a nessuno: ognuno pensi a sè, e Dio per tutti. Quattro dozzine di messe per me giudico sufficienti: ora, alle corte, se voi me le celebrate a quaranta baiocchi l'una, io vi preferisco come parroco della mia parrocchia; diversamente mando pel Priore di san Simone."
"Eccellenza, io non venni qua a trafficare, bensì ad amministrare i sacramenti: la grazia gratis fu data, e gratis la compartiamo; se volete lasciare di che suffragare l'anima vostra, fatelo; la elemosina è necessaria, perchè la Chiesa campa con la Chiesa: ma mi prende rimorso e ribrezzo essermi trattenuto qui con esso voi, in momenti tanto solenni per l'anima vostra, in mercato così vergognoso. Quando vorrete confessarvi avvisatemi, che sarò da voi come me ne corre l'obbligo del mio ministero."
E se ne andò. Don Marcantonio nel vederlo partire diceva:
"Un degno sacerdote in verità! Ma caro appestato! - Ribasserà,... ribasserà. Orazio, il falegname è venuto?"
Ed io, che nella stanza appresso mi era sollazzato oltremodo a codesto colloquio, presago che stava per seguitarne un altro ancora più strano, accorsi pronto, e risposi:
"Eccellenza, e' fa presso che un'ora, che il maestro aspetta in anticamera."
E il maestro passò. Don Marcantonio, di cui lo stato peggiorava a colpo d'occhio, con voce rantolosa gli favellò:
"Buon dì, maestro Gioacchino: accostatevi qua... più qua... abbiamo bisogno di una cassa..."
"Eccellenza sì; e per che cosa ha da servire?"
"Per me."
"Capisco, eccellenza, che ha da servire per lei; ma per quale uso, via?"
"Per me... per me... per rinchiudermivi dentro quando mi seppelliranno nella sepoltura di casa."
"Capisco, capisco, una cassa da morto per vostra eccellenza."
"Appunto così; - prendetemi la misura..."
"Oh! non accade; veda, eccellenza, si fanno tutte a un modo."
"Male, malissimo. Per quelli che sono di statura breve come me avanza legno: e da questo spreco vengono aggravati di una spesa, che hanno ragione di non sopportare..."
"Eccellenza, creda, la è cosa che non mena a nulla..."
"Come non mena a nulla, sciupone? Io vo' che voi mi prendiate la misura..."
"Come vuole vostra eccellenza;" - e lo misurò.
"E quanto mi farete pagare questa cassa?"
"A voi nulla, eccellenza; me la intenderò con gli eredi..."
"Che eredi, e non eredi? e sempre con questi eredi. L'erede sono io; i conti l'avete a fare con me: - spendo del mio... vo' sapere io..."
"Non s'incollerisca, di grazia; a volere una cassa andante, con la sua croce nera di tinta buona, e i chiodi di ferro pel coperchio, ci vogliono due ducati come pigliare un pane al forno: questo anno il legno è caro, ne chiedono otto ducati la canna: e se casca un baiocco te lo ripongono in magazzino. Ma per lei bisogna lavorare una cassa nelle regole, di legno noce, e chiodi con la capocchia di ottone, o di argento: converrà eziandio foderarla di panno nero, e metterci sopra la sua brava croce di tela bianca; - però... due e tre fanno cinque, (continuò il maestro contando sulle dita) e dieci quindici, e sette ventidue, trentaquattro... per farla co' chiodi a capocchia di ottone voglionci giusti trentaquattro ducati, e coi chiodi di argento quarantadue..."
"Misericordia! Oh che rovina! oh che rovina, ch'egli è morire!... Maestro Gioacchino, la raccolta..."
"Che dice, eccellenza?..."
"Abbassatevi.....accostatevi.....mi manca la voce: la raccolta è andata male questo anno, e non posso fare così grossa spesa.... poi ho aborrito sempre queste vanità.... e dovete sapere, maestro Gioacchino, che offendono Dio: - una cassa alla liscia, intendete, e adoprerete certi usciali vecchi, che ho giù in cantina; un po' tarlati, è vero, ma per quello che devono servire ne avanza... sono anche un po' spaccati, ma con lo stucco rimedierete ogni cosa: col legno di mio... una cassa liscia.... quanto vi ho a dare?
"Allora mi darà - affare andante... due ducati."
"Col legno di mio?"
"Eh! il legno non fa differenza, la è bagattella."
"Come bagattella? Non avete detto pocanzi, che il legno costava un occhio?... bugiardo... bindolo... andate via."
"Don Marcantonio, non ci guastiamo su l'ultimo: ho avuto l'onore di servirla sempre in vita, e intendo servirla anche adesso in punto di morte... col legno di suo vada per un ducato e mezzo."
"Orsù, come vuole; darà da bere agli uomini..."
"Ci è l'acqua paola... Io non posso accompagnarvi in cantina: frugatemi qui sotto il capezzale, prendete il mazzo di chiavi grosso... bene... quello... mostratemi le chiavi, non quella lì... quell'altra accanto è la chiave della cantina: badiamo di lasciare stare l'altra roba; quando entrerete e quando uscirete tenetevi davanti agli occhi il comandamento di Dio: non rubare: ricordatevi, che questo comandamento è uscito proprio da lui sul monte Sinai, e bisogna crederci... Voi troverete gli assi nel canto a man dritta appena entrato... hanno ad essere quattro... fate, che ne bastino tre... qui si parrà la vostra maestria, ed io non rifinirò mai di raccontare le vostre lodi, e raccomandarvi agli amici." Il maestro muoveva il passo per andare, quando don Marcantonio incominciò a stralunare gli occhi, torcere la bocca, e volgere il collo come se gli svitassero il capo; le mani attratte a uncini agitava, le agitava in guisa di naufrago, e prima di perdere conoscenza affatto, gridò:
"Ahimè! muoio... Orazio... don Luca, muoio... maestro Gioacchino, tre usciali bastano... i chiodi... ah! adesso me ne sovviene... ci ho anche i chiodi giù in cantina... dite... quanto mi defalcate dal prezzo co' chiodi di mio...?"
Don Luca gli fece apprestare l'esequie magnifiche; immensi ordinò i suffragi per l'anima sua; e quando il cadavere fu tratto al sepolcro egli volle reggere un lembo del tappeto. Ripiegato come sotto un peso che non potesse sostenere, andava a capo chino, a balzelloni, versando dirottissimo pianto40.
A quanto sembra però monsignor Taverna, che fu governatore di Roma in quel tempo, e credo che anche adesso lo sia, non si lasciava punto intenerire da coteste lacrime: imperocchè messo in sospetto dal numero spaventevole delle morti avvenute in casa Massimi, prese a ricercare sottilmente il successo, ed in breve gli venne fatto di accumulare tanti e tali indizi a carico di don Luca, che di subito ordinò alla Corte ponessegli le mani addosso, e lo menasse nelle segrete. Innanzi di scendere nel cortile dove lo aspettava la carrozza, impetratane licenza dagli esecutori, i quali trattandosi di persona di alto affare procedevano urbanamente verso di lui, mi trasse da parte, e a voce sommessa mi disse:
"Orazio, fa' di aver cura degli arnesi miei, e tienli forbiti tanto che io torni. Che cosa vonno sapere da me questi gaglioffi? Tu, Orazio, mi hai armato, e fatato cavaliere della corda. A rivederci. Orazio."
"A rivederci presto: e degli arnesi non dubitate" - e gli baciai la mano.
Ora giudicate voi quali fossero la mia meraviglia e il mio spavento, quando nel giorno appresso, verso l'un'ora di notte, venni chiamato in Palazzo, dove mi fu detto essere aspettato al carcere di Tordinona dal marchese don Luca mio padrone, il quale prima di andare a morte desiderava parteciparmi i suoi ultimi comandi! - Stetti per diventarne pazzo, e dubitai su le prime ch'e' fosse un rezzolone, come sanno trarne questi uomini di corte, per pescare; ma per questa volta presi errore, dacchè subito il Bargello mi licenziò. Corsi a Tordinona, e trovai don Luca seduto in sembiante nè lieto nè tristo, che tranquillo in atto e in sostanza, se non pareva di venti anni invecchiato, e tutta la sua faccia aveva colore di avorio antico. Poichè gli ebbi baciato la mano, ei mi fece cenno ch'io gli sedessi di contro; nella qual cosa avendolo obbedito, attesi ch'egli mi favellasse; ma considerato come distratto di pensiero in pensiero ciò non curava od obliava, ruppi io primo il silenzio dicendo:
"Ahimè! riveritissimo padron mio, che novelle sono elleno queste? Che cosa sono gli ultimi comandi di cui mi hanno tenuto proposito? Come non vi ha giovato nulla lo esercizio della colla? E gli squassi, e i piombi, e le strappate?"
"Anzi, rispose egli, giovarono moltissimo, che meglio non potevano fare: per bene otto volte sostenni il tormento accompagnato da squassi di tale maniera, da stiantare la campanella del soffitto: alla fine mi sciolsero, e il Giudice considerando come le impugnative sostenute con la prova della corda avessero virtù di cancellare agli occhi della legge ogni indizio raccolto, riferitone prima a monsignor Taverna, decretò essermi purgato da ogni sospetto ordinando la mia immediata scarcerazione: ma non sì tosto ebbe costui scritto e suggellato il decreto, e appunto in quella, ch'egli stava per consegnarmelo, non senza grandissime congratulazioni della prova da me sostenuta in pro della mia innocenza, ecco invadermi irresistibile il furore di confessare accusandomi delle tante commesse scelleratezze. Invano mi adopro tenere chiuse le labbra, invano stringere i denti, invano mordo perfino la lingua, e con ambo le mani mi abbranco le mascelle; tempo perduto! - Una forza feroce mi torturava dentro, e mi costringeva a confessare i miei misfatti a parte a parte come si usa al capezzale della morte. Raccapricciava il Cancelliere nello udire, ed a me pure correva un brivido per le ossa in raccontare quante povere anime con la maligna virtù dei miei veleni avessi traboccato all'altro mondo senza sacramenti. Ora io pensava tra me: e perchè mai mi resi micidiale di tanti cristiani battezzati? In verità non lo so. Odiava io forse gli uccisi? mai no: veruno odiava, anzi qualcheduno fra essi amava. Mi avevano per avventura offeso? neanche. Dunque? non ne so niente. Avvelenai il mio fratello maggiore per cupidità delle sue ricchezze? Neppure per sogno: di danari non fui vago giammai; e poi ne possiedo molti, forse troppi, di mio. - Perchè dopo avere sostenuto il tormento, perchè dopo ch'era stato spedito il decreto della mia liberazione mi sono accusato io? Non ne so niente, non ne so niente. Io sono una ruzzola in mano alla fatalità: io vado, io rotolo lanciato dal braccio del destino, io sono condannato a precipitare inevitabilmente; e così dissi al Giudice, e questo dico anche a te, Orazio. La maledizione di mio padre mi tira pei capelli... Guardalo, Orazio... vedi ve'... egli è qui..."
"Chi mai, esclamo voltandomi di soprassalto, è qui?"
"Il clarissimo Marchese di santa Prassede... don Flaminio Massimi... il padre mio insomma. In meno che non fa un'ora egli si è affacciato ben quattro volte sopra la soglia della prigione mostrando pressa, e mi fa cenno di seguitarlo..."
"Per me non iscorgo nulla. E come volete, che si affacci sul limitare se hanno chiusa la porta per di fuori?"
"Chiusa! chiusa! Come se porte e serrami lo potessero trattenere. Signor padre, io la supplico in cortesia a lasciarmi un'ora di libertà; poi stia pur sicuro, ch'io mi darò interamente ai suoi ordini... bene... gran mercè, signor padre. - Or via, Orazio, dacchè il Marchese ce ne dà licenza, torniamo al proposito nostro, e fa di ascoltarmi bene a dovere; avvegnaddiochè tu per te stesso tel vegga, il tempo stringe, ed è lunga la via. Bisogna che tu ti riponga bene in mente come domani a quest'ora la testa mi starà distante dal collo... poco... la grossezza di un ducato... forse anche meno... però quanto basta per non sentire più caldo nè freddo. Così l'anima potesse non sentire più nulla domani mattina, come il mio corpo non sentirà! Riceverò, o ricuserò i sacramenti? Chi lo sa? Io non dipendo mica da me. Se la forza che mi governa si parte dal demonio, posso fino da questo momento affermare di no; ma staremo a vedere..."
"Mio reverito ed onorato padrone, interruppi io, dacchè la faccenda ha preso questa mala piega, che ormai, a giudizio mio, non lascia luogo a rimedio, o come l'alterezza vostra si accomoda a patire tanta infamia? A voi, che pur siete di sottile ingegno, non può davvero mancare un partito capace di sottrarvene... Mi spiego, don Luca?"
"Anche troppo; ma non posso; te l'ho già detto: io non sono padrone di me: quello di che mi avverti mi viene impedito. Vedi, ecco qui il mio astuccio; non mi ha abbandonato: questo è tossico, e quest'altro è antidoto: quattro gocce del primo basterebbero ad avvelenare uno elefante; ma s'io mi provassi recarmi la caraffa alla bocca, il braccio mi ricuserebbe il suo ufficio; o se pure me lo prestasse, il liquore mi si spanderebbe giù pel mento..."
"Ad ogni modo tentate..."
"Ho capito... Tu credi, Orazio, che le sieno fisime di mente inferma: ti assicuro ch'è inutile; ho già provato meglio di dieci volte."
"E sia..."
E' non ci fu che dire: chiuse tenacemente i denti e le labbra; e comecchè io vi adoprassi tutta la forza delle mie mani, non venni a capo di smuovergli i labbri, non che schiudergli i denti: i nervi su le mascelle gli s'incordavano duri più di metallo.
"O Madonna dei dolori! Provate a cacciarvi di un coltello dentro al cuore; - quando sarò uscito di prigione, bene inteso: - se non avete pugnale eccovi il mio, io ve lo impresto volentieri, don Luca; non è da pari vostro, ma l'uffizio suo sa fare quanto un altro..."
"No... no, tienlo per te: io non voglio fuggire al destino; egli è più forte di me; ma io voglio guardarlo in faccia fino all'ultimo, e morire."
"Signore! signore!, esclamai battendomi forte del pugno nel capo; e dovrò io sentire, che una fune pleblea si dia il vanto di avere strangolato il mio nobile padrone come un volgare bandito?"
"Oh in quanto a questo, Orazio, ti puoi consolare, perchè io sarò decapitato con la scure ai termini dei privilegi di cui gode da tempo immemorabile la nobiltà romana: su tal punto ci siamo già messi d'accordo. - Ma io sto novellando teco come se questo non fosse l'ultimo giorno della mia vita, senza averti dichiarato il motivo pel quale io ti chiamai. Porgi attenzione, Orazio, e bada non ti addormentare... - La maledizione di mio padre non si estingue nella morte di don Marcantonio e mia, ma dura sempre viva ed aperta sopra la testa dei miei fratelli, che mi sopravvivono; e quantunque volte io mi faccio a considerare come loro sovrastino destini pari ai miei, un peso di amarezza inestimabile mi si aggrava su l'anima. Quando la maledizione esige le sue giustizie, io fermamente credo che ricovrarsi nelle braccia di Dio non salvi: difatti per saldare l'antica maledizione dell'uomo lo Inesorabile volle sagrifizio di sangue.... nè Cristo supplicando potè ottenere, che il calice senza fine amaro fosse rimosso dalle sue labbra innocenti; - ed io mi sento immensamente colpevole. No, la vendetta strappa la sua vittima espiatoria anche di sotto al trono dell'Onnipotente; - tu, che rimani, vedrai, comunque sia, a me incumbe l'obbligo di tentare d'impedirlo... Consiglio inane, lo so; ma la mia vita non si compone ella di disperati conati? A noi non avanza che la intenzione..... pertanto, Orazio, prendi questo due lettere, e promettimi di consegnarle tu stesso nelle proprie mani dei miei fratelli, Mario e Severo. Il primo io penso abbia a trovarsi qui in Roma; l'altro, comecchè io non ne udissi più novella mai, ha da stare a Vinezia: togli ancora questa marca, e recala al Sagrestano di santa Maria la Minerva, il quale tiene in serbo mille ducati d'oro di mio, e digli che te ne consegni ottocento; questi ti serviranno pel viaggio e gli bisogni che avrai, compreso il saldo del tuo salario con la casa Massimi: parti di essere contento?"
"Magari, mio reverito padrone!" mi affrettai di rispondergli; ond'ei riprese:
"Tanto meglio; e gli altri duecento aggiungerai da parte mia a fra Zanobi, ch'è l'uomo più piacevole del mondo, ch'io li lascio a lui in primis et ante omnia, però che quando si mettono danari in mano ai frati egli è lo stesso che cacciare la pecora dentro al roveto; qualche bioccolo di lana bisogna che si rassegni a lasciarci; e poi perchè ne faccia tante elemosine ai poverelli di Dio: e questo gli dirai che lo credo difficile, ond'io me ne rimetto in lui; - o ne celebri tante messe per le anime di Marcantonio e mia, e questo parmi più facile: o, se meglio gli sembra, gl'impieghi in tante merende e desinari, e questo gli tornerà facilissimo: - però bada ammonirlo, che tutto ciò io gli mando a dire per giuoco, e per sollazzarmi in questi momenti di passione, avvegnadio egli sia così giocondo come religioso e dabbene: e so che non mancherà ai suffragi ch'io gli ho commessi. Orazio, la tua madre vive?"
"Eccellenza no."
"E il padre?"
"Nemmeno."
"Cospetto di Dio! O che sei nato come un fungo?" proruppe impazientito.
"Ah, reverito padrone, io nacqui da un uomo e da una donna travagliati quotidianamente dalla miseria così, che si affrettarono ad uscire da questo mondo come da una stanza senza impannate."
"E figliuoli ne hai mai generati?"
"La villana che corre scalza alla macchia, potrà ella dire qual pruno le ha punto il piede? Nella medesima guisa la femmina, che a me si dette, avrebbe potuto dichiarare da cui rimase piena. Non menai moglie, e mi astenni dalla dolcezza dei figli: la memoria della brutta miseria dei genitori mi dissuase dal perpetuarla nei figliuoli."
"Tu parli di oro, Orazio; io te lo domandava perchè intendeva assicurarmi lo adempimento, che a te commetto delle mie volontà, col terrore della maledizione paterna, o materna; nè quella dei figliuoli deve pesare meno grave, se meritata; - ma bada. Orazio, ti arriverà terribile anche la maledizione del moribondo; - e dove, trasgredendo alla promessa sacra, tu mancassi di consegnare queste mie lettere ai miei due fratelli, Orazio, fino da questo momento io ti maledico..."
"Eccellenza, oh! non mi parlate così, risposi io portandomi la mano destra al cuore; voi pensate a morire, ch'io penserò a consegnare le lettere ai vostri fratelli"41.
"Sta bene; or bevi questo bicchiere di vino, e vattene." Io bevvi senza sospetto. Allora come commosso dalla mia fiducia si alzò, e gittatemi le braccia al collo mi baciò in bocca. Povero don Luca! egli mi si era mostrato sempre umano e generoso: io per rispetto non gli resi il bacio sul volto, bensì su la mano, e come la faccenda andasse io non so dire; fatto sta, ch'io gliela bagnai di pianto."
"Orsù, partiti, Orazio: incominciò di nuovo a parlare il mio signore, con quel suono pacato e soave di voce, che gli era consueto prima del casaccio della bella Siciliana: che pensi fare con le tue lacrime? che pensi che sieno le lacrime? Io volli conoscere di che cosa fossero composte, e le trovai formate con un po' di acqua e un po' di soda. Un pozzo di lacrime non crescerà ne diminuirà di uno scrupolo solo il tuo volume pesato dalla Provvidenza nella bilancia del destino: a me poi le tue lacrime fanno quanto il battesimo alle campane: non ch'io te ne sia ingrato, oh! no... fossero tanti diamanti del piviale del Papa io non le stimerei di più. Su, via, Orazio, risparmia gli occhi, che ben ti gioverà averli acuti per quelle maledette scale buie o a chiocciola, che ti hanno menato quassù. - Addio."
E in questo modo favellando mi prese risoluto pel braccio, e mi menò alla porta. Uscii pertanto lasciandolo solo: ma non sì tosto il carceriere ebbe richiuso la porta, che lo udimmo favellare a voce alta, ed anche un cotal po' risentita: onde presi il carceriere ed io dalla curiosità, incollammo. quasi per sentir meglio, le orecchie alla imposta, e senza perdere pure una parola ci venne fatto di raccogliere il seguente colloquio:
"Ma signor padre, via, dove ci ha uomini ci ha modo; e salvo il rispetto filiale, che le ho professato sempre e professo, mi consenta dichiararle, che cotesta sua è una vera vessazione. Oh! che teme vostra signoria ch'io le fugga? - Momento più, momento meno non guasta: le mancherà forse tempo di starsi con me? Non ci dobbiamo trovare insieme per una eternità? E mi figuro che l'abbia ad essere una cosa ben lunga la eternità; da soddisfare eziandio i meglio indiscreti: poteva dunque soffrire in santa pace che mi trattenessi per un quarto di ora con Orazio fuori della sua presenza, come (e questo le dico senza amarezza alcuna, e nè anche per ombra di rimprovero) vostra signoria potrebbe pure chiamarsi contento, che don Marcantonio ed io avessimo espiato la sua maledizione.... Alfine siamo suoi figliuoli noi, ed ella col suo sangue ci ha generati, e le fummo cari una volta. No? - Ella tentenna il capo, ed accenna di no? Non le pare di avere ancora il suo saldo? Vostra signoria di mala morte li vuole dunque spenti tutti? propriamente tutti? Diavolo! Chi mai ebbe a fare con un uomo tanto inesorabile? Po' poi nè anche vostra signoria fu senza peccato; e mettere in casa Massimi per marchesa una femmina di partito e' fu azione, signor padre, da doverne render conto a Dio ed agli uomini. Se il Signore ha messo sopra la bilancia le nostre colpe, non creda già ch'ei non ci voglia mettere anche quelle di vostra signoria. - ed egli imparzialissimo giudicherà. Vi ha qualche cosa, signor padre, che è troppo più potente della sua maledizione, e questa è la misericordia di Dio, nella quale sciolto adesso dalla nebbia della sciagura e del delitto riposo intera l'anima mia...."
"Manco male, che ci si è accomodato!" - pensava io allontanandomi di costà; però che assistere più a lungo a quel vagellare di uomo sano avrebbe terminato col farmi dar di volta alle girelle anche a me.
"Intorno all'anno 1570 viveva in Firenze un nostro concittadino chiamato Vincenzo di Zanobi Sarselli in apparenza buona persona, benchè come dimostrò la esperienza nutrisse nell'ànimo pensieri diabolici; dissi in apparenza buona persona, perchè udii già dire da un vecchio detto Giulio Ruoti, che circa 25 anni sono morì di età di più di 80 anni, che lo haveva molto ben conosciuto, frequentava le compagnie particolarmente quella di San Niccolò, detta del Ceppo, nella quale (per quanto diceva il medesimo Ruoti) il Sarselli mai non entrava se non si poneva in ginocchioni a ginocchi nudi, siccome nelle pubbliche processioni voleva essere quello, che portava il crocifisso; insomma faceva ogni estrinseca, et apparente divozione di pietà, et anco ho sentito da persone degne di fede, ch'egli da giovine si trattenesse in bottega di un mercante d'arte della lana nella quale s'impiegavano in quei tempi le persone civili, e ben nate. Con tale occasione s'intrinsecò familiarmente in una stretta amicizia con un giovane parimente lanaiolo chiamato Matteo di Bartolommeo Santini persona civile, e di buona gente. A questa coppia si aggiunse per terzo un homaccetto di bassa estrazione, il nome e cognome del quale non ho potuto rinvenire, ma persona di mezza tacca, come dire donzello, o servente di uno dei nostri magistrati, o simile; e però dovendolo io più volte nominare nel progresso di questo discorso lo chiamerò lo Incognito. Trovandosi dunque del continuo insieme questo terzetto di amici a cene, a giuochi, in casa di femmine e altrove, sì come in tutte le allegrie di spesa, che essendo eglino poveri compagni non solo con tenue patrimonio, ma piuttosto di quelli, che vivevano con la propria fatica, et industria: questo modo di vivere gli messe nella necessità dopo qualche tempo di pensare, non avendo essi come potessero fare, a valersi di quello di altri per continuare nella loro dissoluta vita. Onde il Sarselli, ch'era tra loro il più vecchio, e di maggiore autorità, una volta, che uno di loro si lamentava di non havere denari disse: a chi ha cervello non mancano mai denari, a me non ne sono mai mancati, e non ne mancheranno ancora a voi, se farete a mio consiglio, et interrogato da loro del modo di trovare con tanta facilità, con la qualità dei discorsi si aperse loro liberamente essere già un tempo, che egli quando in un modo, quando in un altro, industriosamente involando ad altri quello, che gli bisognava non solo per la necessità, ma per le voglie, e capricci ancora, e per mostrare, che ciò non fosse errore, o almeno molto leggero, come quello, ch'era un bel parlatore e pronto di lingua aggiunse a loro il seguente discorso: - Iddio e la natura che fanno ogni cosa bene, e niente operano indarno hanno messo in questo mondo per benefizio, e comodo del genere umano questi beni detti di fortuna perchè chi si ha di bisogno se ne pigli, e quelli, che si hanno più di noi non gli hanno per altro, se non perchè essendo stati più valenti uomini degli altri si sono presi la loro parte, e la nostra, di maniera, che il privarli di qualche particella non è torre loro, ma egli è bene il modo di tornare a riavere qualche cosa del nostro. - Con questi et altri discorsi mettendosi la cattività in ischerno fece a poco a poco sdrucciolare nella infamia et in un mare di scelleraggini quei due poveri giovani, i quali perduto in tutto e per tutto la faccia, e la vergogna assuefacendosi a poco a poco a torre quello degli altri, e passando dalle bagatelle alle cose grandi, e dalle grandi alle maggiori, divennero i più fini ladri del mondo, nella quale perfidia, e mal modo di vivere imperversarono tanto, che tutti alfine, chi in un modo, chi in un altro, si ruppero finalmente il collo. Era il Sarselli tristo, e come tale, considerato quello, che a lungo andare gli poteva intervenire, per armarsi ad ogni colpo di avversa fortuna fece un giorno ai suoi compagni il seguente ragionamento: - Non è dubbio, fratelli, che se i birri non guastassero, quello che abbiamo tra le mani non sarebbe il più bel mestiere del mondo, ma perchè tanto va la gatta al lardo, che ci lascia lo zampino; io stimo necessario per regola di buon governo lo andarci preparando a tutti quei travagli, che noi possiamo verosimilmente incontrare per poterci in ogni caso schermire dai pericoli, che portano seco quell'imprese, che noi giornalmente intraprendiamo, e per dichiararmi meglio voglio dire, che non sarebbe gran fatto, che una volta, o alcuno di noi desse nella rete, o parlasse in prigione; in questo caso bisogna darci ad intendere di avere ad essere trattati con quei rigori, che è solita la Giustizia con i delinquenti, e perchè ho sentito dire, che la corda è la regina dei tormenti, et il più comune et usato mezzo del quale la Giustizia ai serve per cavarne dei rei la confessione dei loro delitti, sarei di parere, che noi sperimentassimo una volta in noi medesimi questa sorta di patimento per potere poi in ogni caso resistere, e salvarci, e quando a voi paja di applicare a questo consiglio, e di metterlo ad esecuzione, io ho un luogo assai comodo e facile in casa mia dove se io non voglio non può entrare altri, che me: qui di notte tempo entreremo provvisti degli ordigni necessari, e senza che nessuno possa osservarci eserciteremo le nostre persone in questo cimento. - Piacque questo consiglio al Santini et allo Incognito et non andò molto tempo, che lo misero in pratica, perchè adunati una notte in casa del Sarselli, che abitava in quel tempo in via Ghibellina in una casetta (credo di certo Menchi) posta quasi allo incontro di via Buonfanti ove era una cantina assai solitaria separata dall'abitato della casa, ov'egli aveva accomodato una carrucola con il suo canape ad una campanella di essa volta, e quindi ritirati loro tre soli a qualche ora stravagante della notte spartirono le cariche facendo uno da Giudice esaminatore, uno da reo, e l'altro faceva da famiglio, e tirava su e teneva il canape al quale il reo era attaccato e sospeso, e così cangiando ogni sera ciascuno di loro lo uffizio toccava una volta per uno a fare tutte le sue parti. Questo esercizio ebbe per alcuno di loro un fine molto diverso di quello, che essi supponevano, perchè osservando il Sarselli, che lo Incognito non reggeva al cimento con la medesima forza, che reggevano gli altri, gridò una notte per la impazienza del dolore mentr'egli lo teneva sospeso per la corda: - calatemi, che io lo dirò - il Sarselli mentre, che a poco a poco lo calava dato di occhio al Santini, il quale faceva da esaminatore, posto che fu lo Incognito in terra fingendo sciorgli le mani dalla fune gliel'avvolse al collo, e con lo aiuto del Santini lo strangolò, e lo avvolsero in un pezzo di rascia, e postolo uno di loro sopra le spalle, e l'altro facendogli scorta, camminarono di buon passo per la via dei Buonfanti, e lo portarono nei chiostri di Santa Croce, ch'è tra la chiesa, e il convento, e corrisponde alle scalere, giacchè la porta di quel chiostro stava in quel tempo tutta la notte aperta, e quivi entrati posero quel cadavere così involto in una delle sepolture, che sono nel medesimo cimitero, e poi serrata la detta sepoltura se ne tornarono alla casa loro con la medesima quiete come se fossero tornati da una cena etc. etc. Arrestati per sospetto, e torturati, Sarselli tenne fermo, Santini confessò, allora anche il primo dopo avere patito nuove torture palesò ogni cosa; - furono impiccati ec." Morbio, Storia del Municipii Italiani - Firenze - pag. 29 e segg.