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Francesco Domenico Guerrazzi
Racconti e scritti minori

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VIII

 

Dove sarà narrato quello che ci si racconterà.

 

Ci sono lettere? - domandò la signora Isabella a Teresa, che le recò secondo il consueto i pochi alimenti di cui ella abbisognava nella giornata.

- Senza lettere.

E la signora Isabella rabbrividì e si fece bianca, indi a poco il sangue le si risospinse alla faccia; il di dentro non le si poteva vedere, ma a giudicarne dalla irrequietezza dei moti parve il bel sereno dell'anima le si rannuvolasse; però di lieve tornò tanto tranquilla ch'ebbe balìa di ripigliare il lavoro, e lavorava di lena, senonchè di tratto in tratto levava gli occhi a mirare l'apertura talora di colta e talora a mo' dell'ago della bussola, che per subita scossa deviato tremando tremando si accosta al polo, e mi bisogna anco aggiungere come il moto della signora Isabella spesso fosse spontaneo e qualche volta no, perchè le pareva udire rumore da cotesta parte, ma levati gli occhi verso l'apertura le compariva fosca come la bocca dell'inferno, onde ella tornava ad abbassarli sopra il telaio irridendo alla speranza che, Dea mansueta o pia, pure tal fiata ha vaghezza di tormentare come una Furia.

E il giorno appresso, vista appena Teresa, la prima domanda, che le volse fu:

- E lettere ce ne sono?

- Senza lettere, rispose Teresa stringendo le labbra, e sollevando entrambe le mani. Per questa volta la signora Isabella portò vivamente la destra al cuore quasi che le fosse stato ferito, e non potè trattenere le lacrime le quali però voltando la faccia verso l'apertura nascose a Teresa.

E l'apertura parve, che avesse senso di pietà, imperciocchè uscita che fu Teresa dalla stanza, ella prese a rischiararsi con luce sempre crescente quasi alba che ceda luogo al sole. Isabella proruppe in un grido, e s'indirizzò a quella parte come... come... oh! sono pure lo zotico uomo a lambiccarmi il cervello in cerca di una similitudine, quando Dante me ne ha fatta una, che qui s'incastona meglio di gemma dentro l'anello, come colomba vola con ale aperte e ferme al dolce nido. Ma che diavolo vuole egli significare questo? La signora Isabella appena affacciata all'apertura caccia uno strido non già di sorpresa, bensì di spavento, e scappa via coprendosi con le mani la faccia. Subito dopo s'intesero uscire traverso la finestra le parole:

- Sono io diventato tale da barattarmi con gli spauracchi, che piantano i contadini in mezzo ai campi di granturco? E fosse anco così, mi dica, signora mia, sarebbe gentilezza a farmelo sapere?

- Ma chi siete voi?

- Non lo vedete? Oh! che avete bisogno di consultare il Dizionario della storia naturale per iscoprire chi sono?

- Come vi chiamate via?

- Orsù, curiosità, il tuo nome è donna; mi chiamo Orazio, e sono zio di Marcello; tutto questo non varrà a trovarmi grazia presso di voi? Mi fuggirete sempre peggio di un coccodrillo?

- Mi scusi, signore, la sorpresa, la paura... e Marcello dove si trova?

- In prigione... Ma Orazio, vedendo che Isabella stava per venire meno, maledicendo la sua bizzarria si affrettò ad aggiungere - ma in casa sua, per ordine mio, e Betta gli fa da soprastante.

- Ed ella è arrivato stamani?

- No signora, arrivai ieri l'altro... e non mi sono mosso un momento dall'apertura, spiando tutti i vostri moti, ed ascoltando tutti i vostri detti...

- Ma questo, signore... non mi pare...

- Non vi peritate; dite addirittura, che non è onesto, ed io vi risponderò che avete centomila ragioni: però se non è onesto io l'ho trovato utilissimo per fare presto e bene. Alla mia età l'uomo pende al sospettoso. Il diavolo, giova rammentarlo, è cattivo perchè vecchio. Adoperando questo spediente non vi recava ingiuria, imperciocchè se vi scopriva lusinghiera vi avrei barattato i vostri cinque franchi con cento soldi; se all'opposto buona e santa donna come vi predicava il nipote, con fiducia piena e larghezza di cuore vi avrei abbracciato, e detto: - "vieni, cara creatura, a questo seno, che gli uomini non hanno potuto o saputo intristire tanto, ch'ei non sappia o possa amare, vieni; dammi una figliuola, io ti darò un padre". Praticando in diversa maniera ci sarebbero voluti anni, e anco sarebbero bastati, perchè, vedi, la esperienza è simile all'avvoltoio di Prometeo; insegna ma divora, e le lezioni ella si fa pagare in moneta di cuore, compie mai il suo corso, anzi quanto più ne frequenti la scuola, e più ti erudisce nella maledetta scienza di sospettare e temere. Ma adesso io, senza che tu il sapessi, da due giorni ascolto perfino i tuoi sospiri, speculo il moto e il colore della faccia, seguito con gli occhi il tuo ago, con te m'inginocchio a Dio, alle tue preghiere mi unisco, poso il mio capo sul tuo guanciale, anzi sul tuo medesimo cuore, e ne sento i palpiti appena nati; - dirò di più... li presento prima che nascano... e da questa intima, indiscreta e disonesta conoscenza di te ne deriva questo, che io ti supplico a darmi una figliuola in te, mentre io ti prometto in me un padre di amore.

Della favella che Dio padre parlò prima ai nostri genitori una parola sola rimase fra noi, e questa parola è perdono, così almeno cantava in poesia il vescovo Isaia Feignez; lo dice egli, e sarà, ma se dello idioma divino ci avanza tanto scarsa reliquia, bisogna dire che ci lasciasse interi il suono della voce e la benignità dello sguardo con i quali l'accompagnava, perchè la Isabella si sentì presa da una dolcezza nuova per cui non poteva fare altro che piangere, ed esclamare:

- Signore! Signore! - Da poi che morì mamma io non le aveva provate più... temeva averle perdute... ed ora le ho ritrovate... queste lacrime.

E non si perdono se pria non perdi l'amore. Chi peregrina pel deserto vede talora smarrirsi per la sabbia il rigagnolo che gli dava coraggio; ma se non cessa l'animo, vada innanzi, che anco in mezzo al deserto rinverrà ombre di palmizii, ed acque dolci, refrigerio della fatica, premio della perseveranza.

Il signore Orazio non piangeva, ma non si attentava a profferire parola, anzi neppure a movere atto, dacchè a mo' di tazza colma fino all'orlo dubitava al minimo urto traboccare ancora egli. Così pertanto muti muti durarono un pezzo, e quando si fu sfogato in entrambi l'ardente affetto, la signora Isabella disse:

- A fine di conto il torto è mio, che doveva sapere come l'uomo di grande ingegno possieda sempre larghezza di cuore; ed invero se lo intelletto è dono di Dio deve significarsi per via di benefizii: ora quale maraviglia se io la trovo, caro signore Orazio, qua! ella è, e quale a me correva l'obbligo di conoscere, ch'ella bisognava che fosse.

Questo la giovane disse proprio col cuore, ma bisogna confessare, che pensandoci una giornata non avrebbe potuto rinvenire piaggeria più piacente e più fina. Grazia gratis data alle donne gentili la è questa di esalare quasi un profumo perenne di urbanità, sia che favellino, sia che sorridano, o guardino, od anco semplicemente si movano. Con le laudi gli uomini vengono propiziandosi le stesse divinità, e veramente paiono divine se da un lato profferte da anime sinceramente consapevoli, e meritate dall'altro; e basta per la lode uno sguardo ed anco una stretta di mano. Quelle fra le lodi a cui possiamo fidarci meno, sono composte appunto di parole; tuttavolta anco in questo, chi se ne intende, vede per così dire palpitare il sangue, e del più puro che scorra dal cuore.

- Questo è discorsino profumato, rispose Orazio, tratto fuori dalla scatola dove le dame tengono i guanti, vera cambiale, che la vanità pagherebbe a vista, e forse anco la modestia non lascerebbe andare in protesto. Ad ogni modo va bene; dunque, figliuola mia, metti le tue robe nella valigia, che nella giornata torno a pigliarti per condurti a Torino dove ti accomoderò pel momento in casa di Orsola mia sorella, una buona donna, che potrebbe essere meglio, ma al punto medesimo centomila volte peggio, e quivi ti starai finchè sposa di Marcello non entri in casa tua.

- Signor Orazio...

- E dai con questo signor Orazio; tu devi chiamarmi zio... e se ti riescisse anco babbo, questo mi darebbe più consolazione...

- Dio sa con quanta pienezza di affetto io vorrei fare il piacere suo, e compire il mio desiderio ardentissimo, ma ella non ignora che mio padre vive, e crederei che... anzi gli recherei torto di certo se mi passassi del suo consenso...

- Mi pare... giurerei quasi che mi fu detto come non sempre tu abbia creduto indispensabile il consenso paterno per andare a marito.

- È vero; e di qui la mia colpa, e il mio castigo; ma tanto danno mi è venuto dal mal fatto, e così lungo il rimorso, e la vergogna incessante, che sarei bene non so se più folle o trista dov'io ci cascassi da capo. Conosco ottimamente che mio padre mi ributterà, e avrà ragione; però se io offesi una volta l'autorità paterna tanto più ho da guardarmi da offenderla la seconda.

- Ed anco questo non fa una grinza, rispose Orazio abbottonandosi il soprabito fino al mento, io vado difilato a parlare a tuo padre, che si chiama...?

- Omobono...

- È nome onesto: insomma, sta lieta, figlia mia, se il tuo padre non vorrà fare torto al nome, e spero non lo farà, avrai due babbi, diversamente uno oggimai non ti può più mancare.

Fattosi insegnare dove avesse banco il signore Omobono Garelli e saputolo, Orazio si condusse in certo vicolo angusto e buio, vicolo da banchieri, vicolo da usurai, dove il sole anco nei giorni di estate pareva che passasse di rincorsa per paura che lo prendessero, e gli tosassero i raggi; entrò dentro un portico umido, umide rinvenne le scale, i muri grondavano: la calce e i sassi tu avresti creduto sudassero dalla pena per gli scannamenti che toccava loro a vedere commettere ogni giorno dentro. Salito al primo piano gli occorse una porta con la imposta tinta colore di cenere, e lurida di materia viscosa al punto dove ponevano le mani gli avventori. Pare impossibile! Da cotesta sozzura cavano argomento i banchieri d'inorgoglirsi quasi altrettanto che i soldati si facciano per la bandiera lacera dal tempo e dalle palle. In cotesto momento la porta del banco del signore Omobono compariva aperta come quella dell'inferno; forse così operavano perchè passasse la grave puzza, che esalano per ordinario cotesti scannatoi, ed era tempo perso per due ragioni: primamente l'odore sottile così si è fitto nelle muraglie, che appena ne uscirebbe se da cima a fondo si scanicassero, e si rintonacassero poi; in secondo luogo, ammonizione di odorato, di altro senso, e di tutti i sensi messi insieme varrebbe a trattenere l'uomo da penetrare dentro. Mira il bue quando va al macello: egli nicchia, il poveretto, su la soglia, e punta la zampa, e s'ingegna a dare indietro, ma che gli vale? La corda lo tira, e reluttante o no la mazzuola lo aspetta: ora la cupidità e l'interesse tirano gli uomini più e meglio, che la corda non tiri il manzo.

Parte della prima stanza del banco del signore Omobono andava divisa al pari di tutti gli altri banchi da un assito, dietro il quale ruggiscono dalla fame quasi bestie feroci i commessi registrando i divoramenti nel libro maestro del principale, mentre il diavolo per di sopra le spalle loro ne piglia nota nel suo iscartafaccio per trasportarli a comodo sul gran libro maestro dello inferno: Orazio alzati gli occhi per mirare, che razza di cielo coprisse cosiffatte spelonche, incontrò depositate su certe tavole, casse colore di cenere col millesimo e la cifra del banchiere tinti in nero, onde non potè astenersi da pensare ai sepolcri dei Parsi, i quali costumano mettere in alto i cadaveri dei defunti; quantunque tra i sepolcri dei Parsi e queste casse mortuarie una grandissima diversità ci corresse, la quale era questa, che i Parsi ci mettevano i cadaveri, affinchè gli avvoltoi ne divorassero le carni, mentre in coteste casse gli avventori ci erano depositati ormai ridotti alle nude ossa. Di un tratto uno dei commessi affacciò il muso fra i colonnini, che incoronavano lo assito dentro il quale egli stava rinchiuso, e aperta la bocca guarnita di denti rari e acuti, veri lesine di osso, disse ad Orazio:

- A lei, si diverta.

E al punto stesso gli gettò un foglio sul quale volgendo lo sguardo egli conobbe essere la nota del ragguaglio dei cambii tra piazza e piazza; però la rese subito, onde il commesso gentile volendo divertirlo ad ogni modo gli dette il prezzo corrente delle derrate, che si vendevano sul mercato. Orazio alzò la mano, e involontario fece l'atto di cui si scaccia una mosca dal naso, ma non gli giovò, che un sensale accostatoglisi gli disse in aria di mistero:

- Se vostra signoria ha da impiegare partite di danari, io posso proporle un negozio magnifico; un mio avventore si disfarebbe di dieci, ed anche di venti, volendo ancora di trentamila fiorini di rendita austriaca... creda, mio signore, che ci è da realizzare alla liquidazione in fine di mese un brillante benefizio... e tanto di colta mi riesce simpatica la sua fisonomia, che renunzio verso di lei alla mia mediazione.

- Grazie! non ho moneta a dare.

E considerando che costui si accingeva ad insistere, per tagliare corto rispose:

- Anzi vengo per prenderne.

Allora costui fece greppo come i fanciulli quando vogliono piangere, e senza pure salutare si allontanò. Subentrava un altro mezzano, che trattolo in un canto gli bisbigliò dentro le orecchie:

- Sono incantato di vederlo scapolare dalle mani di cotesto imbroglione giallo di fuori, e nero per di dentro; un rinnegato, sa ella?... un vero traditore della Italia: noi intendiamo servirla da patriotti, e gratis, ci s'intende, come usa tra patriotti. Se desidera noi possiamo provvederla di fondi piemontesi quanti desidera, sta in suo arbitrio scegliere: ce n'è del 1819, del 1831, del 34, del 48, del 49, del 50, del 51, del 60, del 61, ed altri se ne vuole. Negozii serii, negozii solidi, e per sopra mercato patriottici: perchè la patria, veda, mio signore, è tutto. Senta, e qui la voce già sì sommessa affievoliva fino al susurro: ci ho anco un altro negozio meno serio, in vero, e più rischioso, ma chi non risica non rosica... io non le sto ad accennare anco gli utili che ne deriveranno perchè si sperano superiori ad ogni previsione, e a dirne solo mezzi temerei incorrere nella taccia di esagerato... io che ho nome di positivo! Bisogna però aspettare che la Italia sia tutta libera... tutta unita... in una parola posso servirla delle cartelle dello imprestito Mazzini...

- Mi duole veramente, rispose Orazio, ch'ella abbia preso un granchio che le morderà le mani, perchè ha da sapere che io sono uno ispettore di polizia venuto di fresco da Venezia, onde in nome di sua maestà cattolica...

- In questo caso sono lieto di essere dei primi a fare la conoscenza del mio superiore, poichè mi trovo onorato di servire...

- Da spia?

E l'altro gli stette davanti nell'atto della parentesi che chiude il periodo; poi fatto un risolino da jena quando ha disotterrato il cadavere girò sui calcagni, e andossi con Dio, o piuttosto col diavolo.

Partito quello, eccotene un altro; e poi gli uomini hanno il coraggio di dire fastidiose alle zanzare. Questo si pose innanzi tratto a screditare, secondo vuol ragione, gli altri due, e i negozii che proponevano; egli si esercitava al collocamento di azioni industriali; ne aveva di ogni maniera, strade ferrate di tutto questo mondo, e credo qualcheduna eziandio dell'altro, di ferriere, di cartiere, di gassi, di conce, di saponiere, di bigattiere, di gualchiere, perfino di fabbrica di pallottole di giaggiuolo per mettersi dentro ai cauterii, insomma un diluvio; e se una era buona, l'altra non canzonava. Orazio se lo levò dintorno confidandogli a muso tosto che anch'egli veniva per proporre al signore Omobono di pigliare parte alla impresa di estrarre l'olio dai gusci delle chiocciole. Rimasto solo, Orazio si volse a considerare il via va e il via vieni dei miseri montoni, che entravano nella spelonca di Polifemo; quinci udivansi belare prima in suono di stizza, poi in suono di pianto; per ultimo tacevano, ed indi a poco si vedevano uscire tosati fino alla pelle; parecchi grondavano sangue, e ad onta di ciò pareva che avessero per bazza di non averci lasciato la carne e l'ossa.

Quando venne la volta di Orazio, egli entrò, e secondo gli dettava la sua indole già si poneva a inventariare ogni arnese della stanza, ma non gliene concesse balìa il signore Omobono, il quale con voce arrotata gli disse:

- Che volete?

Orazio allora gli ficcò gli occhi dentro gli occhi, e glieli vide neri e lustri così, che parevano fatti davvero di bitume giudaico: giallo nella faccia con la barba verde pari a lucerna di ottone, la quale per difetto di pulitura abbia preso il verderame: altre cose avrebbe egli considerato, ed altre ne riferirei io, se il banchiere insistendo non avesse replicato:

- Sbrigatevi, il tempo è moneta; che volete?

- Avrei da parlarvi...

- Si capisce... e vi ascolto.

- Da parlarvi di affari gravi...

- O gravi, o leggeri spero di poterci attendere, se ci troverò il mio utile senza ricorrere ad altri.

- Però vi avverto, che non spettano al banco, bensì alla famiglia...

- E li chiamate gravi?

- Mi pareva che la famiglia dovesse premere...

- Avete creduto pessimamente; prima di tutto bisogna attendere agli affari. Chi prepose agli affari le altre faccende capitò male, e Archia informi, che ne rimase morto. Dunque adesso non posso distrarmi dai miei negozii; stasera alle sette e trentacinque minuti vi attendo a casa; informatevi in banco dove sto di casa, colà udrò quanto avrete a parteciparmi: addio.

E mosso due o tre passi di contro al signore Orazio, egli piegò bruscamente il capo a mo' di montone che si apparecchi a cozzare; il signore Orazio per non ricevere la capata nel petto ebbe a indietreggiare; il signore Omobono quanto l'altro cedeva terreno, egli ne acquistava sottentrando veloce, e rinnovando lo inchino minaccioso, sicchè da un lato dando indietro, dall'altro incalzando, il signore Orazio, sbalordito, senza quasi accorgersene si trovò spinto fuori della stanza del banchiere. Orazio, comecchè gli paresse duretto, si erpicò per le quattordici scale, che menavano alla casa della signora Isabella, e quivi con esso lei si trattenne consolandola fino a sera.

Monsieur Horace Magni, gridò un servo vestito di assisa celeste coi calzoni corti e calze di seta sollevando una portiera di velluto cremisino, e Orazio si trovò petto a petto del signore Omobono: visto appena ch'ei l'ebbe, disse nel suo segreto: quantum mutatus ab illo, come Enea quando gli apparve Ettore in sogno; però il signore Omobono era mutato in meglio, il rasoio aveva se non tolto, almanco diminuito l'odiato verde della barba, e la fama dell'uomo che stava per entrare gli aveva sospinto verso le guancie una sfumatura di vermiglio, che gli uomini intendenti delle varie qualità di rosso use a comparire sopra le guancie dell'uomo avrebbero battezzato per un crepuscolo della vergogna: forse di ciò era niente, e lo si doveva attribuire piuttosto all'agitazione che il pasto suole mettere nel sangue; ad ogni modo un di rosso su la faccia ei ce lo aveva, la sua fisonomia arieggiava alla lontana quella della sua figliuola, io mi figuro come Lucifero san Michele, però che a fin di conto eglino erano fratelli, e tutti figliuoli del medesimo babbo; e ciò tanto più di sicuro in quanto che il padre gli avesse creati tutti da senza lo aiuto; di altra creatura, e, tranne i suoi, senza miscuglio di altri ingredienti. Il signore Omobono con perfetta urbanità accogliendo Orazio così favellò:

- Mi sento lieto ed onorato di ricevere nelle mie povere case (e qui girò intorno gli occhi come per incumbensarli di fare lo ufficio di Cicerone in cotesta sala riboccante di lusso insolente), un uomo che pel suo ingegno e per le sue virtù empie di giusto orgoglio la Italia.

Non si poteva dire cosa più tronfia, e poi venne accompagnata da tal suono di voce, che parve cugino a quello che adoperano i ciarlatani in fiera quando vendono l'orvietano ai contadini, onde Orazio un po' rotto rispose:

- Io non credo, mio signore, io non credo che sieno in me le belle cose, che voi vi compiacete immaginare: ma quando anco per supposto ci fossero non meriterebbero lo elogio che, mercè vostra, mi compartite; non lo ingegno perchè viene da Dio ed ei lo impresta agli uomini; non la virtù perchè è dovere: il galantuomo pare bestia rara soltanto nel paese dei ladri.

E di questo discorso la metà era anco troppa per mandare a male un trattato ottimamente imbastito; figuratevi il nostro non anco incominciato.

Omobono di subito annuvolatosi, dopo avere accennato a Orazio che sedesse, si assettò pure egli, e soggiunse:

- Signore, apprenderò volentieri la causa alla quale devo l'onore della vostra visita...

- Voi avete una figliuola...

- Io? no.

- Come! non avete una figliuola, se me lo ha detto ella medesima?

- In questo caso ella ne sa più di me... e può darsi che i figliuoli in fatto di derivazione conoscano più addentro che i padri possano ragionevolmente affermare.

- Questo è un discorso fuori di squadra, sbieco addirittura. Non aveste moglie?

- Io l'ebbi.

- E non l'amaste viva?

- L'amai con tutto il cuore.

Orazio all'udire la parola cuore sopra le labbra di Omobono gli vibrò uno sguardo di sotto in su che parve una sassata.

- Ed ora morta l'odiate?

- Anzi l'amo due cotanti di più.

- E perchè dunque vi attentate oltraggiarne la memoria?

- Signore, voi avete moglie?

- Non l'ebbi mai.

- Ammogliato capireste a volo quello che scapolo non intenderete anco coi commenti. Due sono i giorni dolcissimi della vita maritale; il che la sposa entra in casa co' suoi piedi, e l'altro che n'esce portata in quattro. Comprendereste eziandio di un tratto come tre via dodici fa trentasei, che si può nel matrimonio dubitare di parecchie cose senza offendere la fama dei vivi, la memoria dei morti, e anco a scapito dell'affezione che i coniugi hanno a conservare tra loro.

Al signore Orazio parve bene affrettarsi a uscire fuori da cotesti ragionamenti come da un sentiero melmoso; epperò ricondusse il discorso sopra la signora Isabella.

- Dunque voi avete una figliuola?

- Io la ebbi.

- La quale per sua somma sciagura provocò il vostro sdegno...

- Sdegno! no; vi paio sdegnato io? Ella tolse marito senza il mio consenso, ed ella se lo tenga.

- Il suo marito è morto.

- Sì, mi pare che qualche cosa come di morte mi venisse all'orecchio.

- Ve lo scrisse ella medesima e ve ne chiese perdono.

- Perdono! Col domandare perdono, caro mio, non si salda la offesa meglio che con la volontà di pagare non si saldi il debito.

- E la vostra figlia ha bagnato con le lacrime il pane del suo pentimento; ella ha patito la fame, ella per iscaldarsi le dita, per continuare il lavoro notturno non ha avuto altro calore, eccetto quello del proprio fiato... miserie che l'animo viene meno a riferire soltanto... perdonate, signore, al vostro sangue.

- Io non perdono mai.

- Oh! non lo dite: pensate che guai a me, guai a voi se un fosse risposto a noi altri in quel modo! Che abbiamo noi a offerire a Dio in espiazione delle nostre colpe se non il pentimento? Che può meritarci la salute dell'anima nostra se non il perdono di Dio?

- Già! sta in chiave; il diavolo quando invecchia si fa eremita. Voi siete diventato beghino; ho indovinato?

- Io mi professai sempre cristiano; ed ho creduto di favellare con cristiano: avrei per avventura sbagliato?

- O che vi siate apposto al vero, o immaginato il falso non fa il caso; questo tenete per fermo, che il pentimento di cotesta donna non mi muove; circa al perdono le tornerà più facile ripescare una spilla caduta nel naviglio grande, che ricuperare la mia grazia; la miseria è pena condegna alle sue colpe.

- Ed anco colui, che avesse consigliato questa colpa a danno degli altri, credete che avrebbe diritto di mostrarsi tanto implacabile? Tu sarai misurato con la tua misura, lo dice il Vangelo.

Ogni vermiglio scomparve dalle guancie del signore Omobono, che ridivenne tutto giallo; tacque alquanto: poi con voce repressa riprese a dire:

- Signore, posso servirvi in altro?

- Io era venuto principalmente per questo, ma non solo per questo. Dovete sapere che io ho un nepote...

- Me ne congratulo con voi...

- Questo nepote mi amareggiò co' suoi trascorsi la vita.

- Me ne dolgo con voi. E voi lo avrete senza dubbio maledetto!

- No signore, l'ho perdonato.

- E' sembra che siate di facile contentatura.

- Non tanto; io l'ho punito, e nel punirlo ho pensato come del suo fallire parte n'era colpa egli, parte il bollore del sangue giovanile, parte il reo costume e i tempi perversi, e parte io.

- Voi?

- Sì, signore, per colpa mia, perchè non essendo sortito alla dignità di padre non ebbi in dono l'arte di prevenire o di provvedere, d'insinuarmi nel cuore, e d'ispirare riverenza; insomma o non volli o non seppi esercitare tutte le qualità di padre: questa, e non altra è la mia parte di colpa. Però come a parte della colpa io mi offersi a parte della pena; e se abbia sofferto nella trepidazione di morire privo di uno del mio sangue che mi chiudesse gli occhi, Dio, che tutto vede, lo sa. Quanto al nipote deliberai, che se un giorno mi tornasse pentito, e corretto io gli avrei aperto le braccia come se non avesse mai errato; la Provvidenza mi ha benedetto con questa grazia, e la mia anima ne ha sentito un giubilo tanto grande, che pari, io penso, non avrei mai provato, se il mio nepote non si fosse mai dipartito dal retto cammino: e qui devo dirvi, che rimase piacevolmente umiliata la mia presunzione, perchè io opinava che la parabola del figliuol prodigo andasse un po' carica di colore, parendomi strano, che il padre avesse più gioia del figliuolo colpevole e pentito, che dell'altro rimasto perfetto; ma a prova ho conosciuto che Gesù Cristo in questa come in ogni altra cosa ha ragione - sempre ragione.

- Tutto ciò è bello, e se volete anche sublime; quanto a me, scusate, io l'ho per barocco, che mi sarei aspettato stasera piuttosto farmi frate, che udire discorsi così garbati e religiosi, massime dal signore Orazio, che gode per le cinque parti del mondo riputazione di empio, ed io credeva, vi chiedo scusa da capo, non affatto demeritata. Però come in tutto questo entri io veramente non so vedere.

- Eccoci alla stretta; con un po' di pazienza, non dubitate, tutti i nodi arrivano al pettine. Mio nepote bandito dalla casa paterna venne a Milano, qui conobbe Isabella. In grazia di questa cara creatura io ringrazio il giorno e l'ora, che lo mandai fuori di casa; dacch'è sua mercede egli ritorni il più degno figliuolo, e utile cittadino, e perfetto gentiluomo, che si potesse mai desiderare.

- Se altri, che voi mi venisse a contare di questa sorte novelle, io terrei, che si pigliasse gioco dei fatti miei; che Isabella fosse un fiore di virtù me n'era accorto anco troppo, ma che fosse diventata una via del paradiso non me lo sarei a mille miglia aspettato; tanto meglio; pigliatevela per voi, fatela rilegare in marocchino, dorare nelle intestature, e tenetevela su lo inginocchiatoio per vostro uso quando vorrete dare innanzi un passo sul cammino della perfezione.

- Il giovane prese ad ammirarla (continuò a dire Orazio senza badare alle canzonature di Omobono) come cosa santa, e voi sapete, o forse non lo saprete, e ve lo dirò io: nel cuore dei giovani l'ammirazione trapassa presto ad un sentimento più tenero, e mio nepote amò vostra figlia. Ora, ed anco questo è di natura, le donne gentili di leggieri rimangono prese pei loro convertiti, ed anco

 

Amore a nullo amato amar perdona,

 

ha detto il massimo dei nostri poeti, che si chiama Dante, come voi avrete qualche volta sentito dire; insomma i giovani si amano, e si vorrebbero congiungere in matrimonio; circa al mio consenso io lo do col cuore e con la lingua, e se potessi con tutti i sentimenti dell'anima e del corpo, ma ciò non basta; la figlia vostra per dovere, noi altri per convenienza, imploriamo il vostro.

Io protesto solennemente di non avere mai visto il diavolo, e ormai vivo sfiduciato di vederlo; però mi immagino, che egli avesse a ridere come il signor Omobono rise alloraquando un santo casca in tentazione; di fatti balenando un lampo di malignità esclamava:

- Ella è una dote, mio rispettabile filosofo, che voi siete venuto a uccellare?

Che Orazio fosse filosofo lo diceva la gente, quanto a lui non ne sapeva nulla, bensì sapeva che veruno gli aveva detto una ingiuria in faccia impunemente, sapeva che in gioventù aveva avuto le mani più lunghe delle parole, ed anco adesso in età matura non gli erano diventate più corte: sentì pertanto farsi un tuffo il sangue, in volto diventò livido, e sbalzò dalla seggiola co' pugni stretti, ma di repente gli si affacciò alla mente la immagine di Isabella, la quale pari alla stella del mare che al suo apparire abbonaccia la tempesta dei venti, ebbe virtù di placare su lo istante la collera di Orazio; ond'ei tornò a sedersi, e quando gli parve essere abbastanza padrone di si levò da capo, e pacatamente disse:

- Voi vi siete ingannato, signor Omobono - e la prova è questa. - Qui si trasse dal portafogli due scritture in carta bollata, le quali porgendo al signore Omobono, soggiunse: - piacciavi leggerle, e siatemi cortese di serbare l'una e rendermi l'altra firmata da voi.

Omobono prese la prima, che gli veniva porgendo Orazio, e lesse:

"Io sottoscritto in contemplazione del consenso, che il signore Omobono Compagni al matrimonio della sua figliuola signora Isabella col mio nepote Marcello dichiaro di mia propria volontà di rilevare il prelodato signore Omobono Compagni da qualunque domanda di dote o di alimenti potesse in ogni tempo essergli mossa dalla sua figlia signora Isabella, obbligandomi di certa scienza, e libera volontà, di costituirle l'una, e provvederla degli altri col mio patrimonio..."

- Egregiamente! ci è la sua brava firma, la recognizione del Notaro, il tutto in regola. Signore Orazio, voi siete una perla di uomo. Ma perchè dunque non me ne avete parlato in buono? Questi sono affari, anzi affaroni; così Dio volesse, che ogni giorno me ne capitassero dei simili...

- Leggete questo altro.

"Io sottoscritto Omobono Compagni desideroso di annuire alla richiesta, che mi muove con rispettosa sommissione la mia figliuola Isabella, presto ad ogni fine ed effetto di ragione il mio consenso affinchè conduca per suo legittimo sposo il signor Marcello del fu Giandonato Magni possidente domiciliato a Torino; e detto mio consenso accompagno con la mia paterna benedizione, e con gli augurii della loro prosperità..." Per eccellenza! augurii e benedizioni a carrate, purchè non si tirino fuori quattrini.

Chiamò il servo, e gli ordinava portasse il calamaio; il servo glielo recò sontuosissimo di argento dorato, forse da calamaio di argento uscì mai inchiostro per firma così turpemente abbietta, e avaramente snaturata. - Resa la carta, il signor Omobono inchinatosi disse ad Orazio:

- Posso servirvi in altro, signore?

Ciò fu profferito col più bel garbo del mondo e con voce da disgradarne le melodie dell'arpa eolia, e non pertanto tradotto in lingua volgare significava così:

- Levatevi dinanzi agli occhi miei, che voi m'avete fradicio; forse anco peggio.

Orazio accennò col capo non avere altro, e rizzatosi in piedi, preso il cappello, salutava e partiva. Omobono, o sia che l'allegrezza di essere liberato dal fastidio di dotare ed alimentare la figliuola lo levasse di sentimento, o sia come credo piuttosto per istrazio del signore Orazio, recatisi in mano due doppieri, e quelli incrociati lo precedeva rischiarandogli il cammino fino alle scale. Se fu suo disegno di dare la berta ad Orazio, bisogna dire, che ne rimase scottato fino all'osso, imperciocchè questi fingendo di stare sopra pensiero non mostrò accorgersi dell'atto servile, glielo lasciò compire fino all'ultimo, e sul punto di congedarsi tratto fuori la mano di tasca gli porse uno scudo; senonchè qui facendo le viste di rientrare in , disse:

- Oh! perdonate, vi avevo scambiato per un servitore.

Onde, come vedete, dall'una volta che si erano visti e trattenuti insieme questi due uomini avevano cavato argomento di detestarsi per due vite lunghe come quelle di Matusalemme.

E' non ci ha dubbio; quello che era avvenuto fra il signore Orazio e suo padre umiliò profondamente la signora Isabella, l'afflisse, la fece piangere, ma per ultimo tanto più si persuase, che sarebbe un mostrarsi ingrata alla Provvidenza se ostinandosi a proseguire un affetto che la respingeva, non avesse accolto due cuori, ch'ella nella sua misericordia le mandava.

Epperò alla dimani Isabella in compagnia di Orazio se ne andò a Torino: colà rompendo gl'indugi, in breve ora venne apparecchiata ogni cosa necessaria a celebrare l'atto del matrimonio. Orazio secondo lo persuadeva la sua natura bislacca, nello accompagnare in chiesa il nipote gli andava susurrando dentro le orecchie:

- E va in regola, ti ho cavato di prigione per menarti al patibolo.

Io vorrei porre qui una similitudine, ma pendo in sospeso se la metto o non la metto, però che dubiti forte di sentirmi sgridato dai maestri miei, i quali mi appunteranno di certo, che male si accorderebbe con la semplicità dello argomento; ora però che ho pagato la gabella al giudizio dei maestri miei mi avventuro a porla.

Come l'ape immersa nel calice dei fiori attende alla dolce fatica immemore del sole che si leva o che tramonta, così questi miei personaggi chiusi negli affetti domestici per un tempo non curarono sapere, anzi non pensarono anco se il mondo durasse tuttavia fuori di loro. E' fu una vita tutta baci, tutta risi, e se piansero, ell'erano lacrime di celeste voluttà; rugiada divina, che raddoppia il profumo delle gioie dell'anima! Taluno ripiglia l'uomo felice di avaro, perchè nasconde il tesoro della sua contentezza: veramente così l'uomo quando è infelice espone indarno agli sguardi altrui il fascio delle proprie miserie, che non è giusto accusarlo di serbare la sua gioia per . E bisogna anco dire che il felice accomunerebbe le più volte invano le caste gioie dell'anima; imperciocchè un cuore non senta dolcezza di altro cuore, che sia, se prima di tutto non si disponga alla grazia di Dio: allora egli vi sparge con mano benefica il seme della pace, e ne lascia intera la messe ai suoi figliuoli in caparra di quella infinita che serba loro nei cieli.

Due anni trascorsero, e non si vedeva comparire frutto da cotesto matrimonio: per quanto un volto umano può prendere la somiglianza di un punto interrogativo, la faccia di Orazio domandava ora a questo, ora a quell'altro sposo: ed ora che figure sono queste? La faccia sola però interrogava, che quanto a lingua anzichè farla parlare se la sarebbe svelta. Ma anco qui vennero consolati, ed un bel giorno Isabella gittandosi in grembo allo zio, e nascondendo la faccia nel seno di lui le susurrò sommesso, nelle sue viscere agitarsi una creatura. Orazio le cinse con mani tremanti il capo e lo baciò attorno attorno, esclamando:

- Fossero stelle io te le darei del pari, e del pari te le meriteresti, figliuola mia. Grazia del cielo e tua mercede hai messo il colmo alla tua perfezione di donna: perchè che cosa è mai una donna senza prole? Per leggiadra ch'ella sia, e di costumi santi, e amorosa, parrà sempre un fiore senza odore. La donna senza prole somiglia alla camelia; questa superbisce nella pompa delle sue foglie bianche, o vermiglie, o incarnate, o variegate; si profferisce a tutt'uomo, bazzica le liete brigate, frequenta i festini, folleggia e muore senza compianto come senza memoria; fiore di baccanale! fiore da femmina senza vergogna come senza figliuoli! Perano le camelie! Ma la donna giocondata di figliuoli è pari alla rosa, che lieta dura su la spina nativa quivi educando i suoi bottoncini, e allorchè il tempo l'avvizzisce lascia le sue foglie rimedio ai mali, sollievo ai sensi ottusi, sicchè sovente quanto più il verno si discosta, dalla dolce stagione la rosa ti manda all'improvviso un saluto di odore, che ti ricrea il corpo, e ravviva l'anima richiamandola ai della primavera, a quelli della gioventù, primavera anch'essa, ma che passata una volta non si rinnova più! Non importa; purchè si rinnovi nei figli o discendenti nostri, ben venga la memoria della irrevocabile primavera. Vi ha chi rinfaccia lo studio di procreare nipoti, e lo calunnia come istinto di animo vanitoso o superbo; le sono grullerie per non dire peggio, Isabella. Innanzi tratto la creatura umana propagandosi salda il debito di riconoscenza a cui le dette la vita; inoltre esercita a benefizio dei figli le cure di nutrirli e allevarli, che i genitori esercitarono in pro suo, e come chi si versa in cose matte diventa iniquo, all'opposto chi si trattiene fra cose buone riesce buono; il cuore nostro, Isabella mia, vedovo di affetti è una lira senza corde, uno anello senza pietre e comecchè si possa amare scevri del fine di procacciarsi figliuoli, questo amore come ispirato più dalla Venere terrena, che dalla celeste, o dietro lascia amaro, o per lo manco passa senza traccia di dolcezza; perchè se amore non si trasforma muore; egli dura immortale se a mano a mano ch'ei muda le penne terrene si circonda di raggi attinti alla fiamma dell'anima. Tu come donna leggiadra potrai scadere affaticandoti nelle cure materne nel desiderio del tuo marito; non isgomentarti; per dieci, che tu perda a questo modo, acquisterai cento di riverenza e di adorazione come madre. Per ultimo la creatura umana riproducendosi risponde allo scopo della creazione: vuol egli sedere a mensa, e non contribuire alla spesa? Non vanità superbia ci hanno a movere nello studio di procreare figliuoli; bensì la idea di non morire intieri. La vita è una battaglia; da secoli e secoli noi combattiamo la tirannide e l'errore; non cessarono i giorni delle prove, succederanno altre contenzioni, altri patimenti; ora se in cotesti tempi che io vedo con gli occhi della mente, il mio nome sarà chiamato, come quello di un soldato che non mancai mai alle battaglie della umanità, e se un uomo uscito dal mio sangue risponderà gridando; presente! scavatemi quanto volete profonda la fossa, copritemi di terra quanto vi piace, io non morirò intero. La vita è un cammino verso la perfezione; ogni nome porta la sua pietra per la fabbrica di questo tempio; certo la opera si conosce lunga; la calce che lo mura spesso è spenta col sangue del popolo; talvolta eziandio la opera rimane interrotta, o pare, ma io credo fermamente che un sarà compiuta, e vedo in cotesto tempio raccolta la umanità a lodare Dio padre; sciolta dalla servitù e dall'errore si riconosceranno intero padre e figliuoli, e cuore palpiterà su cuore senza prete fra mezzo. In quel giorno se una voce, che sia del mio sangue, si aggiungerà al coro delle laudi all'Eterno; se un raggio della benedizione celeste si poserà sul capo di uno dei miei discendenti, esulteranno le mie ceneri, e non potendo in altro modo manifestare il proprio compiacimento, io penso che lo faranno rendendo più verde l'erba che le copre. La presenza dei figli rende i buoni migliori, rispettivi i tristi, che anco il demonio si periterebbe a guastare questi fiori d'innocenza; Cristo amò i fanciulli; non senza consiglio i pittori cristiani rappresentano i santi e le sante circondati da pargoletti, poichè come presso i gentili l'olezzo dell'ambrosia dava indizio della presenza del Nume, presso di un nembo di angioletti annunziano prossimo Dio. Grande ed arcana è la gioia di considerare come l'intelletto nei sensi dello infante massime negli occhi si riveli a mo' del giorno per il cielo sereno in un mattino di estate; prima da oriente appare un grigio perlato, di subito si muta in bianco, quindi a breve in rosso, in rancio, in croco: all'improvviso spunta il sole e in un attimo la gloria dei suoi raggi si diffonde per lo emisfero, che di lui s'innamora; ma non sono questi unici i diletti che reca un pargolo; ce ne ha altri ancora; che io vo' pur dire e questi spettano affatto alla materia; io confesso sentirmi gratamente commosso dal lato della seta finissima dei capelli di oro, dal calore pregno di vita di coteste rosee guancie, dalle carezze di quelle manine più morbide della piuma del cigno; renunzio a descrivere la delizia un po' troppo acuta, che suscita il riso del pargolo, quando la mamma in un estro di amore materno lo leva in alto come per accostarlo meglio a Dio, o quando il babbo lievemente vellicandolo nel mento, gli procura il piacere, che l'uomo forse unico gusta senza scontarlo in rimorso o in dolore.

E questo Orazio disse tutto di un fiato con tanta efficacia di gesti che Isabella, Marcello e Betta ne rimasero attoniti e commossi; anzi quel benedetto Marcello pure piangendo, anzi per nascondere il pianto si fece in furia a pigliare il cappello mostrando uscire, e siccome il zio gli corse dietro gridando:

- E ora dove vai?

- Mi lasci andare, che io vo a pregare l'arcivescovo, che non impegni il pulpito della cattedrale per questa quaresima.

E Orazio stringendosi nelle spalle soggiunse:

- Non date il santo ai cani e le margherite... ecc.: però, Isabella, piglia tutto il mio discorso per te.

qui solo si restrinsero i benefizii derivati dalla presenza d'Isabella in cotesta casa; che Orazio, di Marcello non se ne parla meno, mano a mano addomesticossi con lei; smise la stramberia del discorso, e qualche volta degli atti, onde sovente Orazio ebbe a dire:

- Dacchè mi si fece ospite Minerva è mestieri che tutto intorno a lei pigli le forme regolari e severe del Partenone.

Faceva ad un punto tenerezza e ilarità come Orazio, messi in un canto i suoi libri di politica, di storia e di poesia, si circondasse di trattati di medicina, e quelli giorno e notte leggesse per attingervi norme a mantenere sana l'amatissima figlia; quanto a tenerla divertita già non aveva bisogno di pensarci, pure ci pensava e molto. La mattina si levava per tempo a remuovere dal viale qualche ghiaia male fra le altre sporgente, perchè quando sul mezzo ella scendeva a passeggiare a caso non le offendesse i piedi; egli moderava la luce dei lumi, egli solerte persecutore di ogni effluvio odoroso, che pungesse più acuto della violetta o dell'ireos; che più? Prima che sonassero qualche musica in camera a Isabella, egli andava a sentirla provare fuori di casa, e dove gli paresse in qualche punto un po' troppo vibrata, egli per amore dei nervi della figliuola faceva, se potevasi, moderarne i tuoni; diversamente ne sceglieva un'altra; per lo più stava al Bellini, vero Tibullo dell'arte dei suoni. - Povero vecchio! Egli era un miracolo di amore; veruno, e per avventura neppure egli, avrebbe sospettato che la sua anima serbasse tanto tesoro di affetto.

Finalmente venne il giorno in cui da un capo all'altro in cotesta casa fu inteso dire: un figliuolo è nato: ridevano i servi, e Betta come gli altri; poi saltavano, e palma battevano a palma. Per istrano caso Orazio e Marcello si abbandonarono l'uno nelle braccia dell'altro, e piansero dirotto così, che Isabella con piccola voce domandò:

- Signore, questo pianto mi cattivo augurio per la mia creaturina...

- Oh! no... no... rispose Orazio asciugandosi gli occhi, io rido subito... figliuola mia... io piango... io piango... perchè quando il piacere è troppo, vedi... non si può sopportare... e diventa quasi dolore.

E qui da capo proruppe in pianto. Lacrime di gioia, e piogge di primavera accrescono la giocondità del volto e dell'erba che bagnano, sicchè sfogato alcun poco cotesto ardente affetto, essi non avrebbero, Dio li perdoni, permutato un'ora della gioia presente con tutte le future del paradiso.

Orazio entrava venti volte l'ora nella camera d'Isabella, e se trovava il pargolo sveglio non rifiniva di supplicare la puerpera di posarglielo un po' su le braccia: e quando ce lo aveva era più contento di uno imperatore che stringa nella mano la palla dello impero.

- Babbo, me lo renda, via, ella me lo sciuperà...

- Io?

- Eh! che ci è da fare le maraviglie? Forse non mi sciupò anche il mio Marcello?

- Sì, ma allora non possedeva in casa la via del paradiso; ora caso mai si sbagliasse, presto tu ci rimetteresti sopra il buon cammino.

- Quando lo battezzeremo noi?

- Quando vorrai. Che ne dici, Marcello?

- Mettetevi d'accordo voi altri, per me quello che volete voi voglio io.

- Direi da qui a tre giorni.

- E perchè aspettare tanto, Isabella?

- Perchè... perchè... io penso... io credo che sarebbe bene avvertire mio padre della nascita del suo nipote...

- È giusto, e lo farò subito, ma come entra l'annunzio collo aspettare tre giorni?

- Non so... vorrei m'indovinasse... sono figlia alfine... ed egli padre mio sempre... e il torto è mio.

- Ho capito; sentite figliuoli; io proporrei di scrivere al signor Omobono annunziandogli che fra tre giorni battezzeremo la creatura; anco, Isabella, se lo vuoi, porremo aggiungere che tu lo preghi a darti la consolazione di venirti a vedere; caso mai dentro cotesto termine non comparisse, senza lui abbiamo fatto il matrimonio, e senza lui battezzeremo il figliuolo.

La proposta del signor Orazio venne con gradimento di tutti accettata non solo perchè ottima, ma anco per essere l'unica, che la congiuntura offeriva. Allora nell'animo d'Isabella incominciò a manifestarsi una trepidazione, che non era senza danno della sua salute; ad ogni romore di carrozza che si udisse dalla strada allibiva, voltava sollevata la faccia verso la porta, e poichè quinci non vedeva comparire persona sospirava,

- E lettere da Milano, ella interrogava, ne sono venute?

- Non se n'è viste ancora.

Così passarono tre giorni; cadde la disputa se i tre giorni avessero a decorrere interi, oppure se dovessero reputarsi compiti nella sera del terzo giorno: prevalse la prima opinione, come quella che forse era più giusta, e perchè Orazio, secondochè gli persuase la gentilezza, non ci volle insistere sopra; ma sul termine portato dal quarto giorno non vi era modo da cavillarci sopra. Lieta sì ma pure offuscata da tenue velo di malinconia Isabella sovvenuta da Betta si accinse a detergere e a vestire la sua creatura; e vi so dire io, se fossero sfoggiati e belli i guancialetti, cospicui per trine, per ricami e tutti infioccati di nastro di raso; davvero cotesta faccia vermiglia in mezzo ai bianchi pizzi se non rassomigliava per lo appunto, ricordava il bottone della rosa sbrizzolata dalla brina. Vestito che lo ebbe, Isabella baciò il pargolo, lo ribaciò, tornò a baciarlo ancora, e poi lo commise nelle braccia del signor Orazio; sentiva in questo momento la povera donna sorgersi in petto una voglia infinita di sospirare, ch'ella però valse a reprimere fino al punto di convertirla in un lungo respiro.

Orazio col pargolo su le braccia disse:

- Ed ora qual nome gli daremo noi?

- Orazio, disse Marcello.

- Orazio, soggiunse Betta.

Isabella piegò il capo e non disse nulla, per la quale cosa Orazio a lei volgendo il discorso riprese:

- E la mia figliuola non aprirà bocca in occasione tanto solenne?

- Sono una reietta da casa mia; poichè mio padre non vuole accettare me, il figliuolo mio, è ragione che io ed egli siamo tutti e unicamente vostri.

- E noi non ti respingeremo mai se tu non respingi noi, stanne sicura, Isabella: solo dimmi se ti rincresce o no, che il tuo figliuolo porti il mio nome. Su parla franca...

- Come vuole che mi rincresca? Solo avrei desiderato ne portasse un altro, o almeno due... mi compatisca sa!... ma adesso, che mio padre lo rifiuta... lo vedo ancora io... non è possibile.

Orazio considerando che il colloquio affliggeva Isabella reputò troncarlo, ed uscì per andare in chiesa con la balia, il pargolo e Marcello.

Forse potevano avere scorso metà della contrada quando videro venirsi incontro un'altra carrozza tirata da quattro cavalli stimolati a correre dallo strepito incessante delle fruste dei postiglioni; allora il signore Orazio divenuto timido peggio di una femminuccia cavò il capo fuori dello sportello per avvertire il cocchiere di scansarsi, ma il cocchiere non ebbe bisogno di farlo, imperciocchè si udì dall'altra carrozza una voce che disse:

- Ferma!

E subito dopo si aperse uscendone a precipizio un gentiluomo vestito di nero. Orazio lo riconobbe, e a posta sua fatta fermare la carrozza ne scese pure egli. Il sopraggiunto gli mosse incontro dicendo:

- Signore Orazio, eccomi presente ad accettare lo invito.

- Signore Omobono, è troppo tardi. Gl'idi di marzo sono venuti.

- Ma non passati.

- Anzi venuti e passati.

- Signore Orazio, voi che fate professione di cristiano vogliate ricordarvi che Gesù Cristo accolse l'operaio della sera col medesimo viso col quale accolse quello della mattina, e li giudicò meritevoli di mercede pari.

- Signore Omobono, io ricordo ogni cosa, ma vedete Gesù Cristo era Gesù Cristo ed io son Orazio, voi non siete un operaio, bensì il signore Omobono, che non si può mutare in buono uomo; e poi a dirvela all'aperta, quella degli operai era una parabola, qui si tratta di piantare vigna sibbene di battezzare un figliuolo.

- Oh! allora esclamò il signore Omobono levando ambedue le mani al cielo, la troppa felicità vi ha indurito il cuore come a me la troppa ricchezza: perchè respingete l'assetato? Datemi un sorso della vostra felicità... Signore Orazio, signore Orazio, pensate che l'uomo può essere avaro non di danari soltanto. Anco voi come gli altri!... Vi giudicava diverso.

- Tolga Dio, rispose Orazio, che io vi compaia minore della estimazione che voi fate di me; questo dico per superbia: no davvero, ma perchè chi tolse il carico di custodire la onestà ha obbligo di operare in guisa che per colpa sua non iscapiti di riputazione, ed io, tuttochè indegno, questo carico me lo sono tolto. Venite dunque, voi siete padre d'Isabella, e questo è sangue del vostro sangue; voi siete più prossimo a lei per parentela; io mi contenterò di starle più prossimo per amore... che se vi ci accosterete come me, non io... non io ve ne porterò astio... volendo sperare che Isabella abbia in tanto affetto da consolare ambedue.

- Ed ella lo possiede in copia da bastare anco a me, mio caro zio.

- Sicuramente che lo possiede! E chi si attenterebbe a negarlo? Ah! capisco... ho detto voglio sperare: e' fu un discorso fuori di squadra, ella pena a amare quanto il sole a riscaldare.

- Il nome della creatura quale ha da essere? interrogava il prete con voce che sembrava si fosse fatta imprestare da qualche raganella, che suona l'uffizio nella settimana santa, allorchè le campane stanno legate - e avvertano bene a scegliere nomi di santi che si trovino sul calendario romano, perchè questo mal vezzo di pigliare nomi di gentili, i quali certissimo andarono tutti a casa del diavolo, io non potrei patire... gli avviso, che non mi troverebbero arrendevole fino a questo punto.

- Ma, entrò a dire il signore Orazio, il nome di questa creatura aveva ad essere Orazio... e mi sembra che sia un nome ortodosso come qualunque altro che gode il benefizio di trovarsi sul calendario romano...

- Non dico diversamente... e può benissimo battezzarsi col nome di Orazio.

- Però dubito forte ch'ei possa ormai battezzarsi col nome di Orazio.

Il curato lo guardò sbieco per di sopra agli occhiali sospettoso che avesse patito ai mezzanini.

- E dunque come si chiamerà egli?

- Non costuma che il battezzando pigli nome dal compare?

- Giusto; massime poi se il compare sia parente.

- Dunque a voi, Omobono, voi siete il compare del vostro nipote; e sì dicendo gli pose fra le mani il bambino che aveva preso egli intantochè volgeva altrove la faccia per nascondere il suo turbamento.

Senza dubbio Omobono non era più quello di prima; se lo aveva punto l'affetto per la figliuola ciò accadeva in grazia di uno strano sconvolgimento avvenuto in lui; nondimanco rimescolavansi tuttavia nel suo spirito passioni impure come l'orgoglio, la smania che assale i vecchi avari di vedere perpetuato il proprio nome, il tedio delle ricchezze, la vanità di una vita ormai priva di scopo, ed altre parecchie che qui non fa mestieri rammentare; però nel cuore gli era rimasta una tal quale durezza; ma la bontà infinita di Orazio, il dolore immenso che soffriva, la semplice grandezza con la quale lo reprimeva, il sacrificio che sopportava, ebbero virtù di voltarlo sotto sopra, la terra gli mancò sotto le ginocchia, e due rivi di lacrime gli sprillarono fuori dagli occhi quasi vena di acqua che di botto scocchi dal fesso che si è fatta nella rupe.

- Grazie, diceva, grazie, signore Orazio; se avessi un regno ve lo donerei; se non fosse peccato mi prostrerei dinanzi a voi per adorarvi. Se non lo sdegnaste... e non lo sdegnerete di certo, io proporrei a voi, ed anco qui al signor Marcello, che al bambino s'imponessero due nomi: Omobono e Orazio.

- Fate voi.

Così il figliuolo d'Isabella fu chiamato al fonte battesimale Omobono e Orazio.

 

*

 

Orazio e Marcello di ritorno a casa entrarono soli in compagnia del pargolo in camera della Isabella, che rivide loro e il suo figliuoletto con tali dimostrazioni di gioia, che se fossero stati reduci da lunghi viaggi, o scampati da pericoli formidabili, ella non avrebbe potuto fare maggiori.

- Ecco qua il tuo bimbo: guarda se te lo rendo come me lo confidasti: guardalo bene, veh! perchè consegnato che io lo abbia non garantisco più nulla.

- È tutto sano, tutto vispo, tutto amoroso il mio Oraziuccio.

- Oh! senti, Isabella, ti ho da confessare una cosa... il tuo bimbo non si chiama Orazio.

- Non si chiama Orazio? Oh! allora come si chiama?

- Si chiama Omobono!

- Signore! e come può essere accaduto questo?

- Eh! l'uomo propone e Dio dispone, proverbio vecchio.

- Però avverti bene; gli abbiamo messo anco il nome di Orazio; ma siccome quello di Omobono va innanzi così sarà chiamato ordinariamente con questo, non già con quell'altro.

- Dunque prendi, bimbo mio, questo pel nome di Omobono; to' quest'altro pel nome di Orazio...

- Bacialo, bacialo, perchè credo che con ogni bacio, cara Isabella, tu imprima una virtù nel tuo figliuoletto.

- Cortigiano! Tanto è, ella stette in corte una volta, e il vezzo della piaggeria le si è fitto nell'ossa peggio che l'odore del muschio... ma ora che mi ribolle... mi conti un po' questa mutazione di nome come la è andata... qui sotto gatta ci cova...

- Se ho da dirtela proprio come sta la cosa... ecco... il fattorino della posta mentre stavamo per salire in carrozza ci ha consegnato una lettera di tuo padre, la quale ci scongiurava con tante pietose raccomandazioni a mettere il suo nome al nipote...

- Questo non è possibile...

- Come non è possibile? Marcello, diglielo tu se la faccenda sta appunto come io la ho contata...

- Taci tu... e non dire bugie... se così fosse, il padre sarebbe venuto...

- Eccone una nuova di zecca! Chi sa che diluvio di affari saranno piovuti addosso oggi al signor Omobono... sicuro, che ei non sia per venire appena sbrigato, non lo metto in dubbio nemmeno... ma per ora non si è visto...

- Datemi la lettera.

- Che lettera?

- La lettera del babbo.

- Ah! la lettera, Marcello, dove l'hai messa la lettera? Io l'ho pure consegnata a te la lettera.

- Sarà! rispose Marcello frugandosi per le tasche; senz'altro la dimenticammo giù nella carrozza.

- Non è così, il cuore mi dice, che non è così... perchè tacete cosa che può ricrearmi da morte a vita? Da quando in qua diventaste astiosi delle mie contentezze? Io non vi avrei creduto mai tanto cattivi!

- Questo, abbi pazienza, Isabella mia, gli è un mettere il capitello sotto zoccolo, tu comprendi quante cure esiga il tuo stato... può nuocerti la soverchia commozione... o il moto un po' violento... tu sai che un odore alquanto acuto..... un niente spesso hanno partorito conseguenze funestissime.

Mentre Orazio si sbracciava con queste ed altre parole a blandire l'animo agitato della giovane donna si accorse che gli avveniva di un buco fare una fossa, perocchè sopra la faccia di lei si alternasse con subita vicenda il pallore e il rossore indizio certo d'interna procella; non già, com'ebbe a dire poi Orazio con le sue immagini sbalestrate, che fossero nuvoloni i quali hanno in corpo grandine e saette, ma sì nuvolette bianche e minute come pezzetti di lettera amorosa gettati fuori della finestra da ragazza impaurita che la mamma gliela scopra nel seno. Per la qual cosa, il dabbene uomo riprese:

- Ora vedi il fingerti solo che tuo padre sia presente ti commuove tanto; pensa un po' che sarebbe se ci fosse davvero!

- Oh! allora mi sentirei tranquilla più del bimbo, che ora mi dorme accanto.

- Come così è, signore Omobono, venite a benedire la vostra figliuola.

Nonostante i bei propositi Isabella svenne; poco ci volle a farla rientrare in .

Tornata ai lieti uffici della vita, ella ed i suoi goderono un'ora che spesso intere vite si consumano senza provarla, un'ora per provare la quale ogni creatura umana reputerebbe spesa bene la vita intera.

Questa è la storia fedele del Buco nel Muro; come la raccolsi, io la contai: a me piacque, perchè se fosse stato diversamente io non l'avrei scritta; desidero che piaccia anco a cui la leggerà: ad ogni modo se gli parrà bella, la tenga per vera, com'è vero, che qui fo punto, e me ne vado a dormire.

 

 

 

 




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