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Francesco Domenico Guerrazzi
Racconti e scritti minori

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ALL'UNIVERSITÀ DI PISA

 

Quali fossero gli studenti cari alla maggior parte dei professori della Sapienza disse, con parole ormai passate in proverbio, Giuseppe Giusti nelle Memorie di Pisa e nel Gingillino. Nessun'aria spavalda, ma, al contrario, estrema compunzione ed untuosità; molta assiduità alle lezioni e molta fretta di tornarsene a casa, appena fosser terminate, senza incombriccolarsi e senza metter piede o a teatro, o all'Ussero, o in altri ritrovi: nessuna critica, anche rispettosa, all'autorità, di qualunque specie ella fosse e qualunque ordine le fosse piaciuto emanare. I turbolenti, gli irreligiosi eran presi di mira, e la polizia scolastica granducale e sacerdotale esercitava un continuo e pedante controllo su quanto essi facevano o dicevano, come rilevasi dai numerosi carteggi degli Archivi di Stato. Tra coloro che, naturalmente, attirarono sopra di le ire professorali e sbirresche per la sua aria sprezzante e per la durezza del carattere fu F. Domenico; al quale, per tutto il 1822, fu tolto il permesso di frequentare l'Università; onde, invece di laurearsi nell'anno successivo, dovette attendere al 1824.

Mentr'egli trovavasi a Pisa, capitò colà un uomo, giovane ancora, e "di cui la gente favellava in mille maniere e tutte opposte, e moltissime assurde", un uomo di fama universale, Giorgio Byron. Di lui il Guerrazzi aveva lette con indicibile trasporto le opere, e la sua fantasia n'era stata in singolar modo colpita: per quanto più tardi assomigliasse le opere del Byron ai pomi del lago di Asfaltide, cenere al di dentro, oro al di fuori, non potè negare di aver ricevuta da lui ispirazioni e concetti nuovi, ed è giustificato l'ardore col quale egli ne parla nelle Memorie. "Cotesta", sono sue parole, "era la poesia che avevo presentito, ma non saputo definire; cotesto lo esercito sterminato di tutte le facoltà del cuore e della mente, lo universo intero stemperato sopra la sua tavolozza...; dolori, angoscie senza nome, misteri non sospettati, abissi del cuore intentati, e lacrime e riso a piene mani gettati sopra coteste sue pagine immortali."

Risente della imitazione de' poemetti byroniani un componimento in versi sciolti e diviso in due canti: la Società, che F. Domenico compose nel 1824, ma che vide la luce solo nel 1900, in appendice alle Note autobiografiche. Apostrofi al tempo beato in cui la Natura e non altri fu "reina e diva" del genere umano, cupa disperazione, dubbi sulla esistenza di Dio e sulla utilità delle leggi sociali, formano il contenuto di questo poemetto. Il quale, come opera d'arte, ha assai scarso valore potrebbe paragonarsi al Trionfo della libertà del Manzoni ali'Appressamento della morte del Leopardi, ma non è del tutto spregevole, se si pensa che colui che lo compose aveva appena vent'anni.

 

 

 




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