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Francesco Domenico Guerrazzi Racconti e scritti minori IntraText CT - Lettura del testo |
TENTATIVI LETTERARI DI VARIO GENERE
Già da un anno la morte del Byron era stata lugubremente annunciata dal forte di Missolungi, e già da tre anni i Greci, accordatisi prima nei misteri delle associazioni segrete, combattevano contro la barbarie ottomana, fra mezzo alla colpevole indifferenza di alcuni stati europei e alla aperta ostilità dei rimanenti: e F. Domenico, in alcune ottave stampate nel 1825, appresso il Pozzolini di Livorno, salutava la memoria del Byron che, come Teodoro Körner, non si era appagato dell'alloro del poeta, ma aveva voluto intrecciarvi la quercia del guerriero ed incitava in pari tempo i Greci a perseverare nell'opera loro e a tener fisso lo sguardo agli antichi eroismi.
In una nota di questo poemetto il Guerrazzi toccava anche, di sfuggita, la questione del classicismo e del romanticismo, intorno alla quale si combatteva allora, unguibus et rostris, in tutta Italia, e su cui tornava più estesamente, ma senza giungere a nessuna chiara conclusione, in una contorta prosa intitolata il Bello, che accompagnava una sua tragedia, Priamo, apparsa a Livorno nel 1826.
Il Priamo è, senza dubbio, una delle più brutte opere che F. Domenico abbia mai scritte: priva d'interesse, retorica, popolata di fantasmi, anzichè di personaggi viventi, con versi o troppo lunghi o troppo corti e, se di giusta misura, disarmonici sempre come lo stridìo di una lima, questa infelice tragedia cadde sotto le unghie del celebre professor Carmignani, che col Guerrazzi aveva della ruggine antica e a cui non parve vero di poterne dire pubblicamente ogni male. Egli era collaboratore del Nuovo giornale dei letterati di Pisa e quivi apparve della tragedia un'ampia recensione, nella quale nessun sarcasmo veniva risparmiato al giovane autore. Al Carmignani F. Domenico replicò con un opuscolo stampato a Livorno; egli aveva - chi potrebbe contestarlo? - il diritto di difendere sè e l'opera sua, ma primamente non avrebbe dovuto nascondere, come fece, il suo vero nome; in secondo luogo, avrebbe fatto bene a non iscendere tanto in basso da rinfacciare persino, come una colpa, al suo avversario, un'erpete che gli tormentava la faccia.
La serie degli insuccessi, dai quali è merito di F. Domenico non essersi lasciato nè vincere nè scoraggiare, non era ancor terminata. Non persuaso che la natura non lo aveva creato poeta tragico, anzi, probabilmente, con la speranza di prendersi una rivincita che lo compensasse della umiliazione che il Priamo gli era costata, nel luglio del 1827 Domenico mise in iscena al Teatro Carlo Lodovico di Livorno un dramma intitolato I Bianchi e i Neri. Il soggetto era di quelli cari ai romantici, romanticamente era svolto, non mancavano generose tirate contro gli scismi e contro le fazioni, e nobili incitamenti alla concordia e alla pace fra tutti gli Italiani; ma, con tutto questo, la barca non si salvò dal naufragio e, al dire di F. Domenico stesso, il pubblico livornese fece al nuovo dramma la stessa accoglienza che nel Paradiso perduto del Milton i demoni fecero a Satana. Questa volta, però, la critica ebbe parole benevole per il Guerrazzi, e del dramma caduto tesserono elogi Giuseppe Montani nell'Antologia di Firenze, ed Elia Benza nell'Indicatore genovese. Certamente, le lodi, più che al dramma in sè, eran rivolte alle opinioni politiche che per esso erano state manifestate; ma, comunque, sortirono l'effetto di spronare il giovane scrittore a tentar nuove vie per conseguir finalmente quel felice successo che il genere teatrale, sia classico sia romantico, gli aveva negato.