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Francesco Domenico Guerrazzi Racconti e scritti minori IntraText CT - Lettura del testo |
Nel 1827 Alessandro Manzoni pubblicava, per la prima volta, i Promessi Sposi: nel 1827 il Guerrazzi pubblicava, per la prima volta, la Battaglia di Benevento. Concordanza di date puramente casuale, è facile osservare; ma non è senza significato che abbiano veduto nello stesso tempo la luce questi due romanzi, in quanto rappresentano due correnti d'idee perfettamente diverse ed opposte: la piena fiducia nella provvidenza divina, la placida rassegnazione ai voleri celesti, imperscrutabili ed augusti, ispirano dalla prima pagina all'ultima il romanzo del Manzoni; in quello del Guerrazzi è il fremito d'un anima assetata di libertà, ribelle a ogni giogo e che si dibatte nella disperazione, non potendo comunicare agli altri, o apati o cinici o apertamente nemici, la propria fiamma. Pessimista così il romanziere lombardo come il toscano, il Manzoni tempera l'amarezza di ciò che dice con la sua fede, mentre il Guerrazzi, simile al Bruto leopardiano, ricerca e svolge ad uno ad uno i motivi del proprio stato spirituale, nega a sè stesso ogni conforto, e non rifugge dalle estreme conseguenze de' propri sillogismi sulla viltà degli uomini e sulla inutilità della virtù.
Il Guerrazzi risale nel suo romanzo il corso dei secoli, e si sofferma al XIII: vede un pontefice offerire, come cosa sua, la corona del Regno a chi fosse sceso in Italia a muover guerra a Manfredi, suo mortale nemico: vede questo principe, a cui pur sarebbero bastate le forze per stringere tutta la penisola sotto il suo scettro, abbandonato da' suoi, tiranneggiato e vinto dalle sue stesse passioni; vede infine il popolo italiano passare indifferentemente da un re all'altro, oggi servo dello Svevo, domani dell'Angioino, e questo spettacolo di empietà di debolezza, di viltà trae dal cuore del giovane Guerrazzi ora profondi sospiri, ora infernali maledizioni. Poichè il romanzo di F. Domenico è quanto di più soggettivo si può immaginare: l'autore stesso è presente ad ogni pagina, ad ogni riga del suo libro, criticando ogni avvenimento, giudicando le azioni di tutti i personaggi, desideroso di attirare lo sguardo dei lettori più sulla propria persona e sui fatti che la riguardano che sui fatti e sulle persone introdotte ad agire nel romanzo. Le quali, generalmente, più che da una chiara visione che l'autore si fosse andato formando della vita italiana nel secolo XIII, e da studi sereni e pazienti sugli usi e sui costumi di quella età, sono il prodotto della sua fosca ed accesa fantasia. Come nell'estremo crepuscolo del romanticismo italiano ci fu chi plasmò un medio evo troppo dolce e troppo sospiroso, così il Guerrazzi ne creò uno, falso egualmente, dove gli uomini non palpitano che per il delitto e nel quale è un'orribile gara per immaginarne e per commetterne di più feroci e di più spaventosi. Manfredi, il Conte di Caserta, il Conte della Cerra, Ruggero, volenti o nolenti, sono tutti trascinati per lo stesso declivio e solo differisce da loro Ghino di Tacco (Yole è più un fantasma che una donna reale), personaggio foggiato sull'esemplare di Carlo Moor nei Masnadieri dello Schiller e sui banditi byroniani; esso rappresenta l'uomo in rotta con la intera società, le cui leggi e le cui restrizioni non può sopportare e che, sebbene costretto a vivere di rapina e di strage, conserva nel cuore una innata e cavalleresca generosità. I personaggi della Battaglia di Benevento eccedono tutti per la intensità del loro sentire, la media dell'anima umana; invano il lettore vi cerca quelle figure nè nobili nè ignobili, nè eroiche nè vili ond'è popolato il romanzo di Alessandro Manzoni, e che contribuiscono a fare di esso lo specchio vero ed eterno non tanto della società nel sec. XIII quanto della società di ogni tempo. Il Guerrazzi - come scrisse egli medesimo a Carlo Leoni - volle con la Battaglia di Benevento prima, con l'Assedio di Firenze poi, dare all'Italia più che veri romanzi, poemi epici in prosa, simili ai Martyrs dello Chateaubriand, e però non solo foggiò dei caratteri che, come Eudoro, Cimodoce, Cirillo e Galieno, hanno in sè qualche cosa di soprannaturale, ma si creò anche uno stile, artificioso quanto si vuole e pure adatto all'indole dei personaggi. Come lo Chateaubriand, anche F. Domenico toglie in prestito la soavità del numero dalla poesia; ma, mentre l'uno cerca sulle corde le note che con maggiore dolcezza commuovano, "l'altro ricerca le corde più acute e più gravi e dà un concerto simile al fremito delle belve, al gemito delle persone tormentate"; simile al sibilo delle selve orribilmente flagellate dalla tempesta.
E appunto per questo fremito, per questo ruggito, per quel che di desolato e di altamente virile che traspira da ogni pagina del romanzo guerrazziano, esso fu per lungo tempo caro ai liberali italiani; essi non ne videro nè poterono vederne i difetti, non si accorsero della poca profondità della indagine psicologica e della indagine storica: sentirono che il cuore dello scrittore palpitava dello stesso palpito del loro, che gemeva per lo stesso desiderio di libertà, e il libro fu letto come dai miseri Polacchi la tremenda preghiera di Adamo Mickiewicz: Domenico Moro, il futuro compagno di martirio dei fratelli Bandiera, non poteva leggere senza commozione le parole di Ghino di Tacco ai Baroni di Francia: "Italia dorme, ma se si sveglia, quale forza umana la vincerà?". "Vi raccomando un amico mio, Lorenzo Ghilini", scriveva il Mazzini al Guerrazzi; "egli è giovane di non comune ingegno, ha un'anima per sentire il bello, e un cuore che batte più concitato al nome d'Italia... Egli ha letto il romanzo la Battaglia di Benevento, e vi vuole ad ogni costo vedere". Temistocle Guerrazzi - strano tipo d'artista ribelle - scriveva al fratello F. Domenico che un amico suo non poteva addormentarsi se non aveva la Battaglia di Benevento sotto il cuscino. E G. B. Niccolini, letto il romanzo, ringraziava Iddio che aveva voluto consolare con un uomo di sì alto ingegno la desolata patria italiana.4