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Francesco Domenico Guerrazzi Racconti e scritti minori IntraText CT - Lettura del testo |
Questo romanzo che, come abbiamo veduto, F. Domenico principiò nell'esilio di Montepulciano, fu condotto a termine, verso il 1833, nel carcere di Portoferraio. Il manoscritto, un migliaio di piccole pagine turchinicce, giacque per qualche anno in una cassetta di latta sotto il pavimento dello studio di uno scultore di Livorno, insieme con i sunti di varie opere storiche, con le piante topografiche di Firenze qual'era al tempo dell'assedio, con gli spogli dei nostri migliori testi di lingua da cui F. Domenico cavò vocaboli, frasi, costrutti. La polizia, informata che in quello studio giaceva il manoscritto dei XXX capitoli (così chiamavasi l'Assedio di Firenze) che da quattro anni erano penetrati e si eran diffusi in Italia, impressi nel 1836 a Parigi dal tipografo Baudry, sotto il nome di Anselmo Gualandi, nel luglio del 1840 vi fece nottetempo una visita, trovò tutte le carte, le sequestrò, e imbastì un lungo processo contro F. Domenico e contro alcuni librai, che non ebbe conseguenze di sorta. Le carte passarono poi, come tutte le altre del Buon Governo, all'Archivio di Stato di Firenze, ove a me fu dato, anni sono, con la guida di un brav'uomo che or non è più, Augusto Nocchi, di rintracciarle e di studiarle.
Qual sia stata la mia commozione nel vedere e nello scorrere quelle carte non può essere immaginato se non da coloro che, cresciuti in mezzo alle memorie patrie, sieno abituati a parlare di esse e ad accostarvisi con la riverenza con la quale il devoto parla degli oggetti della sua fede e vi si avvicina. Poichè, in verità. quel libro fu per molto tempo il Vangelo della ardimentosa gioventù italiana, che fremette sulle sue pagine, che temprò, con gli esempi del Ferruccio, del Buondelmonte, dell'Alamanni, del Buonarroti, il proprio spirito al sacrificio e lo preparò, ove fosse necessario, anche alla morte. L'uomo che scriveva l'Assedio di Firenze era ben diverso da quello che aveva scritto, circa dieci anni prima, la Battaglia di Benevento: in questa parlava il giovine inesperto, sfiduciato, e a cui pareva di essere solo nel suo ardente amore di patria; nel nuovo romanzo è l'uomo maturo, fidente nelle proprie forze, consapevole che un lavorio sotterraneo si va compiendo, per cui il tetro edificio della tirannide dovrà, presto o tardi, crollare, il quale grida agli Italiani: "Coraggio! L'opera che si spende in beneficio della Patria non va mai perduta: seminate, e, se non mieterete voi, mieteranno certamente i vostri figli o i vostri nepoti".
Scriveva il Mazzini, dopo aver letto il nuovo romanzo del Guerrazzi: "L'Assedio di Firenze è la più energica, la più ardita protesta ch'io mi sappia, fra quante da parecchi anni comparvero dell'ingegno italiano contro le forze cieche che gli contrastano indipendenza di moto": se, infatti, l'intento politico della Battaglia di Benevento poteva non apparir chiaro, perchè vi manca il personaggio che incarni interamente le idealità dell'autore, chiarissimo è invece quello dell'Assedio di Firenze. F. Domenico mira, nel suo romanzo, a colpire al tempo stesso Chiesa ed Impero, cospiranti alla distruzione della repubblica fiorentina: di qua, Clemente VII e Carlo V, nemici prima, consociatisi poscia, per inferire l'estremo colpo alla gloriosa città, madre, per sua sventura, dello stesso Pontefice: di là, un popolo che oppone agli alleati ogni possibile difesa, ed un capitano che, dopo aver resistito e combattuto con ogni forza, muore gloriosamente ravvolto nella sua bandiera: da una parte intrighi, vergognose concessioni, tradimenti così orribili da disgradare tutti quelli puniti nel ghiaccio infernale; dall'altra nobiltà e fierezza di sentire, virili propositi prima, gara di eroismi in appresso.
L'Assedio di Firenze è un libro repubblicano, quale il momento storico lo richiedeva: falliti i tentativi dei Carbonari, i quali avevano indarno sperato di conseguire l'unità nazionale mercè l'aiuto di un principe, fosse egli Carlo Alberto o Francesco IV di Modena, era sorta la Giovane Italia che poneva l'avvenire della patria interamente nelle mani del popolo, e che già stringeva in un'immensa rete quanti erano liberali dal Piemonte alla Sicilia. E il Guerrazzi nel suo romanzo par che voglia dire: "Considerate, fratelli, che cosa sanno preparare ai popoli re e pontefici, quando si stringono in amplesso fraterno: guardatevi dagli uni e dagli altri, fidate in voi soli, nelle vostre forze e, soprattutto, nella vostra concordia. L'esempio di Firenze, che a Gavinana pagò il fio di aver lasciata allignare entro alla cerchia delle sue mura la mala pianta medicea, sia scuola ad ogni popolo che voglia conservare fra tutti i beni il più prezioso, la libertà".
Scriveva opportunamente il Mazzini che, mentre per il Manzoni e per quelli della sua scuola "pernio ideale" di tutta l'opera sarebbe stato, probabilmente, l'amore di Annalena e di Vico, nell'Assedio esso diventa un semplice episodio, e vero protagonista di esso è Firenze e il Ferruccio, che ne è l'immagine. E si noti ancora, di sfuggita, che questo amore è, più che altro, fondato sull'amore di patria; sì che nulla esso toglie alla unità del racconto, nulla all'effetto a cui F. Domenico tende in tutte le pagine, con tutte le forze. Questa specie di romanzo, nel quale l'elemento storico predomina sull'elemento fantastico e che è, in fondo, il rovescio del romanzo storico quale lo Scott lo dètte all'Inghilterra, il Manzoni all'Italia, corrispondeva perfettamente all'indole artistica di F. D. Guerrazzi: egli aveva bisogno della vasta cornice di un fatto realmente avvenuto e della più alta importanza, per dipingervi entro le sue gigantesche figure. Seguire, ad esempio, i casi di due poveri montanari, scacciati fuori del loro nido da una forza perversa, descrivere l'impari lotta degli umili con i potenti, non era opera a cui F. Domenico potesse accingersi, nè egli credeva che a ciò fosse chiamato il romanzo storico, nè - siamo sinceri - sarebbe stato capace di condurla a termine lodevolmente. Giacchè, in quanto ad analisi dell'anima umana, egli rimase sempre alla superficie, nè uno solo dei suoi personaggi - simile in ciò a Vittorio Alfieri - è divenuto antonomastico di una determinata passione.
Il Guerrazzi, del resto, era conscio dei difetti dell'opera sua, nè si illudeva che la sua fama di romanziere dovesse aver lunga durata: "I miei lavori d'assedio", diceva egli a Marco Monnier, "saranno distrutti dopo la guerra... Ma che m'importa? Passi pure la mia opera come una tempesta, purchè passando abbia sfolgorato i malvagi, scossi i codardi, purificata l'aria".
Senonchè, quelli che a noi sembrano i vizi più gravi dell'Assedio di Firenze, o passarono inosservati ai contemporanei e a quelli che vennero poco dopo o, in un'età ed in un'atmosfera molto più romantica della nostra, sembrarono notevoli pregi. Ancora, mentre noi facciamo opera analitica, i nostri vecchi considerarono nel tutto insieme, nella sua ragion politica, questo libro, ove era scritto, intorno alla tirannia pontificia e temporale, ciò che era nella mente e nella coscienza di quanti amavano la patria; e quindi ne acquistarono a caro prezzo e fra mille pericoli una copia, la custodirono gelosamente perchè non cadesse nelle mani di chi ne andava alla caccia, la copiarono nel silenzio della notte quelli che l'avevano avuta in prestito dall'amico o dal fratello, la impararono a memoria uomini e donne per poterne ripetere mentalmente i passi più belli, anche fra mezzo alle spie, anche nella solitudine del carcere o dell'esilio. Retorico dunque, accademico quanto vogliamo l'Assedio di Firenze, ma benedetta quella retorica e quell'accademia, se contribuirono a darci la Patria!