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Francesco Domenico Guerrazzi Racconti e scritti minori IntraText CT - Lettura del testo |
II
Come a Marcello nello staccarsi da Betta si attaccassero tutti i Santi del Calendario sul capo.
Marcello arrivò a casa quando l'ora si accostava più presso al tocco, di quello che si discostasse, della mezza notte; grattò lieve lieve la porta per due ragioni, la prima per amore di non destare lo zio, la seconda per sospetto, che lo zio svegliato non conoscesse l'ora tarda del suo tornarsene a casa. Però dobbiamo avvertire, che nell'animo di Marcello l'ordine delle ragioni non si era presentato per lo appunto quale lo abbiamo scritto noi, anzi capovolto; ad ogni modo l'amore per lo zio, se non precedeva, e forse nè anco accompagnava l'amore per sè, sarebbe stato ingiustizia affermare, che non lo seguitasse da vicino così, che i due amori apparissero uno solo almeno per quelli che non istavano a squattrinarla tanto pel sottile. Ma era scritto nei fati, che per cotesta volta le cautele andassero vuote, però che Betta fattasegli incontro gli dicesse, lo zio aspettarlo levato. Il giovane stette alquanto sopra di sè sorpreso, e domandò poi:
- O che novità sono elleno queste, Betta? Sai tu nulla?
- Nulla, Marcellino, ma governati a modo, perchè in fondo alla marina ci è del torbo.
- Tempeste di luglio! esclamò il giovane; e senza levarsi nè il cappello di capo, nè il sigaro dalla bocca, in due salti entrava nello studio dello zio.
Lo zio si levò appoggiando una mano sul tavolino, e non mosse passo verso il nipote; quindi volto il capo a Betta rimasta su l'uscio della stanza, le disse:
- Sorella, ora puoi andartene a letto; - e poichè Betta, presaga di futuri guai nicchiava, egli aggiunse: - contentami, via. - Le parole veramente pregavano, ma la voce sonava imperativa, quale a memoria di Betta non aveva mai adoperato il signore Orazio; ond'ella così non bene sicura rispose:
- Senta, signore Orazio, ella chiuda bene l'uscio dello studio, io me ne vado in cucina, e mi ci serrerò dentro: se le abbisognasse qualche cosa non manchi di sonare il campanello... io starò sveglia... e starò sveglia... Signore! - tanto non potrei dormire.
- Ormai tu lo hai per compito di farmi sempre alla rovescia di quello che desidero... accomodati come ti pare.
Rimasti soli zio e nepote, Orazio con voce sommessa, ed anche un tantolino velata incominciò:
- Marcello, noi dobbiamo separarci...
- Per andare a dormire?...
- No: voi per imparare a vivere, io per inverdirmi di non avere saputo insegnarvelo.
- E chi può volere questo? E chi anco volendo lo potrà?
- Voi lo avete voluto, ed io lo voglio: quanto al potere, basta che vi pigliate la fatica di scendere sedici scalini, e tirarvi la porta di casa dopo le spalle, la è cosa fatta.
- E lei è rimasto levato per darmi questa bella notizia? Veda, zio, meriterebbe per gastigarlo, che io le leggessi tutto intero un fascicolo della Civiltà cattolica, ma questa atrocità non commetterò già io che non voglio la morte del peccatore, bensì ch'ei viva e si penta. Capitoliamo via: io per ora me ne andrò a dormire, e siccome la notte porge consiglio, le risponderò riposato domani...
- Domani! Domani voi avete a trovarvi di molte miglia lontano da Torino.
- Zio, abbia carità di me... casco del sonno.
- Marcello, tu scherzi in mal punto. Rammenti quello che tanto spesso ti andava dicendo, e ti ripetei anco ieri l'altro?
Marcello, che dal trapasso del plurale al singolare, e dalla voce tornata blanda argomentava prossima a sciogliersi la neve, con crescente arroganza rispondeva:
- Ma che le pare? Ci vorrebbe altro per tenere a mente tutto quanto ella mi dice! Bisognerebbe prima di tutto ch'empissi il mio capo, il quale confesso vuoto, ma non di grande capacità; e poichè questo non basterebbe, avrei a pigliar magazzini a pigione e lì dentro riporre il volume delle sentenze, massime, apoftegmi, eccetera: ciò, come vede, menerebbe una spesa terribile, e spianterebbe le regole della savia economia, ch'ella tanto spesso mi va predicando: sicchè, osservi bene, ch'egli è proprio per amore di lei, mio caro zio, e delle cose sue, se, di quanto ella mi dice la mattina, procuro che non mi rimanga la sera nè anco una gocciola nel capo.
- Allora mi toccherà riprincipiare.
- Oh! no zio, in coscienza non me ne importa nulla.
- Importa però a me, disgraziato, che tu l'abbi presente.
- Zio, noi in virtù dell'autorità nostra la dispensiamo; davvero, non ci si sentiamo disposti - e in così dire si alzava per andarsene, quando lo zio lo afferrò per un braccio, e suo malgrado lo costrinse a sedersi.
- Abbi pazienza, e ascoltami. - Queste parole veramente furono proferite col solito suono di voce; senonchè Marcello levando gli occhi vide balenare dentro a quelli dello zio il lampo, che ricordò avere osservato nei tigri sul punto di avventarsi. Allora gli tornò in acconcio il consiglio di Betta, e persuaso alla fine che si faceva davvero, tacque, e si propose a modello i piloti, i quali allo avvicinarsi della tempesta si recano in mano il timone, e forbiscono il vetro della bussola.
- Marcello, allora cominciò lo zio, tu mi cascasti addosso come il tegolo sul capo di Pirro, orfano, lattante, infermo, e povero quanto Giobbe: mandai tosto per un medico proprio co' fiocchi, amico mio svisceratissimo, il quale dopo averti guardato di sotto e di sopra mi disse così, non te ne avere a male, proprio così: - che cosa volete farvi di questo mostro? Buttatelo nel corbello della spazzatura, tanto ei non può vivere. - Io risposi: - mi sento capace di agguantare la natura pel collo, e cavarle i denti come Sansone costumava ai lioni.
- Bò! voi? soggiunse il medico: voi senza Betta non siete capace ad assodare un uovo.
- Che Betta non ci abbia a entrare, non perfidio, io ripresi; ma con lei di aiuto io mi vanto preservare da morte questo infante, e ci gioco.
- Non ne farete nulla.
- Scommettete.
- Denari buttati.
- Scommettete.
- Ve gli mangerei.
- Promettete per Dio! urlai fuori dei gangheri. Tu scappasti via impaurilo strillando ed agitando le braccia, sicchè a somigliarti a un pipistrello, si correva a rischio, che questo se la pigliasse a male: il medico ed io scommettemmo un pane pepato a Ceppo. Ti curai, ti vegliai, Betta sempre diacona e suddiacona; in te schermii con suprema cautela quel tuo filo di vita quasi lumicino riparato dal vento, col cavo della mano; ti fui padre, m'ingegnai esserti madre: se come madre col latte del mio seno non ti ho nudrito, col calore del mio seno ti ho riscaldato: - e a Ceppo vinsi al medico il pane pepato.
Tu poi dal giorno della discrezione non cessavi pure un momento di ficcare i denti in questo seno, che non ha palpitato per altri, che per te. Così è: da venti e più anni, tu mi regali ad ogni capo di anno un calendario di morsi nel cuore.
Io era bello allora, vedi, e giovane della tua età, o poco più, e il sangue mi andava di su e di giù per le vene a modo di cartucce di aghi d'Inghilterra: ogni volta che m'imbatteva in qualche fanciulla che mi andasse a genio, spiccava un salto come un capriolo, e le ficcava gli occhi addosso, e ce li teneva fissi, finchè non mi fosse scomparsa davanti: qualcheduna anco ne ho vista voltarsi, e ricambiare meco uno di quegli sguardi, tu mi capisci, che valgono quanto i baci, o giù di lì: insomma, gua, io mi sentiva sto per dire fatto a posta per gli affetti soavi, pregustava i gaudii, m'inorgogliva nella potenza della famiglia. - Signor no, una voce dentro prese a predicare, signor no; poichè Dio della famiglia le ha dato begli e fatti gli effetti, ciò significa, ch'ella deve astenersi dalle cause: lo ringrazii dunque per averlo letiziato di figliuoli senza moglie; se ci pensa su, conoscerà che le toccarono le ostriche quasimente senza i gusci; la si tenga addirittura come nato vestito. - Eh! sarà così, conchiusi fra me, e senza badare ad altro ti murai arpione unico alla parete domestica per attaccarci ogni scopo della mia vita. Quando Betta da una parte, ed io dall'altra dondolavamo la tua culla, Betta diceva:
- Veda, signor Orazio, questa creatura ha da essere proprio il bastone della sua vecchiaia.
- Lo credo anch'io, rispondeva: rimane a vedersi però se su le spalle, o nelle mani. Ora tu sai, Marcello, che a patirti bastone sopra le spalle quasi quasi mi ci era adattato, ma tu per Dio mi hai dato un picchio sul capo: questo non aveva presagito, ed a questo non mi posso adattare.
E, qui il povero uomo si asciugava il sudore; quindi riprese: - Ti ho fatto educare in ogni maniera di lettere e di scienze, e mi ci sono adoperato io stesso: dei classici tu mi hai fatto galletti, le grammatiche vendesti per comperarti tanta polvere da botta, la libreria convertisti in campo di battaglia; un giorno e' stette a un pelo che tu non mi mandassi all'aria la casa. Dopo tanto tempo perduto, e tanto danaro speso, mi fai il piacere di dirmi, che cosa tu abbia imparato? Niente, nè meno a conoscerti un solennissimo ciuco, ed a vergognartene. Un giorno mi dicesti:
- Che vuole ella, zio? io mi sento l'argento vivo nelle ossa: le parole, che leggo, dopo mezza ora mi pare che mi ballino il valzer davanti gli occhi; vorrei movermi.
- E così sia, ti risposi: vuoi milizia?
- No.
- Vuoi marineria?
- Nè meno.
- L'agricoltura ti garberebbe?
- Villano mi sento abbastanza senza bisogno di studio.
- Questa risposta fu un lucido intervallo del tuo giudizio: ho capito, replicai, tu sei come Bertoldo, al quale non piaceva verun albero dove lo avevano ad impiccare...
- Sicuro! interruppe il giovane, mi gingillai un pezzo perchè una delle sue sentenze, che non mi era voluta uscire di mente, mi diceva: - chi sta bene non si muova, ma poi scelsi...
- Lo so pur troppo, scegliesti viaggiare, e in Isvizzera ti recasti a pescare le trote, a Lisbona per bere il vino di Oporto, a Londra per vedere le corse di cavalli, a Palermo per assistere alla festa di santa Rosalia, a Buenos-Aires per sincerarti come fosse fatta la Manuelita figliuola del Dittatore Rosas, e come la lumaca girando intorno al cavolo cappuccio ci segna una striscia che pare di argento, tu viaggiando pel mondo ti lasciasti dietro una striscia di debiti, che poi è toccato per onore della casa pagare a me, come se fossi andato co' filibustieri ad arraffare danaro in America, o co' banchieri ebrei a risucchiarlo a Parigi. - Il mondo vecchio ti bagnava, il nuovo ti cimava.
- È vero, - disse Marcello contrito in suono di confiteor.
- Ti diedi compagnia di gente dabbene, da ventiquattro carati tutta; ti andai ricordando sempre gli esempii onoratissimi di tuo padre, mio degno fratello, e del tuo avo fiore di galantuomo, nè da me, spero, tu ne imparasti di cattivi. E queste ultime parole Orazio pronunziò abbassando gli occhi ed arrossendo con tale un senso di pudore, che se l'angiola (io veramente dichiaro di non sapere se tra gli angioli ci sia il maschio e la femmina, ma mi giova credere che ci abbiano ad essere) della verecondia gli fosse in quel momento capitata davanti, gli avrebbe detto: - Ave fratello! -
Dopo breve spazio di tempo il signore Orazio continuò:
- La notte del giovedì grasso mentre spegnevi il lume per andartene a letto io ti ammoniva: O Marcello, e fino a quando?... E tu m'interrompesti dicendo:
- Zio, piglia un granchio; metta, in vece di Marcello, Catilina, s'ella vuoi ripetere il famoso esordio ex abrupto di Cicerone: però non ti badai e ripresi: e fino a quando del cuore del tuo povero zio non farai maggior caso di quello, che i ragazzi si facciano delle ghiaie allorchè le tirano a schizzare tre o quattro volte su l'acqua, e poi cascano giù in fondo?
- E tu qui, te lo rammenti? M'interrompevi da capo e soggiungevi: quanto a questo poi, caro zio, mi piglio lo impegno di farle saltare cinque volte o sei. Io sempre senza avvertirti continuai: aveva sperato cavare da te un pezzo grosso, e in vece di grosso mi diventi un giorno più dell'altro un pezzo duro: questo veramente non entrava nei miei calcoli, e nondimeno pazienza. Va a letto, figliuol mio, e se non mi è riuscito tirarti su dall'Asino, agguantati con le mani e co' piedi per non dare un tuffo nel birbone. Buona notte!
- Per alcuni giorni tu camminasti per la via della virtù da disgradarne Brigliadoro, che come sai fu il cavallo di Orlando: ma ahimè! giunti che fummo a mezza quaresima, io me ne ricordo sempre con raccapriccio, e me ne rammento bene, perchè frastornato dal chiasso mi affacciai alla finestra dove vidi i monelli, che dopo avere appiccato la coda a Don Margotto gli facevano dietro la baiata. Ebbi per la prima volta a minacciarti... sì, cattivo soggetto, tu costringesti me Orazio a minacciare il figliuolo del suo fratello, che lo avrebbe cacciato di casa se non mutava vita. Gli spessi rimedii, a dose doppia, accusavano il male aggravato. - Marcellino, da capo io ti avvertiva, il mio cuore è infermo per te; la ragione gli tasta il polso, e sente diventargli ad ogni tratto più languido: fa attenzione, se un giorno o l'altro gli capitasse morire, guai a me! guai a te! Coi rimpianti non risuscitano i morti. Allora, che potremmo fare noi? Uno diviso dall'altro, immemori del passato irrimediabilmente, c'incontreremmo come estranei intorno al cataletto per cantargli requiem æternam.
- E a chi, zio, dovremmo io insieme con lei cantare l'ufizio dei morti?
- E non hai capito, disgraziato, la metafora? Al mio cuore, al mio cuore morto per te. Ma sta attento qui che adesso viene la stretta. Tu col moto del sasso, che accostandosi al centro si moltiplica, hai percorso tutto il campo del vizio a scavezza collo, e già, mira, tu tocchi... tu hai toccato... già le porte del delitto si spalancano dinanzi a te.
- Oh! - mise uno strido il giovine e si cacciò involontariamente la mano sotto la veste come per cercarvi il coltello.
- Sta fermo Marcello, che non ti venisse voglia di ammazzare il tuo zio... protesto in tempo utile, che non ci sarebbe il mio consenso.
Ma il giovane strabuzzando gli occhi borbottava: - oh! fosse qui lo scellerato, che mi assassina nel cuore dello zio.
- Ecco l'assassino; vien qua oltre e leggi.
Lo zio Orazio mise in mano al giovane Marcello il foglio cagione di tanto scompiglio: il giovane gittandovi su gli occhi impallidì, abbrividì, poi di repente diventò pavonazzo, ed abbrancato il foglio lo ridusse in pezzi.
- Ecco l'orso, disse il signore Orazio, il quale ferito morde lo spiedo, e non bada al cacciatore.
- Forse, sentiamo via, o non ha a chiamarsi spia, costui?
- Che rileva questo? Attendi alla fiamma, e lascia andare il fumo.
- Sì, ma ad ogni modo è spia.
- Ti rispondo come il Berni allo Aretino:
Il papa è papa e tu sei un furfante.
Non giace qui il nodo: è vero o no quanto si scrive lì dentro?
- Costui non aveva diritto di spiare i miei passi.
- È vero o no quanto si scrive là dentro?
Il giovane getta via il cappello, si tira da parte i capelli scoprendosi la fronte, e dice: - è vero!
A Orazio saltarono addosso i brividi. Se con quel piglio, se con cotesta risolutezza il giovane avesse affermato: - non è vero - Orazio lo avrebbe, mi credo io, mangiato per la tenerezza, come le gatte talora costumano co' propri figliuoli: ora per non dare uno stramazzone in terra gli toccò ad agguantarsi con ambedue le mani al tavolino. Così rimasero alquanto, zio e nepote: per ultimo questi in tuono bimolle domandò:
- Signore zio, e giudica veramente, che questo sdruscio non si possa rammendare?
- Vedi; se venisse Bastiano stesso a pregarmene, quel Bastiano
Che dell'anima mia tanto è gran parte,
io gli direi come Carlomagno a Desiderio:
.........cosa mi chiedi
Tal che da me non otterria Bertrada.
Da ora in poi:
Tu vêr Gerusalemme io verso Egitto;
perchè la nostra amicizia è arrivata al laus Deo.
- E questo non fa nè anco una grinza, ma poniamo caso, che lo zio Orazio pregasse lo zio Orazio.
- Se ciò accadesse, e Orazio riuscisse, da ora in poi mentre io radendomi la barba mi guardassi nello specchio direi: questa è la faccia del primo sciagurato, che Dio abbia messo in questo mondo. Potrebbe accadere, che il castigo cascasse addosso a te solo, ma da ora innanzi la colpa sarebbe di tutti e due; e poi si ha da intendere del castigo del mondo, perchè quanto al castigo di Dio a me non potrebbe mancare la sua parte.
- Voglia almeno la bontà del mio zio concedermi, che io mi sono trovato a darci dentro col capo senza accorgermene nè manco.
- E sia, ma pensi tu, che ti giovi cotesto? Anzi ti condanna. Per me giudico la sventatezza più biasimevole della premeditazione assai: invero questa commette il peccato per pensarci troppo, quella per non pensarci punto; onde si ha da credere, che chi molto almanacca, non trovando il proprio conto a commettere una mala azione, se ne astenga, mentre il capo sventato la commetterà sempre.
- Tanto è, un divario ci corre, e venisse Marco Tullio in persona, non saprebbe persuadercelo, perchè gli è il cuore, propriamente il cuore, che lo insegna.
- Io tengo fermo, e aggiungo per tuo uso, che se ti capiterà di sdrucciolare in prigione a vanvera, vedrai che ti ci tratteranno come se tu ci fossi entrato a caso pensato.
- Dunque veniamo al grano. Che consiglio mi da, zio? Deh! non me lo neghi; consideri che fuoco per accendere il sigaro, e avvertimenti di buona condotta, in Italia non si ricusano a nessuno; anzi qui in Piemonte ho sentito dire, che non si nega neppure una terza cosa a cui la domanda, ed è la croce dei santi Maurizio e Lazzaro, sicchè pensi se può onestamente rifiutarmi i suoi savi consigli!
- Osanna in excelsis! L'alba del buon senso comincia ad apparire anco pel mio nepote. Veramente può chiamarsi l'alba dei tafani, che spuntava a mezzo giorno; ma non fa nulla; porgi gli orecchi e ascolta.
- Dacchè tu ti sei fatto canzonare in quattro parti del mondo io non ci vedo altro rimedio, che tu provi la quinta. Va in Australia, immagina che tuo zio sia morto e tu abbia rifinito il suo patrimonio, cose, come vedi, che vanno si può dire, pei loro piedi. Tu dimentica me... cioè non mi hai a dimenticare, bensì non fare più capitale di casa tua; io dimenticherò te... o piuttosto addormenterò la mia memoria, e la sveglierò di qui a cinque anni: allora urlerò ai quattro venti della terra:
Chi avesse, o sapesse chi avesse
come fu la grida per le calze di Messere Andrea; e qui darò i tuoi segnali: naso lungo, pelle fuligginosa, gambe storte, mani di falco, una spalla più alta dell'altra quattro dita, occhi colore di sospiro di amante disperato, capelli tinti nella coscienza di un moderato aristocratico, età quella del giudizio che, bene intesi, ei non ha avuto mai, e come nella grida di Messer Andrea aggiungerò:
Chi lo avesse trovato non lo bea
ma lo riporti al curato della Madonna degli Angeli, che gli sarà usata cortesia. Se riportato o venuto da te, ti troverò quadrato nelle massime del ben vivere, allora io ti aprirò la casa mia, e con la casa il mio cuore. Se no, no.
- Ora basta; ma, zio, non mi vuole dare altro, mentre sto in procinto di separarmi forse per sempre da lei? Ella pure mi ha detto, che mi fu padre, e madre; ora che fanno eglino i genitori quando i figliuoli vanno lontano da casa?
E tale favellando Marcello s'inginocchiò davanti allo zio: questi con una mano tenendosi sempre forte al tavolino, e l'altra abbassando sul capo di Marcello disse:
- I fabbricanti di drammi pei teatri diurni tanto non hanno potuto sciupare le benedizioni, che non sieno sempre atti solenni. Ecco, io ti benedico per conto di tuo padre, e di tua madre, ed anco per conto mio ricevi questa benedizione con la religione con la quale io te la do: la virtù, mi giova sperarlo, è come una miniera dentro al tuo cuore: scava di notte e di giorno e forse tu la troverai.
- Farò quello che potrò, zio: ma mi conservi intiero il suo cuore, me lo difenda, sa, dagli assalti dei miei nemici, che ora sapendomi disgraziato stanno come di regola per moltiplicare. La separazione nuoce sempre, sia che si parta, sia che si rimanga: infatti Agamennone tornando a casa trovò che la moglie, mentr'egli attendeva a coronarsi il capo di allori su lo Scamandro, ella glielo aveva inghirlandato di bene altre frasche in Argo; e per giunta Egisto lo ammazzò; e quella povera fanciulla ebrea, che non si sa nè manco come si chiamasse, e fa piangere tanto, per essere corsa verso il padre reduce dalla battaglia, dopo aver pianto la sua verginità su i colli (allora le ragazze piangevano la verginità su i colli; adesso non ci è più pericolo che la piangano nè su i colli, nè pei piani), ebbe a sentirsi segata la gola da quel malanno d'Jefte.
- O Marcello, tu mi rammenti cose tanto fuori di squadra, che io non ho mai saputo accordare con la idea dello eterno Architetto. Io non so se veramente Dio ci abbia fatto a similitudine sua; questo altro so bene, che gli uomini hanno fatto Dio a similitudine di loro, e lo hanno conciato pel dì delle feste. Quando l'Angiolo scese dalla parte di Dio a comandare ad Abramo di ammazzargli il suo figliuolo Isacco, Abramo doveva mandare pei giandarmi e fare mettere l'Angiolo in prigione; e quando Jefte si presentò al gran sacerdote dicendogli: - ho fatto voto a Dio di segare la gola della mia figliuola. - costui doveva rispondergli: - sega la tua, matto da catena; - ma qual sacerdote dissuase mai un galantuomo da commettere qualche bestialità? - Però ora non corre tempo di queste novelle... alzati e pulisciti i ginocchi...
- Il nostro Redentore, continuò Orazio, mandando gli apostoli a bandire la divina parola pel mondo, disse loro: - picchiate e vi sarà aperto: oggi bisogna confessare, che i tempi sono mutati; perchè se tu andassi a picchiare agli usci altrui, saresti sicuro che non ti sarebbe aperto, bensì ti rovinerebbero addosso cose più o meno solide con pronta tua edificazione; onde io ti munisco del debito viatico - e qui tratto dalla cantera un portafogli lo porse al nipote, che voleva schermirsi dall'accettarlo, se non che Orazio insistendo favella:
- Piglia, Marcello, e fa conto di vedere redivivo in me uno degli antichi Narbonesi, i quali prestavano il danaro per riaverlo nell'altro mondo: solo procura risparmiarli perchè questi ti do volontieri, ma ti avviso, che quando me ne chiederai degli altri sarà lo stesso che chiederli al Conte Verde su la piazza del Municipio.
E tacquero. Da una parte, e dall'altra si erano detto tutto quello, che avevano voluto dirsi; e pure stavano fermi uno di faccia all'altro senza osare guardarsi: due tazze colme fino all'orlo poste sopra uno zoccolo di granito, per tempo che volga, non traboccheranno mai; ed essi non erano diversi da queste. Marcello sì attentò movere un passo a ritroso. Sperava o no lo richiamasse lo zio? Questo non possiamo dire: certo è però, che egli si trattenne alquanto sul primo, più risoluti impresse gli altri, a mezza stanza voltò le spalle e corse via a precipizio.
Corse, e saltò gli scalini a quattro a quattro; ma giusto nello aprire l'uscio di casa si accorse di due cose, ch'ei giudicò nella diversa loro importanza ugualmente necessarie; pigliare il cappello, e dire addio a Betta. Però da storici fedeli qui dobbiamo narrare come innanzi tratto egli pensò a Betta; ond'egli accostatosi alla cucina aperse piano piano l'uscio, e sporgendo il capo vide Betta, la quale, malgrado la buona volontà, era stata vinta dal sonno, e con la faccia abbandonata sopra le spalle dormiva. Marcello si peritò svegliarla, ed ebbe ragione, perchè sarebbe stato proprio peccato; tanto appariva piena di beatitudine. Pareva che, come il patriarca Giacobbe, ella nei suoi sogni contemplasse gli angioli andare su e giù per la scala, che dalla terra arrivava fino alla botola del paradiso a mo di guardie del fuoco, che si affrettino a spegnere lo incendio; e se il signor Bersezio criticando osservasse, che Betta non poteva rassomigliare il patriarca Giacobbe perchè questi portava la barba, e Betta no, gli risponderei: la si dia pace, caro signor Bersezio, che anche Betta la sua brava barba l'aveva, e se non se la faceva radere, non era certo per obbedire al divieto della legge delle dodici tavole, che probabilmente Betta non aveva letto mai, e il signor Bersezio nemmeno46. Pertanto Marcello richiuse l'uscio, ed appoggiò il capo al pannello, giusto in mezzo al lunario che Betta ci aveva impastato sopra. In cotesto atto esclamò:
- O Betta, a te non correva debito amarmi, e pure mi amasti come madre! Tu nel tuo cuore di donna hai trovato sempre una parola di conforto pei miei dolori; e nelle tasche del tuo grembiale uno scudo alle mie matte spese: tu benefica come il sole, senza curarti se ti avessi preso in uggia, tutti i giorni ti sei levata per me, mi hai schiarito, e mi hai riscaldato. Quando ti sveglierai, e mi saprai partito, tu certo mi accuserai di cuore sconoscente, e pure non è così: non potendoti fare adesso, come non ti ho fatto mai, verun bene, non mi è bastato l'animo di torti la pace del sonno! O Betta, ecco io piango per te, io, che non ho pianto nello staccarmi dallo zio; ma tu queste lacrime non vedi, e non le crederai. O Santi che formate tutto questo lunario su cui appoggio il capo, se durate in paradiso ad essere quei fiori di virtù che già foste in terra, deh! siatemi testimoni voi presso Betta della sincerità delle mie lacrime nel separarmi da lei.
E staccò il capo dal lunario, ma il lunario non si staccò da lui: come il Crocifisso, dicesi, si sconficcò dalla croce per istringere nelle amorose sue braccia (bisogna avvertire per ogni buon rispetto ch'egli rimase sempre inchiodato nei piedi) santa Caterina da Siena, così il lunario si spostò dall'uscio per unirsi a Marcello, il quale lo rimise al posto per benino, dicendo: Sta al tuo posto, che dei lunarii da qui innanzi parmi, che io ne avrò da rivendere. Essendosi accorto poi di avere lasciato il cappello in camera dello zio, salì nella sua, ne prese un altro, e se ne uscì di casa abbottonandosi il vestito fino al mento, e proponendosi di non tornarci finchè non avesse messo insieme quattordici milioni. Una voce interna si attentò obiettargli: - O, se fossero dieci non ci torneresti? - No signore, hanno da essere quattordici: cascasse un quattrino, non se ne fa nulla.
Betta svegliatasi di soprassalto corse nello studio di Orazio, e lo trovò sul pavimento svenuto: non sì smarrì di animo la buona femmina, lo fece rinvenire, lo spogliò, lo sovvenne a coricarsi a letto, lo vegliò tutta la notte, e per altre sei consecutive, finchè non si fu rimesso in piedi di cotesta batosta.