ALL’ILLUSTRISSIMO
SIG. DOTTOR MATTEO FORESTI
MEDICO FISICO
Ottave
per il molto revererendo Padre Angelo Pastrovicchi
romano,
minor conventuale.
No:
dissi a tanti che a me versi han chiesti
Per
oratori, monache o sponsali;
E
dissi: No, per que’ motivi onesti
Che il
mondo sa quanti in me sieno, e quali;
Ma dir
nol posso a voi, saggio Foresti,
Per
quant’amo spirar l’aure vitali;
A voi
nol posso dir, ché in vostra mano
Sta il
farmi viver lungamente, e sano.
S’io
per questo terrò più dell’usato
Il
fragil arco della mente teso,
Da voi
sarammi farmaco prestato
Che il
capo serbi da disgrazie illeso;
Come
faceste già per lo passato,
Allor
ch’i fui dall’ipocondria preso,
Con
apprensioni vigorose e strane
Che il
mondo chiama volgarmente rane.
Oltre
di che, medico tal non siete
Che per
necessità solo si onori;
Ché
congiunta al saper voi possedete
L’arte
gentil d’incatenare i cuori:
Coll’impostura
inimicizia avete,
L’interesse
non forma i vostri ardori,
Impegnato
pe ‘l grande e pe ‘l mendico,
Del
vero amante, e degli amici amico.
Cantisi
dunque, e sia de’ carmi nostri
Sacro
oratore il nobile argomento;
Onde
lui per esempio altrui si mostri
D’alme
smarrite alla salute intento.
Ma come
sia, che i miei profani inchiostri
Cambino
di natura e di talento?
Contro
i vizi gridare anch’io m’avviso,
Ma il
pianto ei desta, e da me desto è il riso.
Pur v’è
talun che avvicinar non teme
L’arti
disgiunte, per lo scopo almeno
Di
sparger quinci di virtude il seme,
E dei
vizi scoprir quindi il veleno.
Il
piacere, il terror congiunti insieme
Recan
per tutto alla licenza il freno.
Quel
che più mi spaventa, è la distanza
Di sua
virtute, e della mia ignoranza.
Ma
questa non può far ch’io non comprenda
La
forza in lui delle parole sante,
Ché la
predicazione è tal faccenda
Ch’ave
a intendere il dotto e l’ignorante.
Ne
produr può la procacciata emenda
Chi
troppo s’erge dal Vangel distante;
Ché nel
giardin dal Redentor costrutto
Gli
altri son fiori, ed il Vangelo è il frutto.
Lice
per altro al buon cultor sagace
Ornar
di fiori anche il pomario eletto,
E più
invita a gustar pianta ferace,
Quando
all’utile unisce anche il diletto.
Tale il
sacro orator giova, se piace,
Ora il
cuore movendo, or l’intelletto;
Basta
sia il frutto della sua virtute
Gloria
non solo, ma !’altrui salute.
Però in
quest’anno mille settecento
Cinquantacinque
(oh epoca gloriosa!),
Nei
santi dì del santo pentimento,
Nel
tempio augusto di Maria Formosa,
In
questa, che nel liquido elemento
La sua
reggia fondò città pomposa,
A noi
mandò la Provvidenza industre
Del
Serafico Padre un figlio illustre.
Pastrovicchi, orator sul Tebro nato,
Dell’illirica
terra originario,
Di Girolamo suo lo stile ornato,
Dolce
insieme e robusto ha ereditario;
E nel
seguire il santo apostolato,
Giusta
la mente del roman Vicario,
Arder
di zelo e lacrimar fu visto
Per
ricondur le pecorelle a Cristo.
Il
primo dì che alla brutal succede
Notte
di Carnovale ultima indegna,
Che con
polvere umil la santa Fede
A
rammentare il nostro fin c’insegna,
Ah che
talor pur troppo alcun si vede
Ridere
in faccia alla lugubre insegna,
Ed
occupando dormiglioso il banco,
Udir la
Messa coll’amante al fianco.
Ma chi
per grazia della Provvidenza
Udir
poteo nelle sacrate porte
Del divino
orator l’alma eloquenza
Sgridar
il vizio, e favellar di Morte;
L’alma
tosto dispose a penitenza,
Temendo
il fin dell’infernal coorte,
E
pianse il reo del suo fallir pentito,
E la
cenere prese umil contrito.
Indi
talun che di Cristiano ha il segno,
E il
cuore innalza ad insultar la Fede,
Seguace
rio di quel costume indegno
Ch’oggi
nel mondo a prevaler si vede,
E il
più superbo pervicace ingegno,
Nell’udir
lui, trema, s’arrende, e crede;
Indi la
fede sua fa che si scopre
Verace
fede per la via dell’opre.
E chi
sdegno nutria, tenace, antico,
Col
funesto desio d’aspra vendetta,
Perdonare
fu visto al suo nemico,
E
correr tosto ad abbracciarlo in fretta.
Ah se
talun, ch’è delle risse amico,
Udita
avesse quella benedetta
Voce
divina, che penetra i marmi,
Cessato
avrebbe di perseguitarmi.
Lungo
troppo sarebbe il ridir tutti
I cuor
perversi, che da lui fur vinti.
Son del
suo amor, son del suo zelo i frutti
Le
rinate virtudi, i vizi estinti.
Ha con
dolcezza i docili condutti,
Ha i
contumaci col terror convinti,
E fa
che ognuno per diversa strada
A
penitenza salutar sen vada.
E la
Grazia efficace, od efficiente,
La
naturale, e soprannaturale,
E la
concomitante, e susseguente,
E
preveniente Grazia abituale,
E la
santificante, o sufficiente,
E la
forte di Dio Grazia attuale
Si ben
dipinse agli animi terreni,
Che di
Grazia divina essi fur pieni.
Non
più, dicean le femmine tra loro,
Del
prossimo non più mormorazioni:
Lingua,
flagello dell’altrui decoro,
Apprendi
a recitar sante orazioni.
La
famiglia, la Chiesa ed il lavoro
Sien le
nostre miglior conversazioni:
Cessino
in casa le orgogliose liti,
Ed il
tormento ai miseri mariti.
Non più
amori, non più, le verginelle
Diceano
anch’esse, lagrimando a prova;
Cessi
lo studio di lisciar la pelle,
Che or
vano è troppo, e in vecchia età non giova.
Ah non
più amori, le congiunte anch’elle
Dicean,
seguaci dell’usanza nuova:
Lungi,
lungi da noi, se dunque è reo,
Il
servente, l’amico, il cicisbeo.
E gli
usurari sospirar fur visti
Disserrando
tremanti oro ed argento,
E nel
privarsi de’ preziosi acquisti,
Per un
scudo sperar d’averne cento.
Ai
poverelli di miseria tristi
Parte
de’ suoi tesor donando a stento,
Gli
occhi chiudeva l’infelice avaro,
Per non
morir nel porgere il denaro.
Ma pur
convinti, svergognati, accesi
Di
timore e d’amore, a poco a poco
Dal
vizio andran dell’avarizia illesi,
Le
ricchezze cercando in altro loco.
Essere
il mondo da Francesco intesi
Un’ombra,
un fumo, un’illusione, un gioco.
Vera
eterna fortuna in Ciel ci aspetta;
Ma è la
strada del Ciel spinosa e stretta.
Quanto
costò nostra salute, ahi quanto
Alla Vergine Madre addolorata!
Rammentate,
Foresti, il largo pianto,
Onde la
Chiesa fu per noi bagnata,
Allor
che di Maria mostrocci il vanto
Dei tre
forti dolori in una fiata:
Figli
ciascun del triplicato amore,
Che le
feriro con tre punte il cuore.
E del
Figlio di lei, dell’Uomo Dio,
Che per
nostra salute è morto in croce,
Quando
più forte ragionar s’udio
Fra le
mura del tempio amabil voce?
Cuore
non fu sì pertinace e rio
Che
alla tragedia resistesse atroce;
Piangere
il giusto e il peccator fu visto,
Tutti
col buon ladron, niuno col tristo.
Sogliono
gli orator, pria di partire,
Lasciar
ricordi contro al rio demonio:
Piacque
a Francesco il minister compire
Coll’ampie
lodi del divino Antonio;
Opera
insigne, che potria servire
Sola
del suo valor per
testimonio:
Svelò
l’amor del
taumaturgo pio
Verso
sé, verso gli
altri, e
verso Dio.
Qual
maggior bene ricordar potrebbe
Oltre
l’imitazion di sì gran Santo?
Ma la
virtù, che in noi discese e crebbe,
Come
durare in noi vedrassi, e quanto?
Deh
quella fronte, ove il suo latte bebbe
L’anima
nostra, e dissetossi alquanto,
Torni,
deh torni a scaturir fra noi.
Pastrovicchi, signor, favello a voi.
A voi
favello, e meco
porto i voti,
Pieni
d’amor, d’una cittade intera.
Mirate
il cuor de’ popoli divoti,
Che vi
acclama, vi loda, ed in voi spera.
E di
Vinegia non son nomi ignoti
I
cittadini dove il Tebro impera.
Ella
divota al Vatican, qual nacque,
Col
mondo il regno finirà nell’acque.
Le
interne piaghe a medicare intento
Voi
all’alme porgeste ampia salute;
Ma dei
nemici recanci spavento
Le
minacciate triplici ferute.
Dell’Occasion
la predica rammento,
In cui
mostraste medica virtute:
Deh, se
‘l frequente medicar dà vita,
Replicateci
voi la vostra aita.
Di
rivedervi la fondata speme
Scema
il dolor della partenza vostra;
E
quanto a ognuno la salute preme,
Altrettanto
desioso in ciò si mostra.
La Musa
mia, d’altre più colte insieme,
La man
vi bacia, e con amor si prostra.
Piacciavi
d’aggradir la rima umile
Col mio
comico usato, amico stile.
|