ESOPO
ALLA GRATA
CANTI TRE
A SUA ECCELLENZA
IL SIGNOR CONTE
LODOVICO WIDIMAN
CANTO PRIMO
Deo
gratias: per favor, signora, i’ bramo
La
nuova sposa riverir, se lice.
Io son
colui che favolando in Samo,
Facea
pompa d’ingegno alto e felice...
Esopo,
gentildonna, è ver, mi chiamo,
Le cui
favole il mondo allega e dice;
Venti
secoli or son, m’han sotterrato,
E per
pochi momenti or son rinato.
Non
vogliate per questo aver paura,
Se al
parlatorio si presenta un morto;
Ché gli
estinti, per legge di natura,
A chi
vive non pon
fare alcun torto;
In sì
bel giorno a queste sacre mura
L’aure
vitali a respirar mi porto;
Tratto
pur ora dall’Elisia meta
Da
Polisseno, comico poeta.
Colui,
che tal fra gli Arcadi s’appella,
Ignoto
forse non sarà tra voi;
Ché le
monache ancor nella lor cella
Soglionsi
trattener coi scritti suoi.
Poiché
pingendo in umile favella
I
costumi, i difetti, avvenne poi
Che
grato rese agli uomini da bene
Lo stil
cambiato alle moderne scene.
Che se
ignoto ei vi fosse, alta signora,
Maria Quintilia lo conosce appieno;
E l’ha
veduto, e l’ha sofferto ancora
Seco a
pranzo vicin due volte almeno.
Ché di
sua grazia e protezion l’onora
Il cognato
di lei di gloria pieno,
Esempio
vero agli animi sublimi,
Per
sangue e per virtù: primo fra i primi.
Egli
perché (sentomi dir) non viene,
E manda
un altro a ragionar per esso?
Lungi
(rispondo) altro dover lo tiene,
Qua
venire per or non gli è concesso.
Ritornerà
su quest’Adriache arene,
E verrà
seco a consolarsi ei stesso.
Or
messaggiero degli affetti sui,
Vengh’io
frattanto a ragionar per lui.
Fate a
vostro bell’agio (io non ho fretta)
Maria Quintilia scendere alla grata,
E venga
pur la nuova sposa eletta
Dalle
amiche e congiunte accompagnata,
Con cui
vivendo in armonia perfetta
Godesi
in società vita beata;
Vengano
seco ad ascoltarmi anch’elle
Le
WIDIMANE amabili sorelle.
Prima
che giungan cavalieri e dame
(Che levan tardi, e non verran sì presto),
Ordinate,
però, ch’ella si chiame,
Un
breve a udir ragionamento onesto.
Di voi
frattanto le curiose brame
Interamente
soddisfar protesto;
E
appagherò, se il mio pensier vi svelo,
Non la
curiosità, ma il vostro zelo.
Nel
giorno in cui la vergine gentile,
Del Rezzonico sangue illustre figlia,
Al suo
Signore si consacra umile,
E a
ogni umano piacer chiude le ciglia;
Chi
ammira e loda l’animo virile,
Chi lei
conforta, e per amor consiglia.
Ma
d’uopo di consiglio o di conforto
Ella
non ha, che già si trova in porto.
Dopo la
guerra sostenuta e vinta
Contro
il senso, il demonio e il mondo audace,
Di
corona di gloria il capo cinta,
Ora
stassi a goder tranquilla pace.
Ma al
Divin Sposo, che adorare è accinta,
Con
mestizia servito esser non piace:
Onde a
quell’alme, cui d’amar s’impegna,
L’utile
al dolce mescolare insegna.
L’utile
al dolce mescolare un giorno
Cogli
apologhi miei Grecia m’intese,
Onde
sparsa di lor la fama intorno
Di più
bella virtù gli animi accese.
Oggi a
una Grata a favolar ritorno,
Nel
bell’Adriaco libero paese;
Non che
di mia moral d’uopo vi sia,
Ma per
diletto della vergin pia.
In un
dì sì solenne, ognun procura
L’amarezza
temprar del giusto pianto;
L’amicizia,
l’affetto e la natura
Voglio
aver io di consolare il vanto.
Delle
favole mie, novella e pura
Facile
allegoria preparo intanto...
Ecco,
ella vien; la riconosco, è dessa:
Vago
stuol la circonda, e a noi s’appressa.
Vergine
illustre, che d’Andriana il nome
Cambiaste
in quel della germana vostra,
Fatta
stella del Cielo, appunto come
Ella è
una stella della Patria nostra,
Or che,
recise le sottili chiome,
Fate di
bel valor pomposa mostra,
Vengo,
or che siete consacrata a Dio,
Vosco
di cuore a consolarmi anch’io.
Chi
son, noto saravvi, e chi m’invia,
E da
dove fin qua son io venuto,
Ché
questa Dama generosa e pia
Informar
vi avrà fatto per minuto.
Sediamo
dunque. Riverente in pria
Per
parte dell’amico io vi saluto,
Indi
lieto principio, in sì bel dì,
Le
Favolette ad ispiegar così.
1. Capro,
disceso, ad una Volpe unito,
Di
pozzo al fondo a ristorar gli ardori,
Dal
periglio riman
tardi atterrito,
E non
trova la via per escir fuori.
La
Volpe, cui non manca unqua partito,
Ed in
suo pro sa scegliere i migliori,
Scala
fassi del socio, e balza al suolo,
E lui
deride disperato e solo.
La
Favola vuol dir che, pria d’entrare
Fra i
calli incerti del sentiere umano,
Cautamente
conviene al fin pensare,
E
preveder le cose di lontano:
Siccome
voi dall’acque torbe amare
Temendo
un dì trovar l’uscita in vano,
Volgeste
al Ciel l’agili voglie pronte
A
dissetarvi nell’eterno fonte.
Ne vi
curaste che l’umano sguardo
Trovasse
in voi gli abbellimenti usati.
2.
Una Volpe a
contesa ed un Leopardo
Venner,
per esser di beltà lodati.
Disse
la Volpe a lui: Bel, se ti guardo,
Ti fanno
al dorso i colori variati,
Ma
gl’interni color, che tu non hai,
Rendon
lo spirto mio più bello assai.
Che
vale a dir, dell’apparenza esterna
La
virtù non si cura, e non s’appaga.
Conto
si fa della bellezza interna,
E se
un’anima è pura, allora è vaga.
Il
vostro cor, cui la virtù governa,
Fra le
pompe non erra, e non si svaga;
Vi
coprite per or d’un umil velo,
Indi
lucide spoglie avrete in Cielo.
E in
Cielo avrete la beata sede,
Frutto
di vera interna vocazione,
Per cui
moveste francamente il piede
Alla
felice santa Religione.
Speranza
vi conduce, Amore e Fede,
Non
minaccie, lusinghe, o indiscrezione,
Le quai
talor sotto le sante spoglie
Copron
dell’alma le forzate voglie.
Acconciamente
a caso tal si adatta
La
curiosa terza novelletta.
3.
Era un
giovane acceso d’una gatta,
E pregò
tanto Venere diletta,
Che
donna alfine divenir l’ha fatta,
E
dall’amante fu per moglie eletta;
Ma vede
un sorcio, e con un salto il giugne,
E
l’afferra, e v’adopra i denti e l’ugne.
Coll’Apologo
mio spiegar intendo:
Si può
stato cambiar, ma non natura.
Della
Grazia la forza io non contendo,
Ma
violenza soffrire è cosa dura.
Felice
voi, che per voi stessa avendo
Scelta
la cella, solitaria, oscura,
4.
Durevol pace a rintracciar venite,
Raffigurata
nelle verghe unite.
A voi
diletto, e ad altri medicina,
Colla
quinta recar favola or provo.
5.
Femmina possedea fertil gallina,
Che
ciascun giorno produceva un uovo;
Due per
averne, s’ange e si tapina,
E cibo
dassi a replicar di nuovo
Alla
sua chioccia, che soverchiamente
Ingrassata
dopoi, non fece niente.
Così
gli avari, per accrescer l’oro,
Perdon
dell’alma la miglior ricchezza,
E lo
stesso accader suole a coloro
Ch’han
degli onori e dei piacer vaghezza.
Ma voi,
sol vaga d’immortal decoro,
Posta
in non cale la natia grandezza,
V’appagate
del poco giornaliero,
Che
dell’anime giuste è piacer vero.
Maria Quintilia, del Signore ancella,
Che nel
seno chiudete un cuor sincero,
Altra
vi vo’ narrar pronta novella,
Che
piacere maggior daravvi, io spero.
6.
Due giovinastri d’alma nera e fella
Stabilirono,
uniti in lor pensiero
Per un
cuoco furar, lor arti usare,
Carni
fingendo di voler comprare.
Stese
un di lor, veggendolo occupato,
Destramente
la mano alla derrata;
E pria
che fosse il mastro rivoltato,
Diella
al compagno, e fu da lui celata.
Questi
giurò che non avea rubato,
L’altro
giurò che non l’avea celata.
Lor
dice il cuoco: Quel che a me negate,
Noto è
al Nume per cui scaltri giurate.
Non ve
l’ho detto, che piacere avreste
La
favoletta nell’udir morale?
Benedette
pur sian le genti oneste,
Che
hanno la lingua al pensamento eguale.
Ah, pur
troppo si dan di quelle teste
Che parlan bene allor che pensan male,
Che col
labbro vantar sogliono amore,
Ma non
risponde alle parole il cuore.
7.
Due amici viaggiando unitamente
Incontrarono
un Orso. Uno di quelli
Sovr’un
albero sale immantinente,
E
lascia che l’amico s’arrovelli.
Questi
morto si finge; a lui repente
L’Orso
s’accosta, e par che gli favelli,
Ma
credendo quell’uom la fera estinto,
Lascialo,
e parte per suo proprio instinto.
Sceso
dai rami quell’amico ingrato,
Che
ancor tremante il meschinel vedeva,
A lui
scherzevolmente ha domandato:
L’Orso
all’orecchio tuo che mai diceva?
La fera
(egli rispose) ammi avvisato
Qual
regolarmi in avvenir io deva;
E m’ha
insegnato a non viaggiar mai più
Con
amico infedel come sei tu.
La
Favola significa davvero
Per chi
ha il cuor doppio, simulato ed empio,
Beati
quelli che hanno il cuor sincero.
Sincerissimo
l’hanno, per esempio,
Vostro
cognato, amabil cavaliero,
E la
sua sposa; e di lealtade il tempio
Stassi
in tutta la vostra alma famiglia,
Che al
grande illustre genitor somiglia.
8. Egli
non fa come l’Oliva altera,
Che la
canna pieghevole disprezza.
Questa
nel cuor della stagione austera
L’urto
soffrir degli aquiloni è avvezza.
Ma
nella varia dolce primavera
Fulmine
scende, che l’Oliva spezza:
Vincon
gli umili le passioni acerbe,
Cedono
agli urti le anime superbe.
Miratel,
come docile di cuore
Offre
al Signor la cara Figlia in dono.
9.
Fu preso
in guerra un
certo suonatore,
Guidando
l’oste della tromba al suono.
Deh
cessate (dicea) meco il
rigore,
Non son
guerriero; il trombettiere io sono.
E per
questo (gridar tutti) s’uccida;
Pera
costui, che de’ nemici è guida.
E ciò
vuol dir, che dei commessi errori
La
cagione da Dio punir si vede
In que’
miseri ciechi genitori,
Ne’
quai l’amor verso i figliuoli eccede.
Non
così in lui, che coi celesti ardori
I
propri affetti regolar si vede,
Facciasi
(ognor dicendo il signor pio)
Non la
mia volontà, quella di Dio.
10.
Un Cane un giorno in un macello entrò;
Il
macellaio era voltato in là;
D’una
pecora il cuore ei si pigliò;
Veggendolo
il padron gli disse: Va;
Mangialo
in pace, e facciati buon pro,
Più
cauto in avvenir ciò mi farà.
La
Favola spiegar così conviene:
Quel
che ci sembra mal, ritorna in bene.
E ben
da Dio può dirsi benedetta
De’ Rezzonichi illustri la Famiglia,
In
Venezia, non men che in Roma, eletta
A
sostener la Porpora vermiglia!
Ed il
german, che con virtù perfetta
Regge
del Bacchiglion la dolce briglia,
E quel
che al Tebro del zio l’orme segue,
Non han
qua giù chi i pregi loro adegue.
Ma,
ahimè, tropp’alto di salir presume
Al suon
de’ carmi l’umile favella.
Finché
il santo seguii basso costume,
Fu
discreto il tenor della mia stella.
Ma in Delfo
alzato di grandezza al Nume,
Contro
me si destò l’invidia fella,
E a
Creso falsamente indi accusato,
Fui da
un monte colà precipitato.
11. Un
Somarello si affliggeva (ed ecco
Al
proposito mio la favoletta),
Perché
aveasi in un piè fitto uno stecco.
Chiama
il Lupo in aiuto; egli s’affretta;
Accosta
al piè del Somarello il becco,
E fuor
gli tira la crudel saetta.
Libero
il ciuco da quel rio tormento,
Donagli
un calcio per ringraziamento.
Sclamò
il Lupo avvilito: Ah, mi sta bene
La
cortesia che da costui ricevo:
Di
macellar l’uffizio a me conviene,
Seco
far da chirurgo io non dovevo.
Tale in
Delfo i’ prendea, fra le catene,
Dalla
filosofia tardo sollievo,
Indi
rinato a favolare adesso,
Torno
col Lupo a replicar lo stesso.
Almeno
forse mi dirà: buon segno,
12.
Come un Medico disse all’ammalato,
Il
quale da un dottor di bell’ingegno
Venendo,
come stesse, interrogato,
Un dì
gli disse: Son d’umori pregno;
Un dì:
Son lasso per aver sudato;
La
terza volta: Ahimè, fiaccato i’ sono;
Ed il
Medico sempre: Il segno è buono.
L’infelice
alla fin venendo a morte,
Misero,
come stai? richiesto viene;
Io vo
(rispose) ver l’eterne porte
A forza
di buon segno e di star bene.
La
favola dimostra per le corte
Che
discacciar gli adulator conviene,
Quai
con vane lusinghe altro non fanno
Che
nascondere il vero, e recar danno.
Voi
però non temete... oh cosa vedo!
Ecco
dolci, rinfreschi e cioccolata.
Maria Quintilla, a me sì bel corredo?
Spiacemi
che vi siate incomodata.
S’io
non ne beverò, perdon vi chiedo,
Ché non
si usava nell’età passata,
Ed in
mia vece, beveralla un giorno
Polisseno
Fegejo al suo ritorno.
Fintanto,
dunque, che il rinfresco gira,
Riposiamoci
alquanto, e prendiam fiato.
Accorderò
la dissonante lira
Datami
da colui che mi ha mandato.
Sento
che Apollo nel mio seno ispira
Il
poetico stile inusitato;
E
canterò, con il celeste aiuto,
Quando
avranno mangiato e avran bevuto.
CANTO SECONDO
Buon
pro, signore mie, buon pro vi faccia.
Voi
faceste merenda, ed io frattanto
Stava
mirando attentamente in faccia
Due
fanciullette, che mi piaccion tanto.
Il cuor
sul volto ad ambedue s’affaccia,
Vedesi
in lor delta modestia il vanto,
E si
ravvisan le virtù pregiate
Del
sangue Widiman, da cui son nate.
In
Grecia, allor quand’ero tra i viventi,
Mi
dilettava dell’astrologia.
Feci
talor maravigliar le genti
Vaticinando
a quella gente ria.
Oh quai
glorie preveggo! oh quai portenti,
Nella
dolce gentil fisonomia
Delle
vezzose amabili sorelle,
Tanto
nel volto che nell’alma belle!
Cresciute
un giorno nella bella etade
In cui
prende vigor l’adolescenza,
Ciascheduna
di lor per varie strade
Seguirà
l’orme della Provvidenza;
E in
grazia appunto della lor bontade,
Avran
dai genitori ampia licenza
Di
sceglier stato; e fia la scelta loro
Di
comun gioia, di comun decoro.
Una la
veggo incamminata al chiostro;
L’altra
allo stato coniugai diretta.
Qual di
lor seguirà l’esempio vostro?
Di voi
ciascuna ch’io lo sveli aspetta.
Ma
tingersi le guancie di bell’ostro
Miro
dell’una e l’altra giovinetta:
La maggiore
mi fa cenno ch’io taccia;
La
minore mi sgrida, e mi minaccia.
Tacerò
dunque, e tornerò a pigliare
Delle
favole il corso. 13. Un Pastorello
Conduceva
la greggia in riva al mare,
Ch’era
tranquillo, e gli parea sì
bello,
Che
desio concepì di navigare.
Delle
pecore sue vendé il drappello,
Palme
comprando, e per il mar sen gia
Lieto
della novella mercanzia.
Poco
tardar le squille furibonde
A minacciar
del tempestoso vento;
Le
merci tutte il marinar confonde,
E in
sen le getta al liquido elemento.
Esce
alfine il pastor salvo dall’onde
Senza
le palme sue, mesto e scontento;
Torna
il mare tranquillo, ed ei sul lido:
Della
calma (dicea) più non mi fido.
Il
Mondo è un mar che lusingando alletta
L’alme
innocenti, e chi di lui si fida,
Il
proprio mal miseramente affretta,
Ché
l’inganno e la frode in lui s’annida.
Quintilia, voi, che in stabile isoletta
Fermaste
il piè, dove l’amor vi guida,
Mirate
i tardi vergognosi pianti
Dei
miseri nel mondo naufraganti.
Né
(qual della novella il buon pastore)
Cauti
son resi dai sofferti danni;
Ma tornan volontari, e di buon core,
In seno
ancor dei superati affanni.
Vinto
il primo timor, spento il rossore,
Van
scherzando d’intorno ai lor tiranni,
E di
ciò spiega i modi e la ragione
Favola
della Volpe e del Leone.
14.
La Volpe, che aver suol timido il cuore,
Veduta
non avea l’ingorda belva:
Oh qual
la prima volta ebbe terrore,
Che ‘l
Leon vide in solitaria selva!
Fu
minor la seconda il suo timore:
Alla
terza con lui pasce, e s’inselva.
La
favola vuol dir, che a poco a poco,
Quel
che ci fe’
tremar, si fa per
gioco.
E chi
vive nel mondo, e la brigata
De’ rei
non segue, avrà dileggio e scherno;
Quale
alla Starna, nel pollaio entrata
Le
crude nevi a riparar del verno,
Perché
di penne variamente ornata,
Fecero
i Galli asprissimo governo :
Costume
rio, che il critico consiglia
Sprezzar
chi nei difetti nol somiglia.
Ma
allorquando la Starna i Galli vide
Egualmente
infuriar contro se stessi,
Che lo
fan per costume ella s’avvide,
E
compatì la ria natura in essi.
Tal de’
critici rei le lingue infide
Vorrebber
tutti, a poter loro, oppressi,
E dai
morsi crudei non vanno esenti
Gli
empi malvagi, e gli umili innocenti.
E può
dirsi di lor quello che un giorno
16.
Disse in casa la Volpe allo Scultore.
Vide un
capo di marmo, liscio, adorno,
Opra
famosa di famoso autore:
Capo
(disse l’astuta) hai bel contorno;
Non
potea lo scalpel farti migliore:
Begli
occhi, bella bocca, e naso bello;
Ma il
punto sta, che tu non hai cervello.
Meglio
è però fuggir dai comun danni,
E lungi
andar, come faceste voi.
17. Invitò
un Carbonaio un netta-panni,
Perché
egli andasse a ripulire i suoi.
Dissegli
il lavatore: Ah, tu m’inganni;
Lordo i
miei cenci, e non pulisco i tuoi.
L’innocente
sedur talor si è visto,
Anzi
che il buon renda migliore un tristo.
Quanti
contro al demon si vantan prodi,
E son
vinti ed oppressi ad uno ad uno!
18.
Come colui che si gloriava in Rodi
Aver
nel salto superato ognuno.
Dissegli
un uomo saggio: invan ti lodi;
Qui de’
Rodiani non abbiamo alcuno;
Ma i
testimoni rintracciar che giova,
Se puoi
qui far del tuo valor la prova?
Alla
prova, alla prova, anime vane;
Seguite
tosto d’umiltà l’insegna.
Abbandonate
le grandezze umane,
E
detestate la superbia indegna.
Ecco Maria Quintilia in rozze lane
I rei
nemici a superar v’insegna;
Non
seguite, mendaci, il reo costume
D’un
empio che pregava il biondo Nume.
19. Un
uom tristo tenea sotto al mantello
Un
Augellino fra le man celato.
Se
morto o vivo fosse, il tristarello
Chiese
ad Apol, che avesse indovinato,
Nell’animo
volgendo iniquo e fello,
Allor
che ‘l Nume fossesi spiegato:
S’egli
morto dicea, mostrarlo vivo,
E se
vivo il credea, di vita privo.
Empio,
fa come vuoi (rispose il Nume):
Vivo è
se ‘l brami, e se ‘l vuoi morto, ei muore;
Io, che
sono nel Ciel rettor del lume,
Leggo
nell’alme, e ti conosco il cuore.
Tal
nell’età presente empio costume
Vedesi
pur di mascherar l’errore.
Sotto
l’ipocrisia langue la Fede,
Ma il
cuor dell’uom Dio lo conosce e vede.
Vede e
conosce il cuor di certe tali,
Che col
labbro soltanto i voti fanno;
E se
patiscon poi di cento mali,
Mertan
che lor sia detto: Vostro danno.
Voi, Quintilia Maria, fra le Vestali
Lieta i
congiunti vostri ognor vedranno,
Ché
castitate, povertà, obbedienza
Giuraste
per amor, non per temenza.
Ed
ebbe, oltre l’amor, parte il timore
Di
perdere il miglior tempo pregiato.
20.
Tese in mare le reti un Pescatore,
Ed ebbe
un solo pesciolin pigliato;
Questi
pregava il predator di cuore,
Che
l’avesse di nuovo al mar gettato,
Promettendo
tornar poscia, l’astuto,
Quando
fosse più grande in mar cresciuto.
Ma
stolto (disse il Pescator) non sono,
Il
presente lasciar per il venturo.
Quel
che abbiamo in presente è un certo dono;
E non è
l’avvenir per noi sicuro.
Quando
del Pescator così ragiono,
Legger
nell’alma vostra io mi figuro,
E
udirvi dire: Ah, questo tempo è mio:
L’avvenir
non s’aspetti: andiamo a Dio.
Soffrir
dovrete qualche peso amaro,
Penitenze,
digiuni, aspri rigori;
Ma chi
non soffre in questo mondo avaro,
Avrà
pesi nell’altro assai maggiori.
21. Un
Caval (con rispetto) ed un Somaro
Ivano
carchi negli estivi ardori.
Disse
al primo il secondo: ahi, troppo io porto;
Mi
solleva, compagno, o ch’io son morto.
Sordo
il destriero sollevar nol vuole,
L’altro
cade svenuto in sull’arena;
La soma
allor dell’asinina prole
Del
Cavallo il padron cresce alla schiena.
Oimè
(disse la bestia in sue parole),
Ben mi
sta di soffrir la doppia pena:
Una
parte del peso ho ricusato,
Ora del
peso inter m’han caricato.
Prima
fatta fu già l’applicazione
Facile
delle due bestie parlanti;
E dee
chiamarsi prefabulazione,
Quando
si fa della
novella innanti,
A
differenza d’affabulazione,
Che
dopo vien gli apologi galanti;
Delle
favole altrui spiegando i sali,
Sien
morali, sien misti, o razionali.
Or per
seguire l’ordine preciso
Delle
trentatré favole primiere,
Che
colle quattrocento andar ravviso,
Spurie
la maggior parte e forestiere,
La
Favola potrà, se ben m’avviso,
D’un
Satiro e d’un uom darvi piacere,
Qual è
nel libro, che di sali abbonda,
La
novella vigesima seconda.
22.
Con un Satiro un uom sedendo allato
A lieta
mensa sull’erbosa falda,
Ghiaccie
aveva le mani, onde col fiato
Accostandole
al labbro, le riscalda.
Indi
piatto bollente a lui recato,
Col
fiato affredda la minestra calda.
Il
Satir disse: Non vo’ starti appresso;
Caldo e
freddo respira il labbro istesso.
Leggo
nella moral di tal novella
Che
fuggire si dee chi ha doppio cuore.
Ma
voglio or darle spiegazion più bella,
Ed io
lo posso far, che son l’autore.
Il
demonio s’arrabbia e si martella
Che da
uno stesso labbro ode uscir fuore
Tante
verso del Ciel benedizioni,
E tante
contro lui maledizioni.
No, non
ti crede, perfido Satano,
Questa
vergine saggia. 23. Era nel verno,
Ed il
cibo mancando ad un Villano
Che la
fame sentia roder l’interno,
Le
pecore ammazzò di mano in mano,
Indi
fece de’ buoi simil governo;
E i
cani suoi un tal macel veggendo,
Dal
padrone fuggian, così dicendo:
Ah, se
il padron non la perdona a’ buoi,
Che
coll’aratro lo servian sovente,
Non la
perdonerà nemmeno a noi,
Che
l’ossa divoriam senza far niente.
Brutto
demonio, se coi servi tuoi
Ti
compiaci trattar barbaramente,
Se
mendace li alletti e poi li uccidi,
Perfido,
chi di te vuoi che si fidi?
Sì, pur
troppo talun di te si fida,
E
degl’inganni tuoi ti paga ancora,
Onde
avvien che si strazi e si derida
Chi
troppo tardi il suo destin deplora.
24.
Cerca un Uomo soccorso, e mesto grida,
Perché
un morso canino lo addolora;
Ed ei
vien consigliato, al tristo cane
Che
addentollo crudel, gettar del pane.
Soggiunse
l’Uom: Se ai denti del mastino
Mi
volessi mostrar docile e grato,
Allora
sì, meriterei, meschino,
Esser
da tutti i cani morsicato.
Chi
provoca, chi irrita il suo destino,
Pietà
non merta nel più duro stato,
E si
suol dire all’ostinato oppresso:
Chi è causa
del suo mal, pianga se stesso.
Quel
che in periglio è per amor caduto,
Vuol
tornare ad amar? Si rompa il collo.
Quel
per la gola in povertà venuto,
Goda,
tripudii, e dia l’ultimo crollo.
Colui
ch’è vivo per celeste aiuto,
Tornisi
a infracidir sino al midollo.
Giochi,
chi vuol giocare, in sua buon’ora,
E
perder possa la camiscia ancora.
Oh
benedetta sia la vostra cella,
Maria Quintilia, vergine felice,
Ove al
perfido Amor le sue quadrella
Volger
ardito, e misurar non lice.
Turba
di rei desir non vi martella,
Non vi
appresta il velen cuoca
inventrice,
E nei
giochi permessi ai sacri Chiostri
Sono
premio innocente i Paternostri.
Quei
che han del gioco il vizio inveterato,
Fanno
appunto così: sentite bene.
25.
Un Tonno da un Dolfin perseguitato
Sovra
uno scoglio a rifugiar si viene.
Il
Dolfino lo segue; e il mar calato,
All’uno
e all’altro di morir conviene;
Disse
il Tonno: Morrò, ma almen guadagno
Di
veder a morire il mio compagno.
Pazienza
(dice il giocator talora),
S’io
dovessi restar senza denaro,
Basta
che l’altro ne sia senza ancora,
E che
almen tutti due siamo del paro.
In
questo mondo ciaschedun lavora
Con un
principio d’interesse avaro;
Ma
all’uom succede come nella nostra
Favola,
che ora segue, si dimostra.
26.
Un Cacciatore le sue reti stende,
Dove un
Palombo sovra un albor vede;
E
mentre in alto alla sua preda attende,
Una
Serpe crudel gli punge il piede.
Così
sovente chi le insidie tende,
Del
pericolo proprio non s’avvede;
E
meditando d’ingannare altrui,
Cade
egli stesso negl’inganni sui.
Quinci
e quindi si vede, ognor si sente
Dall’umana
malizia a tesser trame;
E nel
laccio cadendo... oh quanta gente!
Vengono
in frotta, cavalieri e dame.
Maria Quintilia, servo riverente;
Sono,
il sapete, grosso di legname;
E la
rozzezza mia non si confà
Col
ritual della moderna età.
Ma chi
son questi? L’avolo gentile
E la
prudente vostra genitrice,
E ‘l
vostro genitor, pietoso, umile,
E la
sorella amabile Felice.
Veggo
la Bonfadini, a cui simile
Portaste
il nome e la virtù. Se lice,
Seguirò
seco lor le favolette,
Ché son
anime tutte al ciel dilette.
Superbia,
vanità non
guidan seco;
San
gli affetti
gradir dell’umil
gente.
Testé
trattando Polisseno meco
Di
lor parlommi rispettosamente.
Polisseno
non è mica cieco,
Che
se ha scarso intelletto,
e corta
mente,
Ha
pratica però tanta di mondo,
Che
sa conoscer le persone al fondo.
Vengano,
ch’io di
qua non m’allontano:
Aspetterò
fin che
aspettar conviene.
Baciate
prima ai genitor la mano,
Che
stan per voi col cuor amante in pene.
E
dite lor ch’ogni timore è
vano,
Ch`oggi
certo si rende il vostro bene,
E
contenta di ciò siete a tal segno
Che
non lo cambiereste
con un regno;
Che
il momento aspettar vi par mill’anni
Di
pronunziar quelle
sacrate
note,
E il premio aver de’ soggiogati affanni
Dalle
mani del santo sacerdote;
Che il
vostro cuor de’ barbari tiranni
Essere
in avvenir segno non puote.
Eccoli;
son qui tutti: or cedo il loco;
Stommi
in un canto, e tornerò fra poco.
CANTO TERZO
Umil
m’inchino all’Eccellenze Loro:
Ecco,
per obbedir, torno alla grata;
Prendano
pure il solito ristoro
Della
sostanziosa cioccolata,
Ch’io
frattanto, seguendo il mio lavoro,
Terminerò
la lunga cicalata,
In cui
di tutto cuore io m’affatico,
Perché
mi cale di servir l’amico.
Di
compatire vo’ pregarvi in prima
Il
rozzo canto, mal tessuto, umile,
Mentre
s’io parlo in prosa, o parlo in rima,
Quest’è
l’antico mio solito stile.
So che
i carmi sonori il mondo stima,
E
l’umil verso riputato è vile;
Ma il
facile ed il ver fu ognor mio scopo:
Così
parlò, così favella Esopo.
E se i
miei carmi fossero stampati
(Alcun
di voi tenendoli a memoria),
Supplico
i Fiorentini delicati
Alle
mie spalle di non far baldoria.
I
termini cruscanti ricercati
Lascio
a chi Fonda nello stil sua gloria:
Io, più
che ad altro, alla morale ho atteso,
E mi
piace da tutti essere inteso.
So che
queste erudite Religiose
Capirebbono
il Berni e ‘l Malmantile,
Perché
son tutte dame virtuose,
Nate di
sangue illustre e signorile;
Ma
veggo dietro le cortine ascose
Certe
converse, d’estrazione umile,
Cui son
le voci inusitate oscure,
E ho
piacer che capiscano esse pure.
La
vigesima settima novella
Nel mio
stile narrando, or così dico:
27.
Un Astrologo in piazza un dì favella
Al
popol sciocco di menzogne amico,
Mentre
la casa sua da gente fella
Spogliata
viene, e trovasi mendico:
Oh tu,
che presagisci i danni altrui,
(Dissegli
un tal) non prevedesti i tui?
Or
detto avrebbe uno scrittor cruscante
Di quei
dai madornali paroloni:
Stavasi
in piazza un falso chiromante
A
spacciar fanfaluche ai baccelloni,
Mentre
una truppa di monelli errante
Sperpera
il tetto suo fino agli arpioni;
Ed un
gli dice: Rumini le stelle,
Ma che
rubato sei, non sai covelle.
Onde
talun, che non intende appieno
Covelle,
sperperare, arpion che sia,
Il vero
senso, la moral nemmeno
Intender
della favola potria.
Parla
con quelli che a se stessi meno
Pensan
che agli altri, la novella mia;
E
perché tutti intendano del paro,
Dir la
cosa conviene chiaro, chiaro.
Permettetemi
dunque ch’io prosegua
Cal
medesimo stil che ho principiato,
Che se
il merto di chi ode non adegua,
La sua
semplicità nol rende ingrato;
E
voglia il Ciel che Polisseno il segua,
E il
metro lasci dal Martel nomato,
Ché
quanto prima sentiransi i cani
Baiar
anch’essi in versi martelliani
28. Stese
un Uccellatore in mezzo al prato
Le
reti, e un Merlo avendolo veduto,
Chiese
quel ch’ei faceva. Ho fabbricato
Una
città, disse il villano astuto;
Ma
poscia il Merlo nella rete entrato,
Veggendosi
prigione ritenuto,
Disse
all’Uccellator: se così fai,
Nella
città pochi abitanti avrai.
Lasciam
da parte l’interpretazione,
Che ai
principi consiglia la pietade,
Se
accrescer voglion la popolazione
Di
qualche regno o di qualche cittade;
E
siccome la gola e l’ambizione
Fa sì
che ‘l Merlo nella rete cade,
Diciam
che scorta ad ogni dolce invito
La
prudenza esser dee, non l’appetito.
Il
demonio che d’anime va a caccia,
Cambia
nome egli pure al trabocchetto;
Per
esempio dirà quella bestiaccia:
Voglio
far un festin, far un banchetto;
Ma a
colui che vi va, buon pro gli faccia;
Qual
entrò non se n’esce il poveretto;
Principia
il traditor con suoni e canti,
E
finisce la scena in doglie, in pianti.
E gli
servon sovente per zimbello
Due
parolette d’un labbro scorretto,
Un viso
nato brutto e fatto bello,
Un malizioso
raggirar d’occhietto.
Cacciasi
da per tutto Farfarello,
Passa
dagli occhi e dall’orecchie al petto,
E
misero quel tetto ov’egli caccia
La
maledetta orribile codaccia.
Qua no,
qua no, fra queste sante mura
Farfarello
non entra o Gambastorta:
Qua
l’innocenza stassene sicura,
E trova
il seduttor chiusa la porta.
L’Angelo
del Signor quest’alme ha in cura,
E al
cielo i santi sacrifizi porta:
Sacrifizi
d’amor, sinceri segni,
Non
come quei, ch’or sentirete, indegni.
29. Viaggiando un Peregrin, fe’ voto a Giove,
Se avesse per la via cosa trovata,
Dargliene
la metade. I passi move,
Ed ecco
tosto nella via calcata
Datteri
ritrovò, mandorle nuove,
E fece
una buonissima giornata;
Ma
tutto tutto si mangiò ad un tratto,
Senza
al voto pensar che aveva fatto.
Il
mancatore, di mangiar finito,
L’ossa
e le scorze in un paniere unì,
E disse
a Giove, temerario, ardito:
La
metade promessa eccoti qui;
Ma
dell’inganno suo fu poi punito,
Perché
il Nume sdegnossi e lo punì,
Come
tant’altri castigar io veggio
Ch’offrono
al Cielo in sagrifizio il peggio.
Talun
fa voto d’obbedienza intera,
E poi
si vede ad obbedir per forza;
Sagrifizio
non è d’alma sincera,
Del
frutto in vece è un offerir la scorza:
L’altro
promette castitate vera,
E in
parte solo gli appetiti ammorza;
E tal
protesta povertade in tutto,
Ma dona
l’osso, e per sé vuole il frutto.
Non
così voi, Maria Quintilia, al
certo
Non
così voi nei sagrifizi usate.
Voi
sapete da saggia acquistar merto
Allora
ancor che per dover oprate.
Il
vostro cuor nella virtude esperto
Rendeste
già nella primiera etate,
Sotto
la saggia educazion felice
Di
provida discreta genitrice.
30.
Narrasi che alla scuola un Fanciulletto
Rubò un
giorno al compagno un libriccino.
Alla
Madre il portò, che per affetto
Non
punì, non corresse il reo bambino.
Crebbe
in esso cogli anni il rio difetto,
E
divenne col tempo un malandrino,
Onde
per ordin della regia Corte
Fu
preso alfine, e condannato a morte.
Mentre
al palco sen va, mesta e piangente
Siegue
il figliuol la
sconsolata vecchia;
La
conosce il meschino in fra la gente,
E a sé
la chiama; e mentre s’apparecchia
Baciar
il figlio suo madre dolente,
Colui
la morde, e strappale un’orecchia;
Forte
gridando il misero garzone:
Questa
della mia morte è la cagione.
Se
corretto m’avesse il fallo primo,
Forse
il secondo non avrei commesso;
Indi
caduto non sarei nel limo,
Ripassando
dall’uno all’altro eccesso.
Utile
tanto la novella io stimo
Per
certe madri ch’io conosco adesso;
Le
quali, dall’amor mal consigliate,
Han le
loro figliuole assassinate.
Dice la
figlia: Cara madre, andiamo.
Andiam
(rispoìnde) a divertirci un poco.
Vorrei
ballar: Si, figlia mia, balliamo.
Vorrei
giocar: Vadasi pure al gioco.
Vorrei
veder...: Quel che tu vuoi, vediamo.
Parlar
vorrei...: Trovisi il tempo e ‘l loco.
Cosa
succede poi? Succede quello...
Ve lo
direi, ma qui vi vuol cervello.
Benedetta
la madre che unir sa
Coll’onesto
rigor l’amor più vero,
E
quando sono in una certa età,
Manda
le sue figliuole in monistero,
Dove
non solo per la santità
Cercasi
di condurre il lor pensiero.
Ma lor
si presta saggia educazione
Anche
per la terrena vocazione.
In
questo chiostro di virtude amico,
Di
nobili donzelle almo ricetto,
Che
l’Ordin santo Agostiniano antico
Ha per
sua guida religiosa eletto,
Il lodato
sistema io benedico
Di non
far forza al tenero intelletto
Delle
fanciulle, ma nel genio loro
Con
saggezza educarle, e con decoro.
Ecco di
quel ch’io dico un bell’esempio
In
queste tre Rezzoniche germane:
Furo
allevate le
minori al tempio,
E la maggiore
per le cose umane.
Del
Ciel (dicendo) ogni decreto adempio
Guidandole
per vie fra lor lontane,
A
quello stato dove son chiamate,
La
savissima zia che le ha educate.
Vano
è il poter, vano è l’uman consiglio,
Contro al decreto ch’è nel Ciel formato.
31.
Un vecchio
Padre
il cacciator suo figlio
Sognossi,
ch’era da un leon straziato.
Per
evitare il facile
periglio,
Un
bel palagio ha il
genitor
formato
Da
pinte fere vagamente adorno,
Dove il
figlio tenea serrato il giorno.
Irato
un dì contro un leon dipinto,
Il
giovin disse: Brutto animalaccio,
Per te
m’ha il padre in queste mura avvinto:
Un
occhio or or colle mie man ti caccio.
In così
dire, a vendicarsi accinto,
Mena un
pugno sì forte a quel capaccio,
Che da
un chiodo ferito in una mano,
Tenta
il meschino di guarire invano.
Sopraggiunge
la febbre all’ammalato,
E
medicina al suo dolor non vale.
(Forse,
per suo destin, quel disgraziato
Medico
ritrovò peggior del male).
Finalmente
di vita egli è mancato,
E un
dipinto leon fu il micidiale;
Volendo
colla favola inferire,
Dal
destinato non si può fuggire.
Onde,
che faccia pur, che dica pure,
Chi
tenta violentar l’altrui destino,
Che
Dio, per strade ai sensi nostri oscure,
Sa la
gente condurre ai suo cammino.
Ma qui,
tra voi, possono andar sicure
L’anime
elette dal favore divino :
Ché nel
chiostro di Santa Caterina
Quello
solo si vuoi che ‘l Ciel destina.
Destina
il Ciel che sieno religiose?
S’insinua
l’orazion, la penitenza.
Vuole
il destino che si faccian spose?
Lor
s’insinua la quiete e la pazienza.
Dappertutto
vi sono e spine e rose;
Dappertutto
vi vuoi senno e prudenza;
E quel
che rende le anime sovrane,
Egli è
il disprezzo delle cose umane.
32.
Un Calvo, ch’esser tal si vergognava,
Finti
capelli al capo si ristucca,
Poiché
in quel tempo non s’accostumava
La
zazzera tagliar per la parrucca.
Era a
cavallo, e ‘l vento che soffiava
Scoprir
gli fece la pelata zucca;
Onde
gli fu da una gentil brigata
Fatta
una solennissima fischiata.
Raccorcia
il vecchio al suo destrier la briglia,
Al
popolo si volta, e dice: O voi,
Perché
vi fate tanta meraviglia,
Che
perda i finti, chi ha perduto i suoi?
La
Favola rifletter ci consiglia
Che i
beni, che non son nati con noi,
Si
smarriscono presto; e chi è prudente,
Della
perdita lor non si risente.
Di
ricchezza il tesor che abbandonate,
Maria Quintilia, non vi caglia un zero,
Ché le
ricchezze a noi sono prestate,
E
quaggiù non si gode un bene intero.
Quel
che vale assai più, con voi portate
Dalla
casa paterna al monistero:
Il
sangue illustre e la virtù sublime,
Che son
d’ogni mortal le glorie prime.
Ma non
vorrei oltrepassare i modi
Prescritti
altrui dalla modestia vostra,
Ché
nemico del fasto e delle lodi
Quell’umil
ciglio angelico si mostra,
Cauta
temendo le studiate frodi
D’adulazion
non giungan nella chiostra
Ad
ingannar il vostro cuor, così
Come
fece la Volpe al Corvo un dì.
Veramente
le trenta tre novelle,
Che ho
promesso narrar, sarian finite;
Ma
siccome ve n’era una fra quelle,
Che non
lice narrar, quest’altra udite,
Ch’è forse
la più bella fra le belle,
Che
sono a me medesmo attribuite,
Tratte
dal greco in modo peregrino
Da
Guglielmo Canonico in latino.
33.
Vide una Volpe svolazzar sul faggio
Corvo
che il rostro proveduto avea.
All’odore
scoprìo ch’era formaggio,
Cibo
che a lei moltissimo piacea.
Disse
al Corvo l’astuta: Oh bello, oh saggio;
Di cui
la fama tanto mal dicea!
No, che
all’invidia creder non si deve,
Corvo
gentil, più bianco della neve.
E
poiché in te della bellezza il vanto
Chiaro
si vede nel vezzoso aspetto,
Io mi
figuro il tuo soave canto
Quale
all’orecchie recherà diletto.
Sentendosi
il bruttaccio lodar tanto,
Per
ringraziarla è di cantar costretto.
Apre la
bocca, ed il boccon reciso
Mangia
la Volpe, ed è il meschin deriso.
L’Apologo
dir vuol: vi son taluni
Volonterosi
d’essere adulati,
Che
quanto meno han meriti comuni,
Tanto
di gloria più sono invogliati.
Gl’ingordi,
perché il ventre non digiuni,
Soglion
tener quest’idoli incensati;
Ma se
termina l’esca, in un momento
Queste
Volpi da lor van come il vento.
Però
tornando a voi, che saggia siete,
Non sol
la falsa adulazion sdegnate,
Ma
ricusare niente men solete
Le
oneste lodi da voi meritate.
Quella
modestia che nel sen chiudete,
Forma
corona alle virtudi innate...
Ma
gente cresce all’odierno invito;
Io
partirò, che ho il mio dover compito.
Come
meglio potei, vate inesperto,
L’incarco
a me da Polissen commesso
Procurai
adempir. Però son certo
Che
meglio fatto non l’avrebbe ei stesso;
Che
qual io son, scarsissimo di merto,
Confessarlo
convien, pur troppo è anch’esso;
Ma
l’uno e l’aitro riserbiam nel petto
Per sì
nobil consesso umil rispetto.
Torno
colà dove stett’io finora,
Ma dove
non dirò sia la mia sede;
Ché
nessun morto non ha detto ancora
E
abbastanza per me parla la fede.
Quel
che or si sa, non si sapeva allora
Ch’ebbi
dai Greci barbara mercede.
Cresce
la folla, ed io, con lor licenza,
Bacio
le mani, e faccio riverenza.
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