GOLDONI IN VILLEGGIATURA
LETTERA IN VERSI A
UN AMICO
Amico
dilettissimo. — Di me cosa direte,
Che
ancora una mia lettera veduta non avete?
Ormai
quindici giorni saran, ch’io son partito,
E a
scrivere all’amico finora ho differito.
Causa
non è di questo d’amor la deficienza,
Ma un
poco di faccende, e un po’ di negligenza.
Volete
che vi narri quel che da me si fa?
Al
solito son pronto a dir la verità.
Principiando
dal giorno della partenza mia,
Giunsi
tardi al burchiello, ch’erasi posto in via.
E Marta
alla finestra, con amoroso impegno,
Diedemi
colle mani di sua partenza il segno.
Lo
raggiunsi ben presto. V’entrai velocemente,
Vidi
ch’era di popolo pieno mediocremente;
Ma
tutti esaminando sin dal primier momento,
Non
ritrovai soggetto di mio compiacimento.
Una
femina sola era nel camerino,
Che
sempre il caro sposo voleva a sé vicino.
Era il
di lei marito sul fior di gioventù,
E la
sposina amabile di cinquant’anni e più.
Con
tutti col discorrere cercando frammischiarsi.
Sovente
del marito solea
pavoneggiarsi;
Narrando
qualche fatto ad altri o a lei sortito,
Chiamava
in testimonio il docile marito,
E s’ei
teneva altrove le luci rivoltate,
Dicea
mortificandolo: Ma via, non mi badate?
Ed egli
che avea altrove rivolto il suo pensiero,
Mostrava
di capirla, e rispondeva: È vero.
Al
Moranzan smontando, la man le offersi ardito;
Ella
non mi rispose, diè mano a suo marito.
Giunti
a pranzo alla Mira, tutti colà smontati,
Lo
sposo e la sposina in barca son restati,
E
quando ritornammo, al solito in disparte
Lo
sposo e la sposina giocavano alle carte.
Dagli
uomini di barca ebbi io l’informazione
Ch’avea
la buona vecchia sposato il suo garzone,
E ch’ei
la secondava cortese in ogni invito,
Per
guadagnar le doppie lasciate dal marito.
Ecco
quanto di buono, ecco quanto di bello
Trovai
per divertirmi nel corriero burchiello.
Giunti
alle ventidue di Padova alle mura,
Trovar
comodo alloggio fu l’unica mia cura.
Trovai
pieno alla Stella, e fui da una persona
Pratica
del paese condotto alla Corona,
Ove
l’oste mi venne un letto ad offerire,
Col
pattuito esborso però di quattro lire.
Era fra
me dubbioso se là dovea restare
Il
giorno di San Pietro, o viaggio seguitare.
Poi
dissi fra me stesso: differirò la gita,
Se
l’Opera mi piace, se alcun seco m’invita.
Vo la
sera al teatro, i virtuosi ascolto;
Per dir
la verità, non mi dilettan molto.
Veggo
il ballo primiero, gran cose io non vi trovo,
Con impazienza
aspetto di assaporar il nuovo.
Piacemi
sul principio, poi coll’andar mi tedia
Veder
una sciocchissima stucchevole commedia;
La Mimì
che nel ballo ha un merito perfetto,
Faceva
i personaggi del Spirito folletto,
E Pitrò
valoroso, che il ballo intende bene,
Sul
gusto d’Arlecchino facea le controscene.
Piacquemi
per un poco l’allegra pantomima,
L’introduzion
mi piacque, Pitrò mi piacque in prima.
Al
primo personaggio, fino al secondo e al terzo,
Fu
delle controscene soffribile lo scherzo,
Ma al quarto,
al quinto, al sesto, tanto aspettai e tanto,
Fur le
buffonerie spiacevoli altrettanto,
E il
danzator francese, che con la grazia alletta,
Diventò
un personaggio da piazza e da burletta.
Gli
attori non condanno famosi sulle scene,
Ma ad
un’Opera regia tal danza disconviene,
E quel
che moderato reca diletto e gioia,
Se la
misura eccede, reca dispetto e noia.
Per il
primier motivo (dissi) a partir mi appresto,
Vediam
per il secondo se resto o se non resto.
Giro
per i palchetti, vo a visitar più d’uno:
Tutti
mi fan finezze, e non m’invita alcuno.
Certo
signor fra gli altri chiede ove sia alloggiato.
All’osteria,
gli dico; ei fe’ lo disgustato,
Perché
al di lui palazzo ito non sia a drittura,
Mostrando
di godermi sollecita premura.
Metto
pel giorno appresso in dubbio la partita,
Egli mi
dà il buon viaggio, e a pranzo non m’invita.
Dovea
dunque soletto mangiar all’osteria?
Presto
accordo un calesse, doman voglio andar via;
M’alzo
alle undici in punto, bevo la cioccolata:
Fin che
la messa ascolto, la sedia è preparata.
Salisco
nel calesse verso le ore tredici,
E
trovomi a Bagnoli verso le ore sedici.
Non
posso dir la festa con cui fui ricevuto:
Tutti
benignamente mi diero il benvenuto.
Fatto
il mio rispettoso umile complimento,
Andai
nel preparato solito appartamento.
Ecco la
quotidiana vita che si fa qui,
Poco
più, poco meno, la stessa in ogni dì.
S’alza
ciascun dal letto quando gli pare e piace,
E sta
nella sua camera godendo la sua pace
Sino
all’ora di messa, vicino a mezzo giorno,
E gli
ospiti divoti vi van tutti ogni giorno.
Terminata
la messa, ciascuno si raguna:
Chi
provasi nel gioco tentar la sua fortuna,
Chi
legge, chi passeggia, chi ragionar si sente;
Io,
d’ognun più vizioso, gioco perpetuamente,
A
concina, a tresette, all’ombre ed a picchetto,
Ed a chi
fa più, perde, che è gioco maledetto.
Una
sera ottocento ne vinsi in men d’un’ora,
E l’ho
prima d’alzarmi perdute in mia malora;
Otto
volte finora al gioco del tresette
Giocai,
ed ho perduto in otto volte sette;
All’ombre
una sol volta finora si è giocato
Con un
ch’andava in oca dal gioco riscaldato,
E
quando la fortuna per me parea disposta,
Sento
dir freddamente: Facciamo la risposta.
A
picchetto da prima giocato ho con fortuna,
Ho
poscia riperduto con simile sfortuna;
Per
altro bilanciando la cassa del mio gioco,
Consiste,
a dir il vero, la differenza in poco.
Per
solito si gioca sino che ad avvisare
Veggasi
il cameriere ch’è pronto il desinare.
Ciascun
prende il suo posto, ciascun maneggia i denti,
E si
danno, per dirla, mangiate onnipotenti.
Non
descrivo la tavola: da ciaschedun si sa
Del
padrone di casa la generosità;
Dico
ben che è un piacere veder tante persone
Unite a
buona tavola a far conversazione.
E quel
che è più lodevole, e quel che più diletta,
È
l’amor vicendevole e l’armonia perfetta;
I
nobili signori, ripieni di bontà,
Concedono
ai più bassi l’intiera libertà;
Le dame
gentilissime; anch’esse generose,
Sono a
tutti egualmente discrete ed amorose,
E salvo
quel rispetto che vuol la maggioranza,
Fra gli
ospiti diversi si vive in fratellanza.
Terminata
la tavola, talun passa al riposo,
Al
tavolier giocando ritorna il più vizioso.
Ed io,
per dire il vero, spesso un di quei son stato,
Che
invece di dormire al gioco è ritornato.
Verso
le ventidue suole l’amica gente
Di
nuovo nella sala trovarsi unitamente.
Ora si
va al passeggio, ora alla spezieria;
Si
passan l’ore fresche in dolce compagnia.
Ora il
padron di casa andar tutti destina
In più
cocchi a Conselve, tre miglia a noi vicina,
Ove
abita una certa signora spiritosa,
Vestita
per lo più di colore di rosa.
Alle
ore ventiquattro ritornati a Bagnoli,
Nella
chiesa al rosario si va, buoni figliuoli;
Poi
ragunati in sala ai soliti diletti,
Si
bevon le acque fresche, si bevono i sorbetti.
E l’ora
della cena stassi colà aspettando,
Chi a
legger, chi a discorrere, chi al solito giocando.
Tutti
la cena invita al splendido ambigù;
A letto
senza cena io vado per lo più;
Ché
dopo aver mangiato si bene a desinare,
Non
posso d’altro cibo lo stomaco aggravare.
Ho
descritto sinora il metodo ordinario;
Quando
si fa commedia, anche il sistema è vario.
La
mattina al concerto si va in stanza remota;
Ciascun
le proprie scene ode, concerta e nota.
Chi va
nel trovarobe a scegliere il vestito,
Chi a
scrivere il cartello da esporre per l’invito.
Chi fa
delle sue scene sommario e zibaldone,
Chi
copia la sua parte, chi ordina e dispone.
Poscia
nel dopo pranzo si va nella gran piazza
A
dispensar viglietti a gente di ogni razza.
Vengono
preti e frati, signori e cittadini,
Medici,
mercadanti, fattori e contadini.
Vengono
di lontano fino li zoppi e i storti,
Domandando
i viglietti per l’anime dei morti;
Ed è un
piacer vedere sfilar tante persone
Ad
occupar per tempo le panche del salone.
Dopo il
rosario solito, coll’acque e coi sorbetti
Vanno i
scelti uditori a rinfrescare i petti.
Verso
l’ora di notte vola il sipario in su,
E suole
la commedia durar tre ore e più.
Cosa è
in vero mirabile, e un sforzo d’intelletto,
Far che
duri tre ore un semplice soggetto.
Nel Burchiello
ho dipinto i caratteri veri
Che in
scena rappresentano le dame e i cavalieri.
Sol Sua
Eccellenza Pasta io non avea più inteso:
Facondo
e spiritoso mi piacque, e mi ha sorpreso.
La recita primiera giunsi in tempo a
godere:
Fu
questa il Dissoluto, commedia del mestiere;
Principiò la padrona, che fa la
prima parte,
Colle
belle parole fatte secondo l’arte,
E l’onor singolare fu dato alla mia
mano
Di
servir questa dama in verso martelliano.
Fu la commedia in vero sì ben
rappresentata,
Che
piacque sommamente a tutta la brigata,
E al fin della commedia diedesi
compimento
Dall’eccellente
dama con altro complimento.
E recitò sì bene i poveri miei carmi,
Ch’ebbi
giusto motivo anch’io di consolarmi.
Questa recita prima in sabbato seguì,
E
poscia la seconda si fece il martedì,
In cui fur dal Priuli sì ben
rappresentate
Del
vecchio Pantalone le comiche bullate.
Meglio non si poteva riuscir a parer
mio;
Ed in
questa commedia ho recitato anch’io.
E postomi all’impegno ardito, a
briglia sciolta,
Quattro
parti diverse ho fatto in una volta.
Prima un Ebreo, di quelli che
fan negozii in ghetto;
E mi
riuscì di farlo con pubblico diletto.
Poscia d’un Cortezan sostenni
la figura,
Ma
credo che mi sia riuscito una freddura.
Mancando a questa scena il solito Dottore,
Feci il
secondo vecchio senza mio disonore.
E all’ultimo riuscimmi gradito alle
persone
Certo Magazziniere,
chiozzotto di nazione.
Pel sabbato venturo, feci una
commediola
Apposta,
non essendovi che serva o donna sola,
Avendo la commedia in parte ricavata
Dalla Pupilla
in sdruccioli nei miei tomi stampata.
Per non levare ad altri la parte
consueta,
Pensai
a lavorare la parte del poeta,
E mi fu suggerito dal comico cervello
Far in napolitano la parte del Coviello.
Videsi in quella sera, non so per qual
ragione,
Insolito
concorso di nobili persone;
Tardi allor dell’impegno io mi trovai
pentito,
E mi ha
la soggezione moltissimo avvilito.
È ver che ho scritto molto, ma in
verità, compare,
Altro è
scriver commedie, ed altro è il recitare.
Parlare all’improvviso ad una colta
udienza,
Senza
l’uso di farlo, così senza esperienza,
È cosa da confondere non solo il mio
talento,
Ma
ognuno che si esponga a un simile cimento.
La commedia, per dirla, era assai
faticosa
Per me,
per tutti gli altri non men pericolosa;
E pure i dilettanti, con merito
eccellente,
Benché
difficilissima, l’han fatta egregiamente.
Io non so che mi dire; alla caricatura
Supplii
mediocremente col lazzo e la figura.
E fino ch’io sostenni la mia giocosa
parte,
Poteva
i miei difetti coprir la comic’ arte.
Ma avea nella commedia, per mio fatal
tormento,
Preparato
a Coviello un tal travestimento,
Una funzion con cui dovea con arti
ladre
Fingermi
astutamente della Pupilla il padre;
E secondo il disegno dovendo
convertirla,
Con
parole patetiche dovevo intenerirla.
Maledetto patetico! Comincio a
favellare,
E con
un tuon lugubre principio a predicare.
Conosco il mio difetto, vo’ mutar
cantilena,
Non
trovo le parole, perdo il fil della scena.
Mi si scalda il cervello, sudo dalla
fatica,
Non so
quel che mi faccia, non so quel che mi dica.
Il Pasta se ne accorge, vuol ripiegar
per me:
Io
rompo il suo discorso senza saper perché.
La dama ch’era in scena mi parla sul
proposito,
Io
sbalzo fuor di riga, rispondo uno sproposito.
Si termina la scena, come non so, per
Dio;
Non so
quel che abbia detto, so che un be... son io.
Pien di vergogna e rabbia volea fuggir di scena,
Ma
passar si doveva per l’udienza piena.
Dal mio riscaldamento alfin mi
sollevai,
Cogli
altri la commedia a terminar andai.
Preparato un sonetto avea per compimento,
In cui
chiedeva al popolo il suo compatimento.
Al sonetto tre versi di coda
appiccicai,
E
questi recitandoli sul fatto li cambiai.
Eccolo qui il sonetto, eccolo qui,
leggete,
La
mutazion dei versi al fin ritroverete.
|