LA TAVOLA ROTONDA
Poemetto giocoso in occasione de’ felicissimi sponsali
fra Sua Eccellenza il sig. Pietro Contarini e Sua
Eccellenza la signora Maria Venier.
Saggio,
eccelso signor, signore adorno
Di gloria e di virtù, Pietro gentile,
Grato non isdegnate in sì bel giorno
Prestar l’orecchio alla mia musa
umile;
Sogni non vuò narrar del vero a
scorno,
Qual de’ vati moderni usa lo stile:
Desta la veritade il mio pensiero,
Debole è il mio cantar, ma canto il
vero.
Di
quel foco soave, onde Cupido
Per la sposa gentil vi accese il petto,
Cantar voleva, e dalla dea di Gnido
L’estro impetrar per sì sublime oggetto;
Ma di Venere bella io non mi fido,
Né d’Apollo aver so miglior concetto.
Tai sognate deità giovano poco,
A darmi aita veritade invoco.
Bella
cosa è l’udir de’ Vati il coro
L’acque d’un fonte immaginar beato,
Figurar di Parnaso il verde alloro,
E di nove Sorelle il stuol sognato!
Vano favoleggiar! L’estro canoro
È un occulto nell’uom potere innato:
E il fonte ver d’immagini fecondo
Sono le verità scoperte al mondo.
Questo
è il Parnaso mio, questo è il mio nume,
Questo è il terren dove l’allor
coltivo.
L’Apollo mio della natura è il lume,
Sotto gli auspici suoi medito e
scrivo.
Delle genti pingendo il ver costume,
Con qualche gloria in questo mondo io
vivo,
E al pubblico recar sogl’io diletto
Sol con arte a
ridir quel ch’altri han detto.
Ora, signor, che ad ascoltar
v’invito
Le laudi vostre e della sposa egregia,
Non mi crediate dal costume uscito,
Di cui mia musa e lo mio stit si
pregia.
Quello dirò che ragionare ho udito,
Quello dirò che più vi adorna e
fregia,
Quel che l’altr’ieri a Tavola Rotonda
Di voi si disse in compagnia gioconda.
Un
illustre Romano, un cavaliere
Padron mio vero e conoscente antico,
Amante di trattar genti straniere,
Dei begli spirti e del buon gusto
amico,
Mentr’io stava sedendo al mio
mestiere,
Meditando alla scena un nuovo intrico,
Venne, e: Lascia (mi disse) il tuo
lavoro;
Vari amici a pranzar ti von con loro.
Seco mi
mena all’onorato albergo,
’Ve di varie nazioni ospiti io veggo.
Ogni tristo pensier mi lascio a tergo,
E l’immagini liete il cor provveggo.
Colla zuppa e i ragù venuti all’ergo,
Alla tavola anch’io m’inoltro e seggo;
Faccio bene da prima il fatto mio,
E l’usato silenzio osservo anch’io.
Girando
i piatti e le bottiglie intorno,
L’allegrezza si desta e la favella.
Chi narra i viaggi suoi, chi del
soggiorno
Parla giulivo di Venezia bella.
Chi di femmina loda il viso adorno,
Chi pel gioco si lagna e si martella,
Chi questiona, chi scherza e chi
sospira,
Chi il riso ha in bocca e chi negli
occhi ha l’ira.
Che bel
quadro per me bizzarro e nuovo
Di caratteri veri e originali!
Li studio attento e di raccor mi provo
All’usato esercizio i materiali
Per esporli, non già, com’io li trovo,
Ma con l’arte di farli universali;
Sicché in scena si vegga il vizio
espresso,
Ma nessun possa dire: Io son quel
desso.
Vari si
fer ragionamenti alterni,
Or di guerra, or d’amore, or di
costume,
Facendo a ognuno i sentimenti interni
Alle labbra venir del vino il nume.
Se dell’uomo gli spirti il vin
governi,
Senza offuscar della ragione il lume,
Suol l’attiva possanza aprir la mente,
Ed il vero si vede e il ver si sente.
Si usa
pur troppo il simulare al mondo,
E la lode ed il biasmo in cuor si
asconde,
Ma l’uomo reso in compagnia giocondo,
Come pensa a ciascun parla e risponde.
Il più serio talor divien facondo,
Il più timido e vil non si confonde,
E anch’io fatto ho taler colla
bottiglia
Batter le mani ed inarcar le ciglia.
A dir
principia l’Italian grazioso,
Che m’avea seco a desinar condotto:
Amici, un cavalier si fa lo sposo,
Ch’è giovin saggio e ch’è brillante e
dotto,
Cavaliere non men grande e famoso
Per l’eccelsa prosapia, ond’è
prodotto,
Per i beni del sangue e di fortuna,
Ma per quella virtù che in lui si
aduna.
Pietro ha nome lo sposo, e Contarini
È la nobile sua ducal famiglia.
È la sposa Maria di peregrini
Meriti adorna, e d’un Veniero è figlia.
Nomi noti son questi oltre i confini
Ove il sole s’imbruna e s’invermiglia;
E la bella città, che all’Adria
impera,
Per tai nozze sen va giuliva e altera.
Un
Parigino, rubicondo in viso,
Mescolando il francese all’italiano,
Quasi colto da fulmine improviso,
Salta in due piedi col bicchiere in
mano,
Ed esclama: Ah mon Dieu! nel mio
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J’è connù queste nobil
veneziano.
L’amor e la tandress, dan tutt fasson,
De famme de la Cour fut ce garçon.
Allon
don a vuer l’amable epuse.
Prego la sua meson dir a muè,
Spere l’hourous garçon no me refuse
Che je sante l’honour e l’amité.
Allon, de mon paì seguendo l’use,
Je condurè la dam se promenè.
Che je suì contan! Mes compagnon,
Alla sante de mon amis bevon.
Viva don Pedro, (dice uno Spagnuolo)
Nobile esclarecido
veterano.
Mucho estimo Don Pedro, aquel
star solo
Digno dell’amistad di un Castigliano.
Es don Pedro mi amigo, e mi consolo
Hablar d’esso col rei, ch’es mio jermano.
Viva donna Maria e l’imeneo
Muchos agnos tambien como desseo.
Prende
in mano un Tedesco
una bottiglia,
L’accosta al labbro e vuol vederne il fondo,
E ripieno di vin sino alle ciglia,
Mostra il viso ridente e il cuor giocondo.
Iò, cospette di bacco (a dire el piglia),
Ie conosciute Contarin per mondo.
Star braf mne, ome grande affer
gran nome :
le safer, ie proffar star
calantome.
Ie non fedute ancor spossa Fenier,
Ma mi star de so casa serfitor,
recordar, che Fienna caffalier
Girolame fenute ambassador.
Ome de gran firtù, de gran saper,
Generose, pietose e de gran cor,
A so tafola un dì mi affer befute
Trenta glozz de Tokai per so salute.
Dice
allora un Furlan: Cospè
di Giò!
D’Udin logotignit hai cognossù
De ce fameje un cavalir anch’iò
Che ha in del chiaff le sapienzie
e le vertù.
Soggiunge uno scolar di quei del Bò:
Sto nome a l’è famoso anca da nu.
No saiu ch’a l’è sta nostro. Rettore?
E quell’altro daspuò Refformatore?
Esce
fuori con
garbo un Venezian,
Ch’era stato paziente ad ascoltar:
Siori, me fè da rider, da cristian,
Co de ste cosse ve mettè a parlar.
Credème, se andè drio fina doman
Ste do fameggie nobili a lodar,
No farè gnente, perché, a quel che sento,
Delle lode ve manca el fondamento.
Bisogna
in
prima de ste do fameggie
Considerar l’antichità, i splendori.
Bisogna tor per man le maraveggie
Dei primi Dosi e i primi Senatori:
I prencipi saver, saver le reggie
Dove prima i xe stadi Ambassadori.
Necessario è saver per mar, per terra,
Quel che ha fatto i so vecchi in pase e in guerra.
Se
ve preme saver, lezè le istorie,
Troverè sette dosi Contarini,
E tre Venieri, e sentirè le glorie
Che del mondo ha impenio tutti i
confini.
Vederè le prodezze e le vittorie
De sti nobili eccelsi Cittadini,
E sentirè che li decanta e onora
Con gloria e amor la Santa Chiesa
ancora.
Sedea
vicino al Veneto eloquente
Un taciturno Asiatico polputo,
Ed alzando la voce, a dir si sente:
Persia star Contarini conosciuto.
A Usum-Cassan imperador possente
Stato Venezia ambassador venuto
Ambroso Contarin, bona memoria,
E aver scritto talian Persiana
istoria.
Gustandosi
la bocca un Turines,
Disse: mi car sgnor, lolì fa nen.
Del mil e sinquessent a dir ho intes,
Ch’han invoiá Simon dei Contaren,
Ambassador affabile e cortes,
Al duca Emanuel noster souren,
E m’an dime, che chiel fu tant amà
Dai omen, dalle donne e dai masnà.
Valgame Dios (torna a ridir l’Ispano)
Esta generaction de semidei,
Esto Simon, patricio veneziano,
Venne in Espagna
embaxadore al rei.
E poscia ambasciator (dice il Romano)
A Paolo Quinto fu spedito anch’ei.
E (ripiglia il Persian) Simon fu
stato
Bailo Costantinopola mandato.
Era fra
i commensali anche un Inglese,
Che immobile sedea senza parlare.
Coi denti stretti a favellare ei prese
In modo tal, che si sapea spiegare.
Disse: Io lette latin dan mio paese
De Gaspard Contarin tan libre rare,
E ben provate queste cardinal,
Che l’anima dell’om star immortal.
Io li
stava ad udir cogli occhi ardenti,
Pieno di gioja e di dolcezza il petto,
Ché a sì grandi famiglie e si clementi
Serbo anch’io, come gli altri, umil
rispetto.
Ah, signori, diss’io, gli eroi viventi
Sian del discorso e delle laudi
obbietto,
Ché se degni d’allor fur gli avi loro,
Pullula ancor quel verdeggiante
alloro.
A me si
volge il mio cortese amico,
E mi dice: Goldoni, a te si aspetta
Cantar le glorie di un amor pudico,
Che dei sposi sublimi il nodo
affretta.
Tu, che avvezzo già sei per uso antico
Trattar la Musa al genio tuo diletta,
Quale uscisti talor gaio e fecondo,
Trova argomento all’Imeneo giocondo.
Un
Lombardo che affetta esser cruscante,
Col riso in bocca e col veleno in petto,
Ergesi intorno in aria di pedante,
E favella così senza rispetto:
Vada prima a studiar Petrarca e Dante
Chi vuol fare canzona ovver sonetto;
E chi vuol schiccherar brillanti
ottave,
Abbia dal Berni o dal Burchiel la
chiave.
Come si
può soffrir che un uomo scriva
Senza il conciossiaché, senza il
quandunque?
Per mieter palme all’apollinea riva
Deesi la crusca adoperar dovunque.
Non bastan no del basso vulgo i viva
De’ sacri allori a coronar chiunque,
E poeta chiamar si puote indarno
Chi le pure non bebbe acqua dell’Arno.
Questi
(soggiunse) che da voi si loda,
Zeppi di barbarismi ha i scritti suoi.
Il plauso, il grido, l’aiutar con
froda
Finor gli amici ad usurpar tra voi.
Faccia baldoria pur, gongoli e goda,
Abbia uno stuol di mecenati eroi,
Vanti l’opre tradotte in più d’un
suolo:
Basto i suoi carmi a scorbacchiare io
solo.
Mi
chiedete ragion perch’io lo faccia?
In bronzi, in marmi, la ragion si
scriva.
Basta che opra qualunque a me non
piaccia,
Perch’io creder la deggia opra
cattiva.
Ah mi scrosciano l’ossa, e mi si
agghiaccia
Il sangue ed ogni parte sensitiva,
Quando a vanvera leggo e all’impazzata
Il suo Esopo, il Te Deum, la
Mascherata.
C’est
un fou, c’est un fou, disse il Francese;
Lustich star, lustich star, disse il Germano;
Splin chiamò l’entusiasmo il saggio Inglese;
L’è mat, saugneli in chel, disse il Furlano;
Disse chiel è Guascon, il
Piemontese;
Esto es piccaro, disse il grave Ispano.
Persiano dicea: Star mamalucco.
E il Venezian: Vardè che omo de stucco.
Io
dissi allor:
Signori miei,
perdono
Volentieri l’insulto a me dovuto.
Purtroppo il so che buon scrittor non
sono,
E che ai fonti miglior non ho bevuto.
Qual mi detta il mio stil, scrivo e
ragiono,
E talor per fortuna ho anch’io
piaciuto.
Ma guai a me, se il fiorentin frullone
A sceverare i scritti miei si pone.
Posso
in comica scena impunemente
Barbare frasi adoperar talora:
Basta che dal comun di nostra gente
S’intenda il frizzo e la sentenza
ancora.
Ma dovendo a poemi alzar la mente,
E la lira accordar grave e sonora,
Lo confesso ancor io con buona pace,
Al grand’uopo supplir non son capace.
Or, per
esempio, che cantar dovrei
Di due sposi sublimi il pregio, il
vanto,
Sollevare non vaglio i versi miei,
Umile troppo e troppo rozzo ho il
canto.
Come i pregi poss’io narrar di lei,
Che guida Amor del Contarini accanto?
Come di lui cantar, vile qual sono,
L’alma virtù che nel suo petto ha il
trono?
Della
bella Veniera il volto e il cuore
Mertano i carmi dei poeti egregi,
E di Pietro la gloria e lo splendore
Merta che altro cantor lodar si pregi.
Più degna coppia il faretrato Amore,
Coppia più adorna di ricchezze e fregi
Non unì mai, dacché la sua faretra
Colpi vibrar alle grand’alme impetra.
Bello
é il veder la vergine impaziente
Che il gran momento a suoi desiri aspetta,
E la madre di lei, saggia e prudente,
Inspirarle nel cuor virtù perfetta.
Bello è il vedere il genitor sapiente
Distaccarsi dal sen la sua diletta;
Bello è il vederla del germano allato,
Della Patria decoro e del Senato.
O di
gloria e di laudi eterno oggetto,
Pietro illustre, gentil, sapiente,
umano!
Pietro, che nutre nell’eroico petto
Vero zelo d’onor, spirto sovrano!
Cantar mi sento dal desio costretto,
Ma lo basso mio stil s’adopra invano;
Amici, per pietade, a sì alto volo
Aiutatemi voi, non basto io solo.
Di Borgogna
un bicchier tosto ripieno,
Si prepara il Francese a dir suoi carmi.
Il Tedesco col vin nato sul Reno
Par che anch’ei si disponga a
secondarmi.
Seguendo gli altri lo Spagnuol non
meno,
Vien col Tinto di Spagna ad
animarmi.
Prende un vaso di Ponc
l’Inglese in mano,
Piccolit il Furlan, Cipro il Persiano.
Un
gotto de nostran portème qua,
(Dice ridendo il Venezian brillante)
Ghe n’avemo anca nu de qualità
Meggio assae de Borgogna e d’Alicante.
Sul Padoan, sul Visentin, se fa
Vin che piase in Ponente e anca in Levante;
So che se stima più quel ch’è, lontan,
Ma mi, quando el xe bon, bevo el
nostran.
È vero,
è ver (l’amico mio risponde),
In Italia vi son preziosi vini.
Dice il Cruscante: Buoni vini altronde
Non beonsi che in terreni fiorentini.
Del bel suolo toscano e l’aure e
l’onde
Pon nei tralci istillar liquor divini;
Ma di un nettare tal bagnarsi è
indegno
Celabro chi non ha di crusca pregno.
Risero
tutti, e tutti unitamente
Brindisi al sposo ed alla sposa han
fatto.
Il Francese cantò graziosamente,
Dello sposo tessendo il bel ritratto;
Pinse l’imagin sua sì vivamente,
Fece di sue virtù sì vago estratto,
Che i commensali, ad ascoltarlo
intenti,
Di lui si diero a presagir portenti.
Disse
allora l’Inglese in sua favella,
(E spiegate mi fur le sue parole)
Che produrre dovea pianta sì bella
Frutto novel di avventurosa prole.
Narrò come dal Ciel pura fiammella
L’anima degli eroi discender suole,
E i robusti ci feo carmi sentir
Di Pope, di Adisson, di Sechespir.
Ed il
grave Spagnuol fatto sereno,
Versi cantando in stile castigliano,
Stile d’ogni altro stil difficil meno
Da capir, da tradurre in italiano,
Viva Pietro,
dicea, di gloria pieno,
Viva l’onor del popol veneziano;
Il mio Don Pietro colla sua compagna
Possa venire ambasciadore in Spagna.
Anche
il Tedesco in Sassone purgato,
Ch’è la lingua miglior di quel paese,
Lodando i sposi ha un madrigal
formato,
Ma nessuno di noi le rime intese.
Quel che voleva dir, ci fu spiegato
Bastantemente dall’amico inglese,
E dicea che il Prussiano all’armi
accinto,
Se vedesse Maria, sarebbe vinto.
Mi, soggiunse il Persian, no
star poeta,
Altro no saver dir, che viva sposi.
Tutta la compagnia gioconda e lieta
Viva, disse, ed al viva anch’io
risposi.
E il Furlan nella sua lingua faceta,
Che ha voci strane e termini curiosi,
Disse: Domenegiò, che ha fatt les
stellis
Us dia dei fruzz e des fantatis
biellis.
Cantor
s’intese il Venezian: De cuor
Digo eviva anca mi sti cari sposi,
Li benediga el Ciel, prego el Signor
Che i se ama sempre, e che no i sia
zelosi.
Quando Zelenza Piero avrà l’onor
D’esser sentà dove se senta i dosi,
Sarò contento, e gh’averò un bel tema
Per formar anca mi qualche poema.
Il
Romano cantò: L’eroe sublime
Spero veder del regal manto adorno;
Per condurlo di gloria all’alte cime
Gli stanno il merto e la virtude
intorno.
Preparate, poeti, e cetre e rime
Per esaltar la sua grandezza un
giorno;
E giunto poi d’eternitade al tempio,
Serva ai nipoti e ai cittadin
d’esempio.
L’affettato
Lombardo anch’ei voleva
I riboboli suoi versare a iosa,
Ma nessuno di noi soffrir poteva
Frasi che han d’uopo di comento e chiosa.
Ei, che di dentro più d’ogni altro
ardeva
Di dir qualche stupenda e strana cosa:
Me accolgan, disse, questi eroi del paro
Della lor protezion sotto l’AMPARO.
Fì,
fì, (esclama
il Francese) cet ramparo
Je n’antand, che vol dir? Disse l’Ispano:
Es bocabolo nuestro. Oh termin raro!
Disse, ridendo, il cavalier romano.
L’Inglese replicò: Feduto chiaro
Beffer poco Lombardo Arno toscano.
Soggiunse il Venezian: Mo i xe pur
bei!
E il Furlan: Nol ghin sà, no
sacrezei.
Si levò
dalla mensa, e rabbuffato
Partì il pedante, e non ci disse
addio.
Giunse in quel mentre un messagger
mandato
A dar la nuova che la sposa uscìo.
Per vederla ciascun s’è congedato,
Partì l’amico, e coll’amico anch’io;
Egli per via m’incoraggiava al canto;
Io costante dicea: Non vaglio tanto.
Altro
non posso far, che in umil foglio
Narrare i fatti e registrare i detti
Della tavola nostra, e uscir
d’imbroglio,
Merto acquistando cogli altrui
concetti.
Ma plagiario costume usar non soglio,
Vuò che la verità s’ami e rispetti.
Dirò le laudi che dei sposi ho intese,
Ma dirò degli autor grado e paese.
Ecco,
Signor, com’io dicea da prima,
Ecco la verità ne’ fogli miei.
Dirvi in segno sincer d’ossequio e
stima
Più di quello che intesi io non
saprei.
Se lodarvi sapessi in prosa o in rima,
Il luogo, il tempo e l’argomento
avrei;
Ma povero di mente e d’intelletto,
Basta ch’io sappia dir quel ch’altri
han detto.
Il
resto poi chiuso lo serbo in cuore,
Serbo il vero rispetto a voi dovuto,
E la certa speranza e il vivo ardore
Che aggradir vi degniate un mio
tributo.
So ch’io non merto un sì sublime
onore,
Misero qual io sono e sconosciuto:
Ma so che a voi la gentilezza è guida;
Ciò all’ardire mi sprona, e ciò mi
affida.
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