IN OCCASIONE CHE VESTE IL SACRO ABITO RELIGIOSO
NELL’INSIGNE MONISTERO DELL’UMILTÀ LA SIGNORA
ANTONIA
REVESSI
EPISTOLA
Al signor Carlo Santagiustina
Carlo
Goldoni scrive, e s’inchina,
Ed in
risposta d’un suo viglietto,
Con cui
per monaca chiede un sonetto,
Torna a
ridirgli con verità
Che un
buon sonetto fare non sa.
Scherzando
un giorno col caro amico,
Disse
Goldoni: Se un tale intrico
Soffrir
io deggio per amor vostro,
Vengano
i dolci dal santo chiostro;
Ei, che
verranno, mi ha assicurato,
Ed io
di scrivere sono impegnato.
Ma
tanto ho detto finor per monache,
Tanto
ho lodato le sacre tonache,
Che
alla mia Musa, che alla mia testa,
Su tal
proposito più dir non resta.
Vorrei
pur tessere un pensier nuovo,
Ma più
che il cerco, men lo ritrovo;
E
questa volta, cortese amico,
Servirmi
io deggio del stile antico.
I bravi
artefici che più ne sanno,
Che inventan mode novelle ogn’anno,
Talor
ripigliano per novità
Quel
che si usava trent’anni fa.
Io
parimenti, che tanto ho detto
Finor
di nuovo su tal soggetto,
Torno
allo stile che han praticato
Quelli
del secolo oltrepassato.
Il più
bel pregio della poesia
Era in
quel tempo l’allegoria;
Ora dal
nome, or dallo stema,
Allor
solevasi pigliar il tema,
E per
le monache principalmente
Quello
facevasi comunemente;
Onde
gli antichi seguendo anch’io,
Vuò
assottigliare l’ingegno mio,
Vuò
della vergine dal nome santo
Trar
l’argomento del nuovo canto.
Cambiando
il nome secondo usanza,
Volle
chiamarsi Maria Costanza,
E di Celeste col nome aggiunto,
Della
costanza toccato ha il punto.
Non vi
è costanza nel nostro mondo,
D’inganni
il secolo è sol fecondo,
E chi
la cerca con vero zelo,
Trovarla
puote soltanto in Cielo.
Il vate
celebre qualora dice
Che la
costanza, qual la fenice,
Dal
volgo credesi che ancor si dia,
Ma non
si penetra dov’ella sia,
Parla
di quella costanza umana
La cui
ricerca nel mondo è vana,
E sì
conchiude che tal virtù
Non può
trovarsi che colà su.
La
nostra amabile saggia donzella,
Che ama
e desidera virtù sì bella,
Sa più
di tutti che la costanza
Sol fra
i celesti può aver la stanza.
Sa che
nel mondo non vi è un amante
Che
vantar possa l’amor costante;
L’amor
paterno, più saldo e forte,
Ha i
suoi confini nel sen di Morte;
Quel
dei congiunti pur troppo è instabile;
È degli
amici l’amor variabile;
Di non
mancare, di non cangiarsi,
L’amor
celeste può sol vantarsi.
Di
nostra vita che sono i beni?
Che
sono i miseri piacer terreni?
Ombre
fugaci, larve funeste;
Non vi
è altro bene che il ben celeste.
Ma
quanto è scarso lo stuol seguace
Di
questa vera perpetua pace!
Saggia
donzella del vero amante,
Accesa
l’anima d’amor costante,
Il
Sommo Bene tracciando va,
Col
vero merito dell’umiltà.
Tanto
di questa virtù divina
Acceso
ha il petto, che andar destina,
Per
isfuggire dal secol nostro,
Dell’Umiltade nel sacro chiostro.
Non
cura gli agi della famiglia,
Colla
germana sol si consiglia,
E in
cuor nutrendo la brama istessa,
Di
sagre lane si veste anch’essa.
Risuoni
il lido di laudi sante:
Viva
l’egregia Maria Costante:
Cantino
in coro le ninfe oneste.
Non vi
è costanza se non celeste:
Ecco
l’esempio che a noi ci dà
La
sacra vergine dell’Umiltà.
È
l’argomento senza confine,
Ma son
costretto di dargli fine,
Perché
mi vincola lo scarso ingegno
(Già lo
sapete) più d’un impegno.
Voi
contentatevi di quel che ho detto;
Ed io
la cesta con dolci aspetto.
Non mi
crediate per questo avaro,
Perché
il mio nume non è il danaro,
Ma un
qualche segno d’aggradimento
Mi fa
piacere, mi dà contento.
Molti
son stati generosissimi:
Chi mi
ha donato catene d’oro,
Chi
tabacchiere di bel lavoro,
Pezze
di seta chi mi ha donato,
Chi
cere e zuccari, chi cioccolato;
E ancor
del poco mi contentai,
Ma
niente niente mi spiace assai,
E più
mi spiacque la mala grazia
Di chi
d’un libro non mi fe’ grazia,
E
domandarglielo sendo costretto,
Né men
risposemi ad un viglietto.
IL mio
costume, di già si sa;
Mi
piace dire la verità.
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