IN
OCCASIONE CHE LA N. D. PIERINA QUERINI SOLENNEMENTE
PROFESSA LA REGOLA
DI SANT’AGOSTINO NEL REGIO MONISTERO
DELLE VERGINI
ASSUMENDO IL NOME DI MARIA GELTRUDE
CAPITOLO
Da
ridere mi vien, qualora io sento
Battere
alla mia porta or questo, or quello,
A
incaricarmi di un componimento;
E
dirmi: Lo vorrei grazioso, e bello,
E
lungo, e presto, e che poneste in uso
Adesso
piucché mai testa e cervello.
Quanto
più mi difendo e più mi scuso,
Cresce
l’istanza, e quasi la violenza,
E guai
a me se di cantar ricuso.
Ma
talvolta darei in impazienza.
Che vi
credete? Che abbiano i miei versi
In articulo
mortis l’indulgenza?
De’
poeti, vi son purgati e tersi
Molto
meglio di me, che vi faranno
Carmi
d’ambrosia e nettare cospersi.
Il mio
povero stil tutti lo sanno.
Spremi,
spremi, che n’esce? Fanfaluche,
Magre
facezie, che sapor non hanno.
E pur
fuori mi caccian dalle buche,
E
vogliono che imbratti, a mio dispetto,
Le
carte per avvogliere le acciuche...
Una
mattina stavami nel letto,
E una
signora, amica di mia moglie,
Viene a
rompermi il sonno benedetto.
Siede
affannosa, ed il zendal si scioglie,
E
dicemi : Goldoni, una premura
M’ha
condotta per tempo a queste soglie.
Una
dama rinchiusa in sacre mura...
Oh
cospetto di Bacco, allor gridai,
Era
meglio venir di notte oscura.
Dal
sonno appena ho mal disgombri i rai;
Viene a
darmi il buon dì con un tormento!
Indi
sotto alla coltre io mi cacciai.
La cara
moglie sottovoce i’ sento
Dire
all’amica: Statevi quïeta,
Farò
far mio marito a mio talento,
D’obbligarlo
ho la via certa e segreta:
Scriverà,
scriverà; prendo l’impegno:
Bella
cosa esser moglie di un poeta!
Dice
quell’altra: Amica, vi consegno
Questo
picciolo foglio, in cui distesi
Quanto
basta a spiegare il mio disegno.
Io
fingea non capir; ma tutto intesi,
E fra
me dissi: Oh via, con la consorte
So che
i miei versi non saran mal spesi.
Odesi
in quell’istante aprir le porte,
E
veggio il servo colla cioccolata,
Che, a
dir la verità, mi piace forte;
E
mentre a me la chicchera vien data,
In vece
di ciambella o zuccherino,
Veggo
la carta sul tondin locata.
Apro,
senza parlare, il bullettino,
Scritto
vi trovo di Geltrude il nome,
E dei
gran sacrifizio il dì vicino.
A tal
lettura, non saprei dir come,
Di
novello desio m’accesi il petto,
E
accettai di cantar le dolci some.
E alla
signora con gioviale aspetto:
Dunque,
diss’io, la nobile fanciulla
Abbandona
per sempre il patrio tetto?
E le
ricchezze sue conta per nulla?
E
l’esser sola di sì gran famiglia
All’eroico
suo cuor sembra una frulla?
Non le
sovvien che di Tommaso è figlia,
Di quel
Tommaso che la patria onora?
Chi la
guida a tal passo, e la consiglia?
Torno
confuso a rintanarmi allora
Delle
coltrici al peso, e il senso umano
Dalla
filosofia soccorso implora.
Penso,
e rifletto, che ogni bene è vano
Di
questa vita, e che più d’oro e argento
Giova
la pace non sperata in vano.
Oh
quante donne lagrimare io sento
Fra le
gemme e i tesori, e prender noia
Di ciò
che promettea gaudio e contento!
L’anima,
ch’è immortale, è quella gioia
Che
riman sola fra cotanti beni,
Quando
la carne si disciolga e muoia.
E che i
giorni sien foschi, o sien sereni,
La vita
è un punto, e il calcolo è infinito
Tra i
piaceri celesti ed i terreni.
Scegliere
a suo piacer potea il marito,
Nobile,
doviziosa, alma donzella,
Ché a
ognun caro saria sì gran partito.
Ma
seriamente nel suo cor favella,
E dice:
Ho d’antepor sposo mortale,
Se al
talamo immortal sposo mi appella?
So che
il mondo più stima chi più vale
Nell’accrescere
i beni e la ricchezza,
E ad
alto grado per industria sale.
Ed io,
che cerco alla maggiore altezza
Della
gloria salir fra i ben celesti,
Avrò
nemici della mia allegrezza?
E
adorna mi vorrian di ricche vesti,
Anziché
della grazia del Signore?
Ah, non
pensan così gli animi onesti.
In così
dir, da insolito sopore
Preso,
m’addormentai placidamente,
E
sognai cose da recar stupore.
Vidi
una turba di confusa gente,
Mossa
da fini fra di lor distanti,
Di Geltrude parlar concordemente.
Sarti,
crestaie, calzolai, mercanti
Dicean:
Speriamo che uscirà del chiostro,
E vorrà
nosco spendere i contanti,
E ricca
la vedrem fra l’oro e l’ostro,
E di
gemme splendente in ogni parte,
E
l’util della pompa sarà nostro.
E mi
parve veder da un’altra parte
Un
ballerino di speranza pieno
D’ammaestrarla
nella sua bell’arte.
Entrar
mi parve in un cortil ripieno
Di
cuochi, spenditori e credenzieri,
Delle
nozze aspettando il dì sereno;
E
donzelle e braccieri e camerieri
Che,
desiosi di servir la dama,
Di
speranza nutriano i lor pensieri.
Indi
salgo una scala, che dirama
In due
parti, ed arrivo a un vasto sito
Che in
veneziano Portico si chiama.
Colà un
drappel di cavalieri unito
Parvemi
di vedere; e chi di loro
Si
offre per cavalier, chi per marito.
E
cantar odo mille voci in coro:
«
Scendi, Cupido, dei tuoi strali armato,
Ed
impiaga costei per tuo decoro. »
Ma il
canto appena dalla turba alzato,
Una
voce dal ciel gridò: Tacete;
E il
palagio cadeo precipitato.
Al
romore mi desto, e: Dove siete?
Dico
alle donne, e più non le riveggo,
Ch’eran
ite di fuori chete chete.
M’alzo
in farsetto e su le piume io seggo,
E
chiamo il servo al suon del campanello,
E penna
e carta e calamaio i’ chieggo.
E
senz’aver da struggermi il cervello
Per
servire alla moglie ed all’amica,
Questo
sogno mi parve buono e bello.
Lo
stesi con pochissima fatica;
Lo
consegnai all’ospite gentile:
Ite, le
dissi, e il Ciel vi benedica;
E
guardi me da un’occasion simile.
|