A
SUA ECCELLENZA IL SIGNOR LUIGI ZENO
CAPITOLO
Promissio
boni viri est obligatio;
Io non
sono né buono, né cattivo,
Ergo
faveat mihi aequalis ratio.
A
prometter tal volta io son corrivo:
Ecco la
mia bontà. Manco talora:
Della
mia cattiveria ecco il motivo.
Ma non
mancai una sol volta ancora
Senz’aver
pronta del mancar la scusa,
Talor
piantando una bugia sonora.
E
faccio, nel ciò far, quello che s’usa,
Dando
la colpa della mia mancanza
Ora al
freddo, ora al caldo, ora alla Musa.
Però
detesto la cattiva usanza,
E se
ora manco all’Eccellenza Vostra,
Ho tal ragion che ogni ragione avanza.
Ella
una sera all’Accademia
nostra
Degl’Industriosi,
dove il suo talento
Di
facil metro e di saper fa
mostra,
Chiedermi
si degnò un componimento
Per
la nobile sua santa sorella,
Che
in sublime si chiude
almo
convento.
Ed io
risposi in umile favella:
Mi
onora, lo farò: sarà servita:
Anzi
non mi può far grazia più bella.
S’Ella
a cantar, s’Ella a compor m’invita,
Veggo
che lo mio stil non Le dispiace;
Sento
che la mia Musa è insuperbita.
Non son
bravo, lo so, ma son sì audace
Che
d’una di sì nobile famiglia
Ardirò
di parlar pronto e loquace.
Il
merito mi è noto della figlia,
E del
padre sublime il cor, la mente,
Provido
se comanda o se consiglia.
E tante
cose mi tornaro in mente
Dell’eccelso
magnifico casato,
Ch’era
davver di favellarne ardente;
E dalla
brama mi sentia spronato
Di dir
qualcosa del di Lei talento,
Caro
alle Muse e di scienza ornato;
E
quantunque vedessi a qual cimento
Esponeva
i miei carmi, a Lei parlando,
A Lei,
poeta che ha valor per cento,
Sia
forza del dovere o del comando,
Mi
animai tanto, e di desio mi accesi,
Che a
casa andiedi, posso dir, saltando.
Ma
appena, signor mio, le scale ascesi,
Vidi da
un fante un bollettin portato,
Che
poco o nulla su le prime intesi.
Vidi
che alle Cazzude er’ io citato,
Dove
soglion chiamarsi i debitori
Quando
in tempo miglior non han pagato.
Dissi:
che von da me questi signori?
Non
crederei che fossero tansate
Le
campagne degli arcadi Pastori :
Ché,
per grazia del Ciel, le nostre entrate
Dal
Custode maggior, per uno scudo,
Ci son
da Roma in partibus donate.
Penso e
ripenso, ed alla fin conchiudo:
Domani
andrò del Magistrato innanti,
E saprò
quel che a indovinare or sudo.
Vo la
mattina a interrogare i fanti:
Chi mi
vuol, chi mi cita, in che ho mancato?
Ed avea
soggezion dei circostanti.
Ma
finalmente al Tribunale entrato,
Sento
ch’io son di tansa debitore
Per il
titol ch’io porto d’avvocato.
Il
cassier, mio padrone e protettore,
Fa
leggere il decreto a un certo tale
Che mi
pareva di cattivo umore.
Del
Giudice mi volgo al tribunale,
Dico:
Eccellenza, colla spada al fianco
Vegga
l’avvocatura a che mi vale.
Ei mi
rispose: Al mio dover non manco:
Questi
son Magistrati esecutori.
(Io non
so se venissi rosso o bianco).
Ite,
soggiunse, ai vostri superiori;
Se
esser volete dalla tansa esente,
Dal
ruol forense fatevi trar fuori.
Vi
accorda un mese il Principe clemente:
O la tansa pagar che vi è fissata,
O
rinunziare il titol d’Eccellente.
Mi
confuse così questa imbasciata,
Ch’io
non trovava dell’uscir la via,
E col
capo la porta ho riscontrata.
Vegga
Vostra Eccellenza, in cortesia,
Se con
questo pallin che ho nella testa,
Posso
al canto destar la Musa mia.
Ella
dirà: Che gran disgrazia è questa?
Se la
tansa pagar non acconsenti,
Esci
dal ruolo. La Giustizia è onesta.
Ma io
che fino ad or presso le genti
Questo
titol vantai sì decoroso,
Non
vorrei mi dicessero: Tu menti.
E che
qualche pedante curïoso
Gisse
ai Conservatori delle Leggi
E vi
trovasse il nome mio corroso.
Quelli
che stan di tal governo ai seggi,
Credo
che tanseranno il Palazzista,
Non un
uomo che canti e che verseggi.
E se
son io degli Avvocati in lista,
Mi
tansino a misura del profitto
Ch’io
fo da curïal o da leggista.
Se poi
il mio nome che lassuso è scritto,
Ingombra
o disonora la tabella,
Che mi
tolgano pure ogni diritto.
Ma
tutto il mondo la mia Patria appella
Madre
pietosa de’ figliuoli suoi,
E per
tanta pietà Venezia è bella.
Eccellenza
padron, narrate voi
Questo
mio caso al genitor cortese,
Chiaro
lume de’ padri e degli eroi.
Ei che
può tanto nel natio paese,
Faccia
ch’io sia degli Avvocati al ruolo,
Se util
non ho, senza soffrir le spese.
Allora
sì voi mi vedrete a volo
Prender
la penna coraggioso in mano,
E alzar
la voce dolcemente al polo.
Canterò
quell’amor santo, sovrano,
Che
accese il petto della suora vostra,
Sprezzando
il mondo lusinghiero insano:
Vergine
che è l’onor dell’età nostra,
Saggia,
prudente, docile, amorosa,
Che sa,
che intende, e il suo saper non mostra:
Vergine
forte, vergin poderosa
Che
calpesta ricchezze, agi e fortuna,
Dell’eterna
salute disïosa.
Io non
avrò difficoltade alcuna,
Coll’animo
sereno e il cuor quieto,
Di
canti empir la mobile Laguna.
E
renderò collo mio stil faceto
Allegro
il giorno che la candidata
Pronunzia
l’immutabile decreto.
Che
diriano di me, se frammischiata
Alle
laudi di vergine sublime,
Una
nenia vedessero stampata?
Ed io,
se qualche cosa ho che mi opprime,
In
qualunque occasion che parli o scriva,
Sfogar
soglio la pena in prosa o in rime:
Perché
tal volta lo mio sfogo arriva
All’orecchio
d’alcun che può, se vuole,
Farmi
del bene, e che contento io viva.
Ma in
occasion che la beata prole
Di un
sì gran padre da ciascun si onora,
Mescere
non degg’io sciocche parole.
Dunque
a Vostra Eccellenza umile implora
Perdon
mia Musa, se per or non canta.
Canterò
forse più giulivo allora,
Quando
degno sarò di grazia tanta.
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