PER
LE NOZZE DI S. E. IL SIGNOR MARCHESE GIOVANNI M.A FILIPPO RANGONE
CON S. E. LA SIG.
MARCHESA DONNA MARIA LUIGIA DEL SAGRO ROM. IMPERO
PRINCIPESSA
GONZAGA
INNESTO. AL SIGNOR
ABATE
GIUSEPPE FERRARI
SEGRETARIO DELLO SPOSO
I’
fitta proprio me l’aveva in testa:
Chi
vuol sposarsi, sposisi con Dio,
E che
facciano pur baldoria e festa.
E se
alcuno venisse a l’uscio mio
A
chieder versi per messere Imene,
Dir:
Talia tratto, non Euterpe o Clio.
Finor
pur troppo mi stuccar ben bene
Nozze,
e poi nozze, monache, e dottori,
E carte
mille di strambotti ho piene.
È ver
ch’ i’ n’ebbi per mercede allori,
Ma da
le bacche macinate in vano
Util
farina non potei trar fuori.
Onde,
dicea, se il popolo inumano
Nega
cambiar coi lauri le derrate,
Meglio
è lo starsi con le mani in mano,
E Dio
volesse ch’al mestier del vate
Quello
avess’io del curial preposto;
O per
me’ dire, fossi prete o frate.
Astrea
più spesso fa girar l’arrosto,
E il
cappuccio, la chierca e la cocolla
Tempra
il gennaio, e mitiga l’agosto.
Io, che
d’Orlando non succhiai l’ampolla,
Lasciai
le frutta per raccor le fronde,
E
cambiato ho il fagian con la cipolla.
Ma pur
quel poco
ch’al disìo risponde,
Porto
mi viene da Talia sol tanto;
Talia
mel reca, e non lo spero altronde.
Che
se per altro
m’affatico e
canto,
Pago
lo scotto e digiunar convienimi,
Ché non sazia e non nutre il nettar santo.
E
questa appunto è la ragion che femmi
A i
sonetti dar bando e a le canzone,
E mi
rintano se a parlarne un viemmi.
Or, sia
forza d’impulso o d’attrazione,
Sentomi
spinto da un potere ignoto,
E
prevale al rigor la tentazione.
Per te,
Ferrari, ho lacerato il voto:
A le
guagnele, tu me l’ha’ accoccata,
E in
van digrigno e dal lacciuol mi scuoto.
Chi diacine
la lettra ti ha dettata
Del dì
ventisettesimo di maggio,
Ond’aimi
al core tal malia formata?
Nello
tuo scritto si assapora un saggio
De
l’eloquenza de l’eroe d’Arpino,
A cui
fan tutti gli oratori omaggio.
Oh
colto stile epistolar, divino,
Che
narra, e chiede, e persuade, e sforza!
Oh prisco onor del popolo latino!
I’ non
mi fermo a vagheggiar la scorza
De’
periodi sonori ed eleganti;
Vo del
midollo a penetrar la forza.
Tu,
sagace orator, ponesti inanti
Apparato
di laudi ad un poeta,
Per
invaghirlo de’ tessuti incanti,
Ché,
per quanto modestia a bassa meta
L’uom
per sistema o per natura inchini,
Laude
fu sempre dolce cosa, e lieta.
E
soffriran di vivere tapini
Gli
sfortunati adorator di Pindo,
Pur che
sien detti i carmi lor divini;
Ed io,
che di Clarice e di Florindo
Canto,
e non di Rinaldo o Bradamante,
Farmi
noto desio dal Mauro a l’Indo.
E chi
mi loda per aver cotante
Sconce,
lubriche Scene a Italia tolte,
Quel
più mi dà, di cui mi resi ansante.
Le rose
in prima del tuo foglio ho colte,
E
quando giunsi ad afferrar le spine,
Trovai
le punte fra il coton rivolte.
Nozze
m’annunci, nozze peregrine,
Onor
del Mincio, gloria del Panaro,
Splendor
de l’ampio italico confine.
Giovani
donne, che di grazia avaro
Amor vi
sembra, e lo prendete a sdegno,
Mirate
lui de’ maggior numi al paro.
Ma
v’intendo, v’intendo a più d’un segno:
Non
conoscete in quel fanciullo Amore,
E,
ch’ei non fosse, mettereste pegno.
Ei
cangia aspetto de le genti in core,
Siccome
il prisma contrapposto al sole
Suol,
se si aggiri, variar colore.
L’innocente
fanciul vuole e disvuole
Col
voler de le genti, e non avvince
L’arbitrio
sommo dell’umana prole.
Qualor
ne l’alma a contrastar comince
Debol
ragione e passion feroce,
Combattuto
garzon cede a chi vince.
Se Amor
rallegra, o se tormenta e nuoce,
Colpa
non è di lui, ma de l’impero
Che
seco il tragge ad ubbidir veloce.
Miratel
là, come pomposo, altero,
Sciolta
la benda che gl’ingombra il ciglio.
De la
gloria e d’onor calca il sentiero.
Donne,
cotesto di Ciprigna è il figlio:
Nol
crederete, poi che stran vi sembra
Mirarlo
in mezzo d’onestà e consiglio.
Chi di
voi scorto da follia il rimembra,
Non si
dà pace che Cupido ostenti
Sì
accorto senno in sì soavi membra.
L’arco
dov’è? dove le faci ardenti?
D’amor
la guerra chi converse in pace?
Tacete,
o donne, vo’ narrar portenti.
Miracolo,
Ferrari, il stuolo tace
De le
garrule donne; questa fiata
Curïoso
desio vince il loquace.
Tempro
la cetra, che pendea scordata:
Odano
lo mio canto uomini e dei,
M’oda
de’ vati la region beata.
Prole
de’ semidei,
Tralcio
d’antica glorïosa pianta,
Amor
de’ numi, e de la patria onore,
Bebbe
da gli occhi bei
Di
vergine immortal dolcezza tanta,
Ch’ebbro
di gioia e di letizia ha il core,
E
per lo calle istesso
Donde
partio de la donzella
il foco,
Amor
s’aperse a nuove fiamme il loco.
O
scambievole dono
Di
gloria, di virtù, di fasti e pregi,
Di puro
sangue e d’innocenti affetti!
Simili
tanto sono
Le
sorti e gli usi de’ duo sposi egregi,
Qual da
fonte un sol rio scorre in due letti.
Occhio
mortal non scerne,
Nel
doppio raggio che due salme accende,
Chi più
reca di luce o più ne rende.
Chi
l’età prische ha in mente,
De’ Gonzaghi e Rangon l’origin perde
Fra
tempi immemorabili e confusi;
E ne
l’età presente
Nei
tralci illustri il primo onor rinverde
Di
padre in figlio gli alti genii infusi.
Soglion
le vulgar piante
Scemar
di forza, e infievolir con gli anni;
Risparmia
il tempo a sì gran piante i danni.
Aprimi,
o santo nume,
De
l’avvenir l’impenetrabil soglia,
Ond’io
canti il piacer dei dì venturi,
Allor
che a nuovo lume
Apriran
gli occhi de la fragil spoglia
Quei
che or son teco nudi spirti e puri;
E qual
dal casto seno
Di Luigia avran forma i pargoletti,
Italia
nostra a confortare eletti.
Nei
volumi del Fato
Svelar
misteri e presagir venture
È a noi
poeti, e non altrui, concesso.
Secolo
fortunato,
Il tuo
destin fra quelle cifre oscure
Legger
mi è dato: odilo in carmi espresso:
Rinovellar
vedransi
Fra i
lauri Estensi del Panaro ai lidi
Gli
Ercoli, gli Ughi, gli Uguccioni e i Guidi.
Canzon,
tu non sei nata
Co’ primi vati a sostener paraggio,
Pianta male Innestata
Su lo sterile pié di prun selvaggio.
Quel che destommi al canto
Abbiati sol, qual mi nascesti in core.
Parlate, o donne, e benedite Amore.
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