IL BURCHIELLO DI
PADOVA303
Musa,
cantiam del padovan Burchiello
La
deliziosa, comoda vettura,
In cui
per Brenta viaggiasi bel bello,
Dal gel
difesi e dall’estiva arsura.
Amistà
si contrae con questo e quello,
E alla
curiosità si dà pastura;
Passasi
con piacer di loco in loco,
E per
lungo cammin si spende poco.
Parlo
di quel che a noleggiar si affaccia
Pel
tragitto di Padoa ogni mattina;
Non già
della notturna, ampia barcaccia,
Di
storpi e ciechi e barattier sentina,
Su cui
stridente orribile vociaccia
Suol
dal Ponte gridar sino a Fusina:
La
va via, la va via; fin ch’ella è carca
D’animai
che non fur chiusi nell’arca.
Parlo
di quel vaghissimo naviglio
Di
specchi, e intagli, e di pitture ornato,
Che
ogni venti minuti avanza un miglio,
Da buon
rimurchio e da’ cavai tirato;
In cui
senza timor, senza periglio,
A
sedere o a dormir può starsi agiato,
Ed avvi
uno stanzin per ordinario
Con
quel che alle bisogna è necessario.
In sì
gentile galleria ambulante
Con piacer
mi trovai più di una volta,
E vidi
e intesi cose varie e tante,
Che ne
ho fatto e ne serbo una ricolta.
Talora mi abbattei con genti sante,
Talor
con gente rigogliosa
e stolta;
Ed io, che di parlar pompa
non faccio,
Se
il parlar non mi giova, ascolto e taccio.
Nella
scorsa stagion ridente estiva,
Che a
venerar la Sacra Lingua invita304,
Nel
corredato navicel men giva,
Ad
onesto piacer pietade unita.
Chi
leggea, chi parlava e chi dormiva,
Chi
faceva alle carte una partita;
Ed
alcuni fanciulli eransi uniti,
Che col
loro gracchiar ci avean storditi.
Di uno
di loro il genitor giocava.
Dice al
figlio: Sta cheto; ed ei fa peggio.
Per
dargli un sergozzon la mano alzava;
Sbalzar
la madre e inviperirsi io veggio.
Ferma,
al marito, e non menar, gridava;
Aimè,
se ’l picchi, il suo dolor preveggio;
(Viscere
mie!) se lagrimar mel fai,
Sì, da
donna d’onor, ti pentirai.
Trema
il consorte alla biastema orrenda,
E
ingoia il tosco
alle sue labbra
usato,
Prega
il compagno che a giocare attenda,
E
gioca, e freme, e si dimena irato.
Grida
il caro figliuol: Vo’ la merenda,
E vo’
un mazzo di carte, e vo’ un ducato;
Gioca
mio padre, vo’ giocare anch’io;
E la
donna d’onor: Sì, figliuol mio.
Gli dà
carte e danaro, ed ei s’ingegna
Di
giocar coi compagni alla bassetta.
La
buona madre al caro figlio insegna,
E si
duol che il meschino abbia disdetta.
Lo
sbancano gli amici, ed ei si sdegna,
E lor
dice: Vi venga una saetta.
Getta
le carte al suoi, slancia un cospetto,
E la
madre lo abbraccia, e fa un ghignetto.
S’ode,
a scandalo tal, s’ode un bisbiglio,
E il
padre per impegno il fren discioglie.
Alza la
canna per menare al figlio,
Ed il
colpo fatal tocca alla moglie.
Fa di
sangue la donna il suol vermiglio,
E, per
grazia di Dio, da noi si toglie.
Chiudesi
in camerin col figlio accanto.
Benedetto
bastone! oh baston santo!
Stassi
il marito fra timore e sdegno:
Sdegno
pel figlio e tema della sposa,
Che se
adoprò per avventura il legno,
Da lei
si aspetta qualche peggior cosa.
Alcun
dei passeggier prende l’impegno
Di
calmargli la bile in sen spumosa;
Altri
dice: Parlate; altri: Tacete;
Chi gli
dice: Soffrite; e chi: Battete.
Io
dico: No; per carità non fate,
Ché il
mestier d’aguzzino è cosa dura,
E una
femmina tal, se l’accoppate,
Sarà
sempre caparbia per natura.
La
moglie vostra taroccar lasciate,
E del
figlio, signor, prendete cura,
Che
s’ei riescirà scorretto e rio,
Conto
per lui ne renderete a Dio.
Risponde
il galantuom: Pur troppo è vero;
E ne ho
rossore, e ne ho rimorso e pena.
Il
figliuol mio naturalmente è fiero,
E
l’amor della madre a peggio il mena.
Chiuderlo
in un collegio ebbi in pensiero,
Ma la
mia casa di disgrazie è piena.
Dell’ignoranza
sua mi crucio e rodo:
Vorrei
farlo educar, ma non ho il modo.
Soggiunsi
allor: Con provvidenza il Cielo
Gli
uomini di soccorso ha premuniti.
Noto
non vi è, con qual amore e zelo
Sono i
figli educati ai Gesuiti?
Nelle
massime sante del Vangelo
E in
varie facoltà sono istruiti,
E
condotti d’onor pel buon sentiero
Senza
che costi ai genitori un zero.
Di questa
santa Religion divisi
Sono i
pesi, le cure e le mansioni:
Altri
nel magistral pergamo arsisi
A
vincer alme e convertir nazioni,
Ed
altri al santo tribunal stan fisi
Di
penitenza; altri alle pie funzioni;
Ed
altri ad instruir
di mano in mano
Nelle
scienze l’intelletto umano.
Né col
precetto e col rigor soltanto
Far
vïolenza all’imbecille ingegno,
Ma con
soave industrïoso incanto
L’arte
han di por la gioventù in impegno:
Dando
ai garzon, che han sopra gli altri il vanto,
Di
saper, di bontà, d’onore un segno,
Fan che
ciascun di meritare agogna,
E ne ha
lo sciocco e l’importun vergogna.
Di
provocare e di emular si affretta
Lo
Stuol cartaginese il Stuol romano,
E con
piacer la gran giornata aspetta
In
pubblico di udir chi fu sovrano,
E
onorato dal suon della trombetta
Sentir
suo nome, e andar col premio in mano,
E a
Scuola maggior vedersi alzato,
Fra gli
Ottimati per onor stampato.
E le
dotte Accademie a poco a poco
Delle
Lettre l’amor destano in seno,
E chi
non arde d’apollineo foco,
A discernere
il buon s’avvezza almeno.
E giova
espor la gioventute in loco
Da
superar di soggezione il freno,
Perché
in pubblico un dì posta all’impegno,
Non
tradisca il timor l’arte e l’ingegno.
Quanto
di bene all’intelletto apporta
Lo
scolastico stil de’ Padri eletti,
Tanto a
vera pietà l’alme conforta,
E
invigorisce a divozione i petti.
Nei dì
festivi ogni fanciul si porta
Nei
concordi Oratorii, a Dio diletti,
E a
salmeggiare e a meditare apprende,
E le
sante dottrine ascolta e intende.
Ma chi
brama ad un figlio accrescer fregio,
può
supplir alle mediocri spese,
Lo
consegni de’ Padri ad un collegio
Nel
patrio cielo, o in forastier paese.
Ivi non
sol delle Scïenze il pregio,
Ma avrà
i costumi e le bell’Arti apprese;
E alla
patria verrà cortese, umano,
Coi
doveri dell’uomo e del cristiano.
Poiché
la saggia Compagnia prudente
La
civiltà colla dottrina ha unita,
E non
apre la porta ad ogni gente,
E i
buoni accoglie, ed i migliori invita;
Ma chi
a vita esemplar non acconsente,
Facile
trova al dipartir l’uscita,
E a
quei che poco onor fanno al consorzio,
Nelle
forme s’intima il lor divorzio.
Stavasi
intento al mio parlar sincero
L’afflitto
padre, e: Dio volesse, ei dice,
Che
prendesse il mio figlio altro sentiero
Con
questa santa educazion felice.
Tornar
in breve alle acque salse io spero:
Farò
quel che mi giova, e quel che lice.
Gracchi
la madre pur, se vuol gracchiare,
O ha da
metter cervello, o ha da crepare.
In
questo s’ode un mormorio da poppa,
E
apresi lo stanzin violentemente.
E il
marito temeva in sulla groppa
Aver la
moglie di furore ardente.
S’alza
tremante, e ver la prua galoppa,
E
rimpiattasi al tergo della gente;
Ma il
falso allarme ha con piacer scoperto:
Fu lo
stanzin dai remurchianti aperto.
Chiedean
la mancia, per aver guidato
Sino
alla terra ferma il bel naviglio.
E il
tremante babbeo, lo sguardo alzato,
Vede gire all’ostel la madre e i l
figlio.
Grida:
Olà, dove andate? Il ciglio irato
Della
donna lo rende un vil coniglio,
Ed
osserva il garzon che mangia e beve;
Ei
freme invano, e tollerar sel deve.
Eravi
nel Burchiel certa signora
Che
avea gentile e venerando aspetto :
Ora,
disse, che l’altra ita è di fuora,
Vo’ la
pena sfogar che m’ange il petto;
Donna
simil non ho veduta ancora,
Detto
sia col dovuto umil rispetto:
Ma
s’ella frequentasse i Gesuiti,
Tali
non useria costumi arditi.
Parlo
per esperienza:
io pur son
nata
Facile per natura a prender
foco,
Ma un
saggio direttor mi ha costumata
A
reprimere il caldo a poco a poco.
Qualor
mi sento a delirar portata,
Di Gesù
il nome in mio soccorso invoco;
E
rammentando i salutar precetti,
Ragion
mi vale a regolar gli affetti.
Oh con
qual arte il confessor mio santo
Cambiommi
il cor veracemente in seno!
Egli
non mi atterri; mi feo soltanto
Ravvisar
della colpa il rio veleno,
E
dolcemente mi dispose al pianto,
E agli
appetiti e alle passion por freno:
Arte
che sprona a detestar l’inganno,
Più per
amor, che per timor del danno.
E di
quest’arte il Gesuita abbonda,
Che al
zel congiunta ha esperienza e lume,
E il
cuore uman colla ragion circonda,
E
introduce il rossor del rio costume.
Nelle
minaccie e nel rigor non fonda
Il
rispetto dovuto al sacro Nume,
Ma
sulla santa imitazion cristiana:
Ché la
legge di Cristo è legge umana.
Volea
più dir, ma a
rientrar spronati
Furono
i passeggier dai marinari,
E la
madre e il garzone in barca entrati,
Si
converse il discorso in altri affari.
Io
vicin mi trovai di due soldati,
Ricchi
più di valor che di danari;
Delle
guerre si parla, e inviperito
Ciascheduno
difende il suo partito.
Chi
loda il Prusso e chi l’Austriaco esalta,
Chi
dispone gli acquisti e la vittoria,
Chi
colla voce l’inimico assalta,
Chi le
perdite ancor converte in gloria,
Chi le
carote per costume appalta,
Chi
nega i fatti della conta istoria,
Chi l’Oder,
dice, la Sassonia bagna,
Chi la Vistula
crede in Alemagna.
Uno dei
due guerrier, ch’ i’ aveva accanto,
Alza la
voce, e in guisa tal ragiona:
Voi
ch’esaltate della guerra il vanto,
Perché
non ite a seguitar Bellona?
Col
capo rotto, e con un braccio infranto,
Sapreste
se il pugnar
sia cosa buona.
Bello è
di guerra il favellar sedendo:
Io, che
ci fui, le sue bellezze intendo.
La
morte è il men del militar mestiere:
Una
volta si more, ed è finita.
Molto
peggio di morte è il non avere
Riposo
mai, finché si resta in vita,
E il
dormir sulla terra, e l’acqua bere
Qualche
volta fetente imputridita,
E
soffrire nel verno il
crudo gelo,
E nella
state il gran bollor del cielo.
Meglio
per me, se nella prima etate
A
studiare di cor mi avessi dato.
Meglio
per me, s’io fossi prete o frate,
E
meglio ancor fra i Gesuiti entrato.
Tante
disgrazie non avrei passate,
E sarei
ben pasciuto e ben trattato,
E con
poca fatica e leggier stento
Godrei
gli onori e viverei contento.
Chiesi
licenza al militar poltrone
Di
poter dir. Me la concesse in pace. Dissi:
Bravo,
signor, vi do ragione,
Se il
mestier della guerra a voi non piace:
Ma chi
vive per altro in religione,
Non
crediate si stia nella bombace.
Io
degli altri non so; ma dir mi eleggo
Dei
Gesuiti quel che intendo e veggo.
Essi
non vivon già d’erbe e fagiuoli,
Mangiano,
come noi, le carni usate;
E fra i
claustrali non son essi i soli,
Che
abbiano in società mense onorate.
Non
crediate però, che i loro orciuoli
Empiansi
di vivande prelibate.
Nelle
Comunità si osservan gli usi,
E ognun
si guarda d’introdurre abusi.
Sembra
a voi che sien ricchi? È ver, lo sono;
Ma non
ne fan depositario il cuoco,
Usi a
serbar della pietade il dono
Al
sagro tempio o degli studi al loco.
Al re
del Ciel, che ha nella Chiesa il trono,
Si
sagrifica tutto, e tutto è poco,
E a
Gesù chi consacra i doni sui,
Certo
può star che non li gode altrui.
Chi mai
può dir che aviditade impegni
Il
Gesuita a procacciar divoti,
S’egli
non puote oltrepassare i segni
Fissati
già dal vincolo dei voti?
Mirate
i Padri in Religion più degni,
Mirate
quei che pel saper son noti,
E
osservate fra lor se questo o quello
Abbia
stanza miglior, miglior mantello.
Bevon,
dice talun, la cioccolata.
È vero,
è ver; chi non la bee, suo danno.
Non è
bevanda al claustral vietata;
La
beono pure i Cappuccin, se l’hanno.
Dagli
amici o parenti è lor donata,
E a
berla in casa di verun non vanno;
E
provista se sia
dal rettor loro,
Mertano
i loro studii un tal ristoro.
Dite,
se mai vedeste un Gesuita
Ad un
convito, o a un popolar ridotto;
Dite,
se avete di tal gente udita
Cosa
che v’abbia a mormorare indotto.
Non
v’ha persona da quel ceto uscita,
Per
quanto sia di genere corrotto,
Che
vaglia a dimostrar con fondamento
Ch’essi
copran con arte il mal talento.
Ma qual
arte saria strana, infelice,
Fingere
e simular senza mercede?
Se al
Gesuita migliorar non lice,
Stolto
è colui che l’artifizio crede:
Vera
virtù, che ha nel suo cuor radice,
L’anima
per la Chiesa e per la Fede,
E i
beni eterni, collocati in Cielo,
Destano
in lui la vigilanza e il zelo.
Credete
voi che dotta gente e accorta
Siavi
fra lor? Voi mi direte: Il credo.
Dunque,
dich’io, se ambizïon li porta,
Perché
in un chiostro affaticar li vedo?
A pochi
è chiusa dell’uscir la porta:
Chieder
ponno, o pigliarsi il lor congedo,
E vi
restano tanti, e son contenti
Lasciar
le dignità, gli ori e gli argenti.
Oh
santa Verità! tu fosti quella
Che mi
fece parlar come ho parlato,
Tu
fermasti nel gozzo la favella
Al
veterano burbero soldato.
Oh
santa Verità! quanto sei bella!
Tu
risplendi e trionfi in ogni lato,
E per
quanto talun tenti offuscarti,
Veduta
sei sopra le nubi alzarti.
Eccoci
giunti alla piacevol Mira305,
Di bei
giardini e di palagi adorna.
S’esce
fuor del naviglio, e si respira,
Si passeggia,
si pranza e poi si torna.
Il
famoso ronzin si attacca e tira,
E per
la Brenta il navicel s’inforna:
Chi si
mette a fumar, chi canta o suona,
E chi
del tristo desinar ragiona.
Leggeva
un libro un vecchiarel dabbene,
Rannicchiato
in un canto del Burchiello,
E,
com’è l’uso, volontà mi viene
Di
domandargli: Che bel libro è quello?
Ei si
leva gli occhiai che al naso tiene,
Cavasi
gentilmente il suo cappello:
Questo,
dicendo, è il Bourdaloue francese,
Bravo
predicator del suo paese.
Io
dissi allor: Tutta la terra è piena
D’uomini
illustri dal Gesù sortiti,
E
nell’arte oratoria han cotal vena
Che
arbitri son degli uditor contriti.
Argomenti
robusti a frase amena
Mirabilmente
han collo studio uniti,
Ed il
santo Vangel spargono intorno,
Di
grazie mille e di chiarezza adorno.
La
parola di Dio semplice e pura
Basta,
egli è ver, per adempir l’impegno;
Ma il
superbo mortal sentir non cura
Favellare
senz’arte e senza ingegno.
Quindi
il saggio orator tenta e procura
L’alme
allettar, per ricondurle al segno;
E per
vincere i cuori e gl’intelletti,
Sembran
dal Cielo i Gesuiti eletti.
Né
intendo già che di lor soli il vanto
Abbiasi
a dir, ch’altri vi sono egregi
Sacri
ministri dell’Oracol santo,
Ch’han
d’eloquenza e robustezza i pregi;
Ma
soffrire non
so, di tanto in tanto
Che
l’onorata
Compagnia si
sfregi,
E
che per esaltar
Tizio o
Sempronio
Dicasi
d’essa il falso
testimonio.
Io dico
a quel che dice mal d’altrui:
Giudico
te dal tuo parlare istesso.
Se
deturpi il fratel coi labbri tui,
Il tuo
perfido cor dimostri espresso.
Chi ha
le macchie nel sen, peggio per lui,
Ma i
difetti scoprir non è permesso;
E il
prossimo insultar con maldicenza,
Carità
non si chiama: è un’insolenza.
S’udiro
ai detti miei batter le mani,
E le
batteo la femmina feroce
Che al
marito commise atti villani,
E la
vidi cambiar sembiante e voce.
O santa
Verità, de’ petti umani
Ora
conforto, or testimonio atroce!
Tu
facesti il prodigio, e vidi in tutti
A
germogliar di tua possanza i frutti.
D’acque
sonanti un mormorio si sente:
Esco
all’aperto; e riconosco il Dolo306,
E
dall’alto impinguar veggo un torrente
D’acque
rinchiuse, e pareggiarle al suolo,
E la
macchina ammiro agevolmente
Retta
al suo fin dagli argani del Molo,
Da cui
I’acqua si serba e si sostenta307,
Per far
perenne ai passeggier la Brenta.
Fin
ch’oltre si apra al navicel l’uscita,
L’abitato
terren ciascuno ascende.
E chi
al caffè, chi alla taverna invita,
E chi
bada in un canto a sue faccende.
Indi la
turba nuovamente unita,
Per
seguire il cammino, in barca scende;
E con
noi s’accoppiò dell’altra gente,
Fra’
quali vi era un Padovan studente.
Tosto
si fer le cerimonie usate:
Riverisco:
Padron: Servitor loro:
Abbiam
delle bellissime giornate:
Oh che
caldo! la state è il mio martoro.
Come va
la campagna? Oimè! seccate
Son le
biade, e varranno a peso d’oro.
A che
ora a Padoa arriverem? chi sa?
Tira
poco il cavallo; eppur si va.
Il
giovane scolar, che avea desire
Di
ostentar nel Burchiello un bel talento,
Principia
a ragionar, principia a dire
Cento
cose indigeste in un momento,
Ed al
solito poi si va a finire
Nell’odïerno
misero argomento,
Tratto
dal lezzo di più libri usciti
Contro
la Religion de’ Gesuiti.
Il
guerriero già noto : Olà tacete,
Dicegli
in tuono militare ardito;
Se
parlare più oltre animo avrete,
Corpo
di Marte! vi farò pentito.
Questi
(additando me), se nol sapete,
Mi ha
della Compagnia bene instruito.
Soldato
io son, ma le ragioni intendo,
E col
brando, se occorre, il ver difendo.
Fra la
tema e l’ardire acceso in volto,
Il
sapiente risponde all’uom focoso:
S’io
dico il mio pensier libero e sciolto,
Una
rissa incontrar non son bramoso.
Indi a
me il guardo ed il parlar rivolto,
Disse:
Chi siete voi, che valoroso
Difendete
de’ Padri il buon concetto?
Siete
loro terziario, o lor soggetto?
All’ardito
parlar non mi confondo,
Ché ho
sempre meco
Verità in aiuto.
Lor
terziario non sono, io gli rispondo,
Né dai
loro stipendi io son pasciuto:
Sono un
uomo d’onor, son noto al mondo,
Il mio
stile sincero è conosciuto.
Interromper
voleami il labbro audace;
Il
soldato gliel vieta, ei trema, e tace.
Ed io
seguito a dir: Difficil cosa
Non è
il tesser per astio ingiurie ed onte.
E
contro la vulgar turba rissosa
La
Compagnia le sue difese ha pronte.
Ma pur
troppo Natura, al ben ritrosa,
A ber
sen va della malizia al fonte,
E per
quanto valore abbia Innocenza,
Sempre
le piaga il sen la Maldicenza.
Guardimi
Dio, che penetrare io voglia
Nel
vasto mar delle quistion destate.
Chi di
saper la verità s’invoglia,
In
dotti libri ha le ragion stampate;
Chi
d’interesse e passïon si spoglia,
E de’
partiti ha le ragion pesate,
Dalle
prove, dai sensi e le parole
Chiara
vedrà la verità qual sole.
Io dirò
sol che tutto il mondo è pieno
Di
dotti scritti ed ortodossi esempi
Dell’alma
Compagnia, che il rio veleno
Distrusse
ognor dei contumaci ed empi;
Che han
di sangue e sudor sparso
il terreno
Per la
Fé, per l’onor de’ sacri tempii;
E che
agl’infimi studii e ai sommi impegni
San del
pari adattar gli usi e gl’ingegni.
E
siccome ai Fratei prescritto è il peso
Da quei
che han loco nella pia Reggenza,
Mirasi
ognuno a quell’uffizio inteso
Ver cui
scopresi in lui miglior tendenza.
Dal
dover spinto e dall’onore acceso,
E da
santa, esemplar, comun fervenza,
Vedi
ciascun della sua messe il frutto
Raccor
felice, e riescire in tutto.
Quanti
in filosofia saggi maestri
Sul
sistema miglior precetti han scritto!
Quanti
in teologia sublimi e destri
Hanno
il rio serpe d’eresia sconfitto!
Quanti
i mari profondi e i mondi alpestri
Passeggiaro
con piè veloce, invitto,
E a
profitto dell’uom si preser cura
I
segreti svelar della natura!
Se
d’ascetici libri il mondo ha brama,
Chi più
di lor ne ha pubblicati a iosa?
E chi
meglio sa dir come Dio s’ama,
E
quanto il Santo Amor sia dolce cosa?
Fra il
mondo e il Ciel che occultamente chiama,
Chi sa
meglio scoprir la via dubbiosa,
E coi
santi esercizii e le Missioni
Chi
giovò più di loro alle nazioni?
E chi
più i matematici e i sovrani
Geometrici
assïomi a spiegar prese?
E chi
meglio di lor dei corpi umani
E degli
spirti la natura intese?
Essi
recar de’ popoli lontani
Le
notizie d’Europa al bel paese,
E unir
l’epoche oscure, e fu lor gloria
Purgare
i fatti ed illustrar l’Istoria.
E negli
ozii per fin, se ozio può darsi
Fra
tante cure ed esercizii tanti,
Chi più
di lor sa dolcemente alzarsi
Al
grato suon degli apollinei canti?
I
carmi, lor, che per l’Italia han sparsi,
Recano
a noi sopra i stranieri i vanti,
E lor
sceniche azion sacre, erudite,
Han le
penne severe ammutolite.
Che
volete di più? mirate in volto,
Ponderate
negli atti un Gesuita.
Dio si
ravvisa nel suo sen raccolto,
Tutto
spira l’amor di santa vita.
Ed uom
saravvi scostumato e stolto
Che
lingua mova
a denigrarlo
ardita?
Lo
Scolare vid’io mesto e compunto;
Ma il
Burchiello di Padoa a Padoa è giunto.
Tutti
si congedaro, e un testimonio
Tutti
mi dier che fu il mio dir laudato.
Rassegnossi
la moglie al matrimonio,
La mano
ha il figlio al genitor baciato.
Io
corro immantinente a Sant’Antonio,
Dio
ringraziando pel poter mi ha dato,
E il
nome di Gesù col cuore appello,
E
consacro ai suoi figli il mio Burchiello.
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