LA
CABALA
ZIBALDONE DETTO
DALL’AUTORE NELL’ACCADEMIA DEGL’INDUSTRIOSI
ERETTA IN CASA DE’
SIGNORI CONTI CATANEO IN VENEZIA
Una
Cabala ho io che mai non falla,
E
prontamente a tutto mi risponde
In
lingua tosca,
o sia latina, o
galla;
E se
oscura è talvolta e il ver confonde,
Siccome
in cotest’arte io son perito,
Voglio
chiaro saper quel che si asconde.
Dico:
Spiegati meglio, e del quesito
Numerando
vocali e consonanti,
Pongo
il nuovo prodotto al primo unito.
E altri
numeri aggiungo, ed altrettanti
Zeri, che son le chiavi o i
grimandelli :
Cose
non note ai miseri ignoranti;
Cose
che fan strabilïar cervelli
E
paion, salmisia, stregonerie,
Silfi,
gnomi, folletti o farfarelli.
Ma son
queste del volgo fantasie:
Faccio
l’operazion da buon cristiano
Per
cose oneste, indifferenti o pie.
Né mi
dite impostore o ciarlatano,
Ché dal
Porta ho imparato un tal mestiere,
Dal
Pico, dal Kircherio e dal Cardano.
E un
dottore e un poeta, a mio parere,
Quando
di tal scïenza è proveduto,
Può far
mostra d’ingegno e di sapere.
Ed io
per tredici anni sostenuto
Non
avrei forse il comico decoro.
S’io
non avea di Cabala l’aiuto.
Poiché
in ogni difficile lavoro,
Consigliando
con essa, al mio talento
Offria
di cose amplissimo tesoro.
E facea
le commedie in un momento,
E fra
quelle stampate e non stampate,
A
quest’ora di due passan le cento.
E tante
frascherie, che ho schiccherate
Per
Accademie, monache e sponsali,
Dalla
Cabala mia mi fur dettate.
E alle
laudi, talvolta universali,
Che si
davano a me, dentro me stesso
Facea
delle risate madornali,
Sapendo
in coscïenza, che quel desso
Non
er’io cui dovuti erano i viva;
E
stassera, signori, io vel confesso.
Stassera
che il dover vuole ch’io scriva
Sul
proposto vaghissimo argomento,
Non vo’
il merto rapire alla mia diva.
Il
Presidente, all’onor
nostro intento393,
Offreci
largo spazio e strada piana
Per
comparire in cento modi e cento.
Ei
domanda al
parer di gente sana
Ció che più stabilisca, e ció che puote
Felicitar la societade umana.
Strane
dottrine, immagini remote
D’uopo
non è cercar; ché le bisogna
Di
nostra vita son comuni e note,
E chi
l’applauso meritarsi agogna,
Cose
belle può dir sul vasto tema
Al suon
del plettro o dell’umil zampogna.
Ma io,
per quanto dalla mente sprema
Per
farmi onor, nulla di buon ritrovo,
E sudo,
e faccio una fatica estrema.
Alla
Cabala mia ricorrer provo;
Dicole:
Dammi tu su tal proposta,
Consigliera
mia fida, un pensier novo.
Oh
sentite che diavol di risposta
La
Cabala mi diè: l’avrei mandata
Dove
mandansi i tristi per la posta.
Mi
risponde: Alfabeto, ed ostinata
Altro
dir non mi vuole, e dieci volte
Mi ha
la stessa parola reiterata.
Rimpasticcio
il quesito in foggie molte,
Cambio
cento figure, ed Alfabeto
E forza
pur che replicarmi ascolte.
Lacero
il foglio, arrabbïato, inquieto;
Poi fra
me dico: Dar non si potria
Chiuso
in una parola un gran segreto?
Torno
ad unir l’operazion di pria,
Indi
sotto le pongo la domanda:
Quest’Alfabeto
di’ che cosa sia.
Un
triangolo formo da una banda,
L’altro
dall’altra, e in mezzo una figura
Fatta a
guisa di cerchio o di ghirlanda;
E se
prima parea
tenace e dura
A
rispondere a tuono, ora mi diè
Questa
facil risposta a dirittura.
Lettere
ha l’Alfabeto ventitré,
Prenderle
dei per mano, e arcane cose
Ogni
lettra vedrai produr da sé.
Allor
la mente mia tante dispose
Domande,
quante lettere contiene
L’Alfabeto
comun che mi propose.
Ponendo
l’A, che il primo luogo tiene,
Magistralmente
del quesito in fronte
Uso la
chiave, e tal risposta viene:
Amore,
Amor d’ogni letizia è il fonte;
Egli
mantien la societade umana,
E
chi ben ama le dolcezze ha pronte.
Indi
chiesta sul B la mia befana,
Mi
risponde: Bontà fa l’uom felice,
Bontà
di cuore è d’ogni cuor sovrana.
A chi
strilla, borbotta o maledice,
Sbuffa,
mormora, insulta e cospetteggia,
Quiete,
pace nel mondo aver non lice.
E sul C?
sopra il C che mai verseggia?
Figlio, dissemi, il C vuol dir
Cervello:
Miser colui che di cervel scarseggia.
Il
Mondo è cosa buona, il Mondo è bello,
Ma
fra il grano v’è loglio e v’è gramigna,
E
dei frutti il peggior tocca al baccello.
Al
quesito del D pronta e benigna
Mi
risponde Dottrina, e uscire io veggio :
Felice
quegli in cui Scïenza alligna.
Dall’ignorante
si procaccia il peggio,
E la
Dottrina a’ suoi seguaci insegna
Della
felicità salire al seggio.
D’andare
innanzi l’arte mia s’ingegna.
L’interrogo
sull’E; la mia Sibilla
Mi dà
risposta di un oracol degna.
Mi
risponde Equità. Santa favilla,
Che
desta in noi della ragione il lume,
E
tien l’umana società tranquilla;
E
osservando le leggi e il buon costume,
Fa
che il prossimo amiam come noi stessi.
E il
suo si renda alla natura e al Nume.
Or dell’F
direi, s’io non temessi
Di
stuccar gli uditor, ma questa sera
Se
stuccati noi siam, lo siano anch’essi.
La mia
Cabala dunque veritiera
Sopra
l’F ammirai risponder Fede:
Fede
è dell’uom felicità primiera.
Infelice
è colui che nulla crede;
Oppresso
è in vita dai rimorsi in seno,
E
dell’errore al capezzal s’avvede.
Quegli
che dai stranier succhiò il veleno,
Per
quanto cerchi di adular se stesso
Essere
non può mai contento appieno.
Dir:
col corpo morrà lo spirto anch’esso,
Non
solo è falsità chiara e patente,
Ma
l’amor proprio vi rimane oppresso.
Presto,
passiamo al G, che chi mi sente
Non
dica che la Cabala è un pretesto
Per far
io da pedante e da saccente.
Del G
l’emblema ad isvelar mi appresto:
Dai
numeri sortìo: Gioconditade,
Vera
felicita dell’uomo onesto.
In
ogni tempo, ed in qualunque etade,
L’uom
giocondo, per arte o per natura,
Nella
funesta ipocondria non cade.
E
per quanto gli sia molesta e dura
L’indiscreta
fortuna, ei non s’irrita;
Ché
ogni ben, ché ogni mal passa e non dura.
Io so
che l’H è dai Toscan bandita,
Onde
feci in latin la mia richiesta,
Ed in
latino è la risposta uscita.
Honor (disse la Cabala), e da
questa
Dizione
il galantuom puote inferire
Che
nulla manca a una persona onesta.
Mi
sovvien che una volta intesi dire:
Ha il
tal più onore che riputazione;
Rise
taluno, e vi trovò a ridire.
Io per
altro difendo la questione;
Onor,
riputazion, non è lo stesso;
E vi
piaccia sentir la mia ragione.
Se un
sventurato, da malizia oppresso,
Perde
talor riputazione al mondo,
E
l’onor serba internamente impresso,
Non
cede, no, dell’ignominia al pondo:
Fida
nell’innocenza, e arriva il giorno
In cui
la verità si scopre a fondo.
Orsù,
signori, all’Alfabeto io torno.
La mia
Cabala all’I rispose Ingegno,
Ingegno
pronto di notizie adorno.
Che
chi sa regolarsi in un impegno
Con
un poco d’industria o d’impostura,
Facile
giugne della meta al segno.
Feci
poscia sul K la mia figura;
Ma
siccome di greco io non m’intendo,
M’imbrogliò
questa lettra a dismisura.
La mia
domanda in italiano io stendo,
Mi
risponde dei K; la fo in latino,
Degli
altri K dalla risposta io prendo.
Che sì,
dico fra me, che l’indovino:
Costei
si vuol beffar de’ fatti miei;
Tienti
i tuoi K, ch’io non son già un bambino.
Indi
all’L passando, ebbi da lei
Adeguata
risposta: ecco i suoi detti:
Leggere
ti consiglio, e legger dei.
Leggere
dà pastura agl’intelletti,
E le
notizie da lettura apprese
Fan
nelle scienze gli uomini perfetti.
Talun,
senza partir dal suo paese,
Può
render conto, con un libro in mano,
Delle
terre del Gallo e dell’Inglese;
E saper
dir se il celere Prussiano
Vinse o
fu vinto; e se a ragion si doni
Di
Fabio il nome al condottier germano.
E nelle
odierne militar quistioni
Non
udirassi squadernar pastocchie,
Grosse
più delle bombe e dei cannoni.
E voi,
donne, se gli aghi e le conocchie
Cambierete
nei libri, un dì saprete
Perché
i Greci non mangin le ranocchie.
State
zitti di grazia, e non ridete,
Ché la
Cabala mia se n’avrà a male,
E qual
bestia ella sia voi non sapete.
Seguendo
dunque il mio lavor fatale,
Giungo
all’ M, e m’adopro, onde mi dica
Il
senso di tal lettra inizïale.
Detto
fatto; la mia cortese amica
Mi
rispose: Memoria, e segue a dire:
È
perduta senz’essa ogni fatica.
A
che vale sui fogli intisichire,
E
apparar le belle arti e le scïenze,
Se
te le vedi dal cervel sparire?
Bella
felicitade, alle occorrenze
Rammentar
degli eroi la patria e il nome,
Allegar
testi e squadernar sentenze!
E
saper dir quante provincie, e come,
Fin
dove nasce e dove muore il sole,
Fur
costrette, cangiate, o vinte, o dome.
Chi
abbonda di memoria e di parole,
Sopra
ogn’altro aver può la maggioranza,
E
spacciar fanfaluche e vender fole.
Ché
nel mondo oggidì questa è l’usanza:
Chi
ha migliore loquela è più felice,
E il
saper soverchiato è da burbanza.
Ah, la
Cabala mia sa quel che dice,
Ché
delle cose penetra il midollo,
E
distingue il poppon dalla radice.
Venghiamo
all’N. Ci scommetto il collo
Che
nessuno sa dir, quel cervellone
Cosa
n’abbia risposto. Or io dirollo.
Rispose
al chieder mio: Negoziazione.
Nella
Crusca non v’è, dirà taluno,
Sì
fatto sperticato parolone.
La
Cabala lo sa più di nessuno,
Ma
incruscata non è, né infarinata,
E mai
non ebbe soggezion d’alcuno.
Dal
latin la parola è derivata;
E in
sostanza vuol dire, il negoziante
Rende
la Patria sua ricca e beata.
La fonte il negoziare è del contante,
E
mantien l’abbondanza e la ricchezza,
E
della società si fa garante.
E
dove meglio il negoziar si apprezza,
Fioriscon
gl’intelletti sopraffini,
E vi
regna il buon tempo e l’allegrezza.
E
talun con pochissimi quattrini,
Coll’arte
arriva ad inalzar suo stato,
E
acquistar gradi e meritarsi inchini.
Alla
lettera O di poi passato,
Stanco
di faticar, risponder presto
Alla
Cabala in grazia ho domandato.
Per sua
bontà mi favorì anch’in questo.
Dissemi:
Dietro all’O leggi Operare:
Operar
pronto, regolato e lesto.
Ché
nell’ozio infingardo infradiciare
È la
cosa peggior che dar si possa,
E
dall’ozio ogni mal suol derivare.
Nella
pigrizia ogni cervel s’ingrossa,
E
operando in cotesta od in quel modo,
La
macchina s’addestra e non si spossa.
E
della società l’intimo nodo
Si
avvalora operando, ed a vicenda
Alla
felicità si fissa il chiodo.
Questa
Cabala mia chi intende intenda.
Presto,
passiamo al P. Rispose Pace,
La mia
benefattrice reverenda.
Strugge
la società la guerra audace,
E
infelici rendendo i bei paesi,
Di
natura al desio mal si conface.
Noi,
per grazia di Dio, felici ha resi
La
vigilanza degli eccelsi Padri:
Siam fra
le stragi dell’Europa illesi.
Piagnere
non veggiam le afflitte madri,
I
tristi sposi abbandonar le spose,
E le
campagne desertar
dai ladri.
Pace,
pace, la
Cabala rispose,
E ciò
sol basteria per sottisfare
A
quanto il Presidente oggi propose.
Ma
vicino mi veggio a terminare
L’opera
incominciata, e al Q già sono;
Priegovi,
per bontà, non v’annoiare.
Al Q
rispose di Quattrini il suono:
O
dolce suon sì necessario al mondo!
O
della madre terra inclito dono!
Tu
il pastore, tu il re puoi far giocondo.
Languida
la virtù, resiste invano
Filosofia
della miseria al pondo.
Sei
l’allegrezza del consorzio umano.
Dica
quel che sa dir lo stoicismo,
Chi
ha quattrini in potere, ha il mondo in mano.
E i
poeti, portati all’eroismo,
Nel
volere d’amor spiegar le pene,
Scrivon
pane imitando il secentismo.
E le
pudiche vergini Camene,
Se
non han che mangiar, Dio le difenda
Dall’aurea
pioggia che dal Ciel non viene.
Ma va
lunga un po’ troppo la faccenda,
Mi
direte, lo so; non v’adirate;
Poco
resta a finir la mia leggenda.
La
risposta dell’R in caritate
Priegovi
d’ascoltar. Regola è quella
Che
ordina, che mantien la societate.
Regolate
i costumi e la favella;
Regolate
gli affari, e dall’esempio
Sia
regolata la famiglia anch’ella.
Giustizia
or rendo, e il mio dovere adempio,
Se
questa casa, che or ci alberga, io chiamo
D’alma
virtude e d’onestate il tempio.
E tali
e tante ascoltatrici abbiamo,
Per
mente, e senno, e per valor pregiate,
Che per
regola al mondo offrir possiamo.
O donne
illustri, per lo ben create
Della felice
societate umana,
Voi la
Regola vostra altrui dettate;
E la
Cabala mia superba e vana
Degli
oracoli suoi vedrassi, e lieta
Se il
bel sesso da noi non si allontana.
Ma
toccar, se vi piace, i’ vuò la meta
Di sì
lungo lavoro. Ho già vedute
Sbavigliar
bocche, e dir: Quando si accheta?
In
risposta sull’S ebbi Salute.
Il Ciel
ve la conceda a quanti siete,
Senz’uopo
mai di medica virtute.
Al T
disse Talento, e voi ne avete.
Al V
di Verità ricorda il vanto;
E voi
usar la verità solete.
L’X
e l’Ipsillon lasciai da canto,
Qualche
nuova temendo rispostaccia,
Siccom’ebbi
sul K, bizzarra alquanto.
Sia
lodato il Signore, or mi si affaccia
Dell’Alfabeto
l’ultimo quesito,
E la
lettera estrema alfin s’avaccia.
La
risposta dirò sincero, ardito,
Ch’ebbi
sul Zita, ma tornio a ragione
Esser
da tutti voi mostrato a dito.
La
Cabala rispose: Zibaldone.
E vuol
la cattivella maliziosa
Porre
la mia fatica in derisione.
E a
vero dir, dissi e ridissi a iosa,
E
quanto ho detto è un zibaldon badiale,
Da cui
non si può ben raccoglier cosa.
Ho però
schiccherato, o bene o male,
Ciò che
a formar la societade umana
E a
renderla felice al mondo vale.
Idest: verace Amor, Bontà
sovrana,
Buon Cervello,
Equità, Dottrina e Fede,
Giocondità che ogni disastro appiana.
Dissi
che Onor, che Ingegno han lor mercede;
Che il Leggere
istruisce, e la Memoria
È
pregio tal che ogni altro pregio eccede.
Che
reca il Negoziare utile e gloria;
Che
rende l’Operar gli uomini attivi;
E la Pace
d’elogi è meritoria.
Dissi
che quei che di Quattrin son privi,
Sono
infelici, e giova in ogni stato
Della Regola
buona i lumi vivi.
Che Salute
e Talento l’uom beato
Rendono,
e Verità fortune appresta,
E ch’io
un cattivo Zibaldon vi ho dato.
Per far
felice l’Accademia e questa
Udienza
che finor mi ha compatito,
Dopo
quel ch’io dicea, che cosa resta?
Resta
sol ch’io
finisca, ed ho finito.
|