LE
TRE SORELLE
STANZE
A
SUA ECCELLENZA IL SIG. ANDREA QUERINI
SENATORE
AMPLISSIMO, IN OCCASIONE DELLE
FELICISSIME
NOZZE FRA SUA ECCELLENZA LA SIG.
PISANA
QUERINI DI LUI DEGNISSIMA FIGLIA,
E
SUA ECCELLENZA IL SIG. AGOSTINO GARZONI.
Voglia
ebbi sempre d’essere poeta,
Ma io
stesso non so quel ch’i mi sia,
Poich’è
sentenza madornale e vieta
Ch’altro
son versi, ed altro è poesia.
Tullio
a’ Vati dicea: stella o pianeta
Furor
infonde, o ramo di pazzia.
A me
par di pazzia non esser senza,
Ma non
so s’i ne abbia a sufficienza.
N’avrò
soverchia, ma non già di quella
Che
vuolsi al grado di cantor sublime;
Ché
sapea misurare anche il Gonnella
Sette
ed undici piedi, e accozzar rime.
Escir
convien dalla comun favella,
Volar
di Pindo fra le occulte cime,
E di là
trar l’immagine o ’l mistero
Che il
falso adombri e non asconda il vero.
Pur
d’avere mi sembra un cervellaccio
A
inventar pronto, a immaginar fecondo;
E son
tant’anni ch’al mestier m’avaccio,
Che ho
di me pieno e di mie fole il mondo!
E se
tutte non passan per lo staccio
Le
frasi mie, d’altre dovizie abbondo;
E più
che coglier di farina il fiore,
Piacerai
trarne l’utile sapore.
E’ mi
sovvien che voi, signor gentile,
Di
lettre protettore e letterati,
Della
stirpe famosa signorile
De’ Quirini togati e porporati;
Mi
sovvien, dissi, che de lo mio stile
Voi non
badaste a’ difettuzzi usati,
Ma di
cor mi diceste più fiate :
Tu
immagini, tu pensi, tu se’ vate.
E chi
meglio di voi può dirlo, e meglio
Altrui
render del vero, e me sicuro?
Voi in
ogni classe di scïenza speglio,
Che
succhiaste de’ buoni il latte puro?
Dormo
anch’io spesso, e anch’io talor mi sveglio,
E
delirii miei sogni unqua non furo:
Ché
chi, desto, del ver rintraccia l’orme,
Non
figura chimere allor che dorme.
Con
quel disio che a poetar mi sprona,
E con
quel che da voi mi vien coraggio,
Signor,
ver l’amenissimo Elicona
Tenta
l’ingegno mio novel vïaggio.
Tessere
di mia man rosea corona
Vo’ di
Venere e Bacco al figliuol saggio:
Ché se
mai lode meritossi Imene,
Or va
tronfio il garzon su queste arene.
Della
tenera vostra amabil figlia
Almo
soggetto a mille vati è il nodo,
E può
il bel volto, e le soavi ciglia,
A mille
offrir d’immortalarsi il modo:
E
l’avito splendor di sua famiglia,
E
quanto Fama di lei sparger odo,
Può
stancar penne celebrate e conte,
A bever
use d’Aganippe al fonte.
Ma a
lei qual pro, quale a me onore aspetto,
Se quel
dirò, che diran cento e cento?
Facciale
chi ha servil basso intelletto,
Ché a
miglior opra trasportarmi io sento.
Ho un
paio d’ali, e sormontare il tetto
Agevol
posso per le vie del vento;
O con
magiche note trar poss’io
Qua il
monte e il fonte e le camene e il Dio.
Olà,
per lo poter dell’acque stigie
Per
Minos, Radamanto e ’l can tricerbero,
E di
Medusa per l’orrenda effigie
Che i
cuori impietra al micidial riverbero,
Scendete,
o Muse, obbedïenti e ligie
Con
cetre d’auro, e non di pruno o d’erbero.
Ecco,
al tremendo, orribile scongiuro
Convertito
in Parnaso il mio abituro.
Piena
la stanza ho di giocondi aspetti.
Oh qual
nova dolcezza al cor mi piove!
Sento
rinvigorir membra ed affetti,
Atto mi
sento a inusitate prove.
Ma qual
vegg’io moltiplicar gli oggetti?
Tre
donzelle ravviso oltre le Nove.
Chi
sien desse saper disio mi sprona;
Clio mi
guata, sorride, e tal ragiona:
Vedi,
cantor, se de le Muse il coro
T’ama
più che non credi, e se duop’era
Per
averci propizie al tuo lavoro
Tesifone
invocar, Cloto, o Megera.
Nosco
per lo tuo ben guidiam costoro
Perché
al canto ti dian nuova matera.
Troppo
le genti omai di noi svogliate,
Sdegnan
soffrir le cantafere usate.
Noi
siam talor da rio destin costrette
Prestar
le rime a chi d’alloro in vece
Merta
l’ortica, ed in un fascio mette
Oro,
ferro, letame, e musco, e pece.
E la
face d’Amore, e le saette,
Cui cantano
a sghimbescio più di diece,
Che ai
cigni un tempo imbalsamar le bocche,
Ora
sono a’ dì nostri filastrocche.
A dir
tu senti d’ogni sposa: è bella;
E a
caso il dice adulatore, o mente.
V’è chi
esalta l’amor di tal donzella
Che
abborrisce lo sposo o amor non sente;
Chi
virtù mille raffigura in quella
Che ave
il cuor duro, e cento grilli in mente;
Ond’avvien
che per tai laudi bastarde
Siamo
noi dette garrule e bugiarde.
Però se
mai col favor nostro usato
Dal vulgo escisti de’ cantor meschini,
Specchiati
in quelle, ch’a noi vedi allato,
Maestre
di talenti peregrini.
Mirale
in volto, e vedrai divïato
A che
ognuna di lor tenda ed inchini:
L’una è
la Poesia celeste e pura,
Musica
è l’altra, e quella è la Pittura.
Ecco,
come de’ vati a noi più cari
Destansi
in mente le novelle idee,
Sviluppando
i pensier confusi e vari
Fra le
immagini colte e le plebee.
Chi
eroi brama cantar sublimi e chiari,
Chi le
colpe sferzar d’anime ree,
Volgasi
a noi pria di versar lo ’nchiostro:
L’alto
poter dell’ideare è nostro.
Noi ti
rechiam l’immagine Felice
Delle
Tre liberali alme Sorelle,
E
argomento da lor sperar ti lice
Onde
salgano i sposi oltre le stelle.
Pinga
gli aviti eroi l’alma pittrice,
E dei
viventi Poesia favelle;
Musica,
ch’è dei cuor soave incanto,
D’Imeneo
narri e di Cupido il vanto.
Esse
stian teco; a noi partir conviene.
Guai se
alcun sappia che noi siam quaggiuso:
Gl’importuni
pur troppo all’Ippocrene
S’affollan
spesso, ed è il sentier lor chiuso.
L’invidia,
che il livor nosco mantiene,
Scaricarci
potria novel sopruso.
Taci;
non lo narrar... Fermati, Clio.
Muse,
Muse, partite? Addio, addio.
O dive,
o voi, che di restar degnate,
Sul
morbido soffà deh v’assidete,
E ’l
mio fosco talento illuminate,
Voi che
’l poter d’irradïarmi avete.
Vi
darei di buon core il cioccolate,
Ma a
nettare migliore use sarete.
Parli
alcuna di voi, parli a chi tocca,
Ch’io
sul ceremonial non apro bocca.
Move il
labbro Pittura, e in dolce suono
Par che
sen dolga Poesia repente,
Suore,
dicendo, prima nata io sono,
Nel
seno infusa del primier parente.
Musica
sorge a domandar perdono
Alle
suore gentili umilemente,
Dicendo:
Pria di voi sott’altro velo
Fui tra
le sfere e i cardini del Cielo.
Donne,
lo so che di sentir vi piace
Fra dee
l’esempio di femminea gara;
Ma non usan però lingua mordace,
Né lor
macera il sen l’invidia amara.
Virtù
le move, e chi è di lor seguace.
A
gareggiar nelle bell’arti impara.
Siate
gelose pur, donne gentili,
Ma sian
le gelosie saggie, e non vili.
Musica
e Poesia, malgrado al dritto
Di
natura e del tempo, il loco han cesso
Alla
colta Pittura; e a lo mio scritto
Dona
ella prima lo favor promesso.
Ampia
tela dispiega, e ’l grande, invitto
Eroe mi
mostra del roman consesso,
Il
porporato Angiol Maria Quirini,
Caro ai
Veneti un tempo ed ai Latini.
Questi,
dicea, prima d’ognun ti mostro
Della
sposa fra gli avi illustri e chiari,
Questi
che fu l’onor del secol nostro,
Che non
ebbe in talento e in virtù pari.
Liberal
d’oro, e di purgato inchiostro,
Per la
fé, per la greggia e per gli altari
Vendicator
delle dottrine offese,
De’
dotti amico, e protettor cortese.
Vedi
gl’innumerabili volumi,
Ampio
tesoro di sua man versato:
Riti,
leggi, consigli, arti e costumi
Tratta,
modera e illustra il porporato.
A
Brescia volgi, colà pinta, i lumi,
Mira il
gran tempio dal Quirini alzato:
La
Maddalena, che il bel quadro onora,
Dai
fedeli ’n Berlin per lui si adora.
Cambiar
veggo issofatto il grande obbietto,
E nuova
tela comparirmi innanti:
D’un Pier Garzoni
il venerando aspetto
La diva
ostenta, e ne dipinge i vanti.
Mira,
dice, l’eroe, le glorie eletto
Della
Patria a illustrar fra tanti e tanti,
Onde
sorpassa ogni scrittor laudato
Col dir
sincero e con lo stil purgato.
Ei la
grand’opra a meditare apprese
Fra ’l
consesso de’ Padri ove fu ascritto,
E al
pubblico del pari util si rese
Quanto
provvido disse e quanto ha scritto.
All’illustre
prosapia ond’ei discese
Accrebbe
gloria il cittadino invitto;
E se
fregio da lui la Storia prende,
Eguale
onor tra’ fasti suoi gli rende.
Vanne,
poeta, e co’ due quadri onora
Delle
nozze sublimi i dì beati.
Altre a
iosa potrei pingerti ancora
Immagini
d’eroi dei duo casati;
Ma i
due primi fra lor bastin per ora
Scelti
fra i memorandi oltrepassati,
E di
quei che nel mondo ancor son vivi
Parli
la Poesia: tu ascolta, e scrivi.
O mia
speranza, o mia diletta amica,
Di
natura e del Ciel propizio dono,
Candida
Poesia, vergin pudica
Di cui
senza malizia acceso io sono,
Risveglia
in me l’agil possanza antica
Onde ai
canti d’Amor fui desto e prono:
D’Amor,
m’intendo, ch’è fratel d’Imene,
Ch’io
fui sempre, lo sai, figliuol dabbene.
E se
talvolta di natura frale
Cedetti
agli urti, e le virtù fur guaste,
Osservai
la prudenza e la morale,
Governandomi
caute, se non caste.
Trar
dall’opere mie più ben che male
Ponno
le non ignocche anime caste,
E posso
dir, s’io pur cadei nel laccio,
«Fa
quel che dico, se non quel ch’io faccio».
Ma di
che parlo a penetrante diva
Che mi
legge nel cor? Su via, ragiona,
Produttrice
de’ carmi, e fa ch’io scriva
Col
purissimo ’nchiostro d’Elicona.
Mostrami
degli eroi l’immagin viva,
Che
agli sposi novei forman corona.
Ah, mi
guardi ridente, e movi il labbro!
Tu sei
la mente, ed io dell’opra il fabbro.
Giusta
cominci dall’eroe felice,
Padre e
signor della Quirina prole,
Cui
dell’opre d’onor Virtù nutrice
Immortal
rende: che le tracce sole
Segue
di quel che giova, e quel che lice,
E del prisco sentiero escir non suole,
Da
dignità procuratoria ornato,
Della
patria decoro, e del senato.
O di
padre sublime eccelsi figli,
Triplice
onore dell’adriaco impero,
Cari
alla patria per virtù e consigli,
Del
giusto amici, ed amator del vero:
Illustre
Polo, che in valor somigli
Ai
prischi zelator del Tebro altero,
Tu nei
più gravi e più scabrosi impegni
Giustizia
onori, e la costanza insegni.
E tu,
che il fren qual dittator reggesti
Delle
armate falangi, e due fiate
Renderti
caro ai Patavin sapesti
Colle
fervide tue gesta onorate,
D’eterni
allori al tuo valor contesti
Le
tempia avrai dalla tua patria ornate:
Ché
risuona dell’Adria intorno al lido
Di Girolamo saggio il nome e il grido.
Ma qual
destami in sen rispetto e amore
D’Andrea l’eccelso venerabil nome?
Dell’amabile
sposa al genitore
Quai
tesser valgo giuste laudi, e come?
Ei
d’alta mente e impareggiabil cuore,
Ha col
fren di virtù le passion dome,
E di
amica Sofia col vital latte
Nutre
se stesso. e ogni tristezza abbatte.
Bel
vederlo passar dal seggio augusto,
Dal
consesso de’ Padri al patrio tetto,
Raccolto
e sol nel bel recinto angusto,
Pascer
l’alma fra i libri, e l’intelletto.
Quant’egli
è al tribunal clemente e giusto,
Tanto è
del buon conoscitor perfetto;
E più
le sue virtuti orna ed abbella
Libero
core e libera favella.
O degno
di gentil saggia consorte,
Qual
gli diedero i dei compagna e amica!
Elena colta, generosa e forte,
D’eccelsa
schiatta Moceniga antica,
Che del
docile sen chiuse ha le porte
A
insano orgoglio, d’ambizion nemica,
Degna
sposa felice, e degna madre
D’almo
garzon, che di tre figli è padre.
Questi
è l’egregio amabile Giovanni,
Che sulle
tracce de’ parenti suoi,
Nella
bella stagion de’ suoi vent’anni
Va pel
cammin de’ gloriosi eroi.
Giunto
de’ savi agli onorati scanni,
Qual
non reca speranza al padre e a noi?
Speranza
è tal che rivedrassi un giorno
Pomposo
andar de’ primi fregi adorno.
Simile
oh quanto è alle virtù preclare
Dell’invitto
german la suora anch’ella!
Fra le
adriache donzelle adorne e chiare,
Saggia
tanto e gentil quant’essa è bella.
Modestia
e cortesia, che in essa appare,
Al più
felice alto destin l’appella:
E sposa
è già d’un che d’averla è degno,
Per
dovizie, per sangue, e per ingegno.
Ma non
consente Poesia ch’io parle
Dello
sposo per or. Musica aspetta;
E
paventa la suora ingiuria farle,
Poiché
la terza è alla degn’opra eletta.
Anche
l’arti son donne, ed irritarle
Guai a
chi tenta: pronta è la vendetta.
I più
lo sanno, ed io fo testimonio
Che
donna irata è peggio del Demonio.
Quel
che da Poesia sperar mi lice,
E il
poter dir col suo favore usato
L’alte
virtù del genitor felice
Dell’illustre
Garzoni almo casato,
Tralcio
fecondo d’immortal radice,
Fra i
venerandi senator locato,
Che
dell’antica nobiltate avita
Sostien
la gloria, e i primi Padri imita.
O
fortunata, invidïabil figlia,
Che
all’albergo di pace Amor ti scorta:
Vanne
pur lieta con allegre ciglia,
Ch’ivi
amor regna, e la discordia è morta.
Dalla
pavida ancor bocca vermiglia
Esca il
tenero sì che altrui conforta.
Già
tace Poesia, già mi abbandona;
Musica
mi conforta, e tal ragiona:
Segui
tu pur, segui lo stile istesso,
Sentomi
dir da melodia soave,
Che i
medesimi carmi è usar permesso
Al
canto mio armonioso e grave.
«L’armi
pietose e il capitano» hai spesso
Cantar
udito in nerborute ottave,
E fra
cantici udito avrai sonori:
«Le
donne, i cavalier, l’armi e gli amori».
Quella
i’ non son che ti faceva i denti
Digrignar
spesso e bestemmiar Vulcano
Per
l’indiscrezïon di certe genti
Virtuose
dette dal popolo insano,
Che ti
faceano dieci volte o venti
Storpiare
i versi e comparir baggiano,
Dando a
me colpa l’anfibio animale
D’essere
incontentabile, bestiale.
E non è
ver, che in servitute indegna
Io
costringa cader la suora oppressa;
Chi è
maestro da ver, musica insegna
Trar da
ogni metro, e dalla prosa istessa;
Ma
L’impostura e l’ignoranza regna,
E la
ragione è badïale, espressa:
Che se
’l poeta musica non crea,
Il
mastro di cappella non ha idea.
Non
intendo di far d’ogni erba fascio;
Sai di
chi parlo, e ravvisar potrai
Chi
squaderna biscrome a catafascio;
E i
primai li conosci, ed i sezzai.
A
malincuore strapazzar mi lascio;
Me medesma
talor non ravvisai;
Ma buon
per me, che fra sì rie vicende
Avvi
chi lo smarrito onor mi rende.
O
d’armonico spirto illustre albergo,
O
valoroso Bastian beato
Che per
me lasci ogni piacere a tergo,
Ed a te
appien di possedermi è dato:
Tu puoi
franco vestir lorica e usbergo
Contro
lo stuol che mi trafigge ingrato,
L’impostore
scoprendo, e i grossi falli,
E i
ladri, e le bertuccie, e i pappagalli.
Questi
(a dir segue) che m’onora, e onoro,
È Mocenigo generoso, umano,
Eletto
a sostener l’almo decoro
Dell’augusta
sua patria al regno ispano.
Quel
che pronubo ordio l’alto lavoro,
E a fin
condusse l’imeneo sovrano
Dell’egregia
nipote, i di cui vanti
È tempo
ormai che tu risvegli, e canti.
Canta
la bella, – valentia d’Amore,
Che
punse il core – di gentil donzella.
Canta
d’Imene – il fulgido splendore,
Che in
terra viene – da felice stella.
Canta
il bel volto – da cui vien l’ardore
Che il foco accende –
all’agili quadrella,
Onde fu
colto – il nobile garzone,
E
grazie rende – a chi di lui dispone.
Ma la
bellezza – de’ suoi pregi è il meno,
Ché più
del seno – la virtù s’apprezza.
E tal
sa porre – a basse voglie il freno,
Che
d’onor corre – alla sublime altezza.
Nell’età
nostra – che in valor vien meno,
Mira
costei – nel fior di giovanezza
Far lieta
mostra – di saper profondo,
Cara
agli dei – quant’è felice al mondo.
Lo
sposo adorno – che le siede al fianco,
D’attender
stanco – il sospirato giorno,
Volgendo
il ciglio – al fresco volto e bianco,
Si fa
vermiglio – e mille fiamme ha intorno.
Amor lo
rende – vigoroso e franco,
E del
diletto – guidalo al soggiorno.
Imene
accende – la purpurea face,
E
scopre il letto, – e si nasconde, e tace.
Venere,
scendi – ad infiorar le piume,
E col
tuo lume – le due salme accendi:
Fa
ch’ei giocondo – adattisi al costume,
E il
sen fecondo – della sposa rendi.
Venere
sorta – dalle algose spume,
Che i
caldi voti – dal tuo cerchio intendi.
Adria
conforta – e al genitor concedi
Figli e
nipoti – e fortunati eredi.
Tace la
diva, e si contorce, e sviene,
In pensieri
d’amor confusa, involta;
Che
dacché un dì la smaliziar le scene,
L’innocente
non è ch’era una volta.
Ma
irradiato vapore a involger viene
Le tre
sorelle in larga nube e folta;
Dileguansi
da me, non so dir come.
Oh
maraviglia da arricciar le chiome!
Ecco,
signor, sia visïone, o sogno,
O
poetica immagine felice,
Or che
mostrarvi il mio rispetto agogno,
Eccovi
il testimon che offrir mi lice;
E
dell’opera mia non mi vergogno,
Poiché
il proverbio veterano dice:
Chi fa
quello che può, fa quel che deve.
La man
vi bacio, e mi licenzio in breve.
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