LA
MUSA INDOVINA
CAPITOLO
Si signor,
sì signor, v’ho già capito.
Versi
volete? Vi farò dei versi.
Chi vi
manda da me sarà servito.
Già lo
sapete, che finora apersi
Facilmente
la porta a tanti e tanti,
Né vo’
che alcuno abbia di me a dolersi.
Ma se
volete che qualcosa io canti,
Che non
sia de comuni, è necessario
Della
sposa ch’io sappia i pregi e i vanti.
L’argomento
sogl’io, per ordinario,
Adattar,
lo sapete, alle persone,
E con
ciò facilmente invento e vario:
Che chi
alla cieca a poetar si espone,
Cento
volte dirà la cosa istessa,
E la
laude diventa adulazione.
Tosto
ch’io veggo una Raccolta impressa,
Corro
attento a mirar se dir si possa:
Quella
Donzella che han dipinto, è dessa.
Ma il
volume talor s’empie e s’ingrossa
Di
belle poesie fritte e rifritte
Per
ogni figlia al monister promossa.
Tutte
sono del par sublimi, invitte.
Odonsi
sempre collo stile usato
Padri
piangenti e genitrici afflitte.
Hanno
tutte ferite il manco lato
Dallo
strale celeste, e ognor si vede
Fremere,
disperarsi il dio bendato.
E la
laude comun cotanto eccede,
Tanto
saggie son tutte, e ricche, e belle,
Che
anche al merito ver più non si crede.
Hanno
tutte le donne e le donzelle
Il suo
bello, il suo buono, e il suo difetto,
Né
confonder si deon queste con quelle.
Io non
dico, che s’abbia in un sonetto
O in
qualch’altro maggior componimento
Dir
quel bene, o quel mal, che non va detto.
Ma chi
ha mente feconda e buon talento
Deve
individuar della persona
Quel
che in essa preval fra cento e cento.
Dunque
se deggio anch’io tesser corona
Di
giuste laudi a questa santa e pia
Vergine,
che nel chiostro or s’imprigiona,
Per
poter risvegliar la fantasia,
E
parlare di lei con fondamento,
Le sue
vere virtù saper vorria.
Bianca al secolo ha nome a dir io sento,
chiamerassi
Maria Elisabetta
Quando
l’albergo suo sarà il convento.
Oh di
poeti legge benedetta,
Non mi
dite di più? Dunque sta mane
È la
mia Musa a indovinar costretta?
Si, sì,
talor so che le menti umane,
Coll’aiuto
de’ segni e di figure,
Possono
disvelar le cose arcane.
E nelle
sacre bibliche scritture
Talor
dal nome interpretar s’udio
Le
virtù dei soggetti e le avventure.
Nella
Sacra Scrittura ho letto anch’io
Ch’Elisabetta nell’ebrea favella
Voglia
spiegar del Giuramento il Dio.
Onde la
santa valorosa ancella,
Che ha
la Fede col cuore a Dio giurata,
Elisabetta vuol chiamarsi anch’ella.
Leggesi
(e chi nol sa?) nella Vulgata,
Ch’è la
più vera scrittural versione,
Maria significar donna Esaltata.
Dunque
facendo anch’io l’applicazione
Dei due
nomi sublimi scritturali,
Così
formo la mia divinazione:
Questa
vergine saggia è fra i mortali
Quella
che, più d’ogn’altra a Dio diletta,
I santi
voti manterrà claustrali:
Povertà
vera, e castità perfetta,
E
obbedienza, e monacale usanza
Qual ad
ancella del Signor s’aspetta;
E,
quanto ogni altra nella fede avanza,
Tanto
più si nasconde e si assicura
Dalle
insidie del mondo in erma stanza.
Promette
a Dio la sua costanza, e giura,
E Dio
promette al suo celeste impero
Trarla,
qual nacque, immacolata e pura.
Oh
sublime del Ciel sacro mistero!
Oh
provvidenza, che le fosche menti
Sovente
innalza a penetrar nel vero!
O voi
che udite i miei vulgari accenti,
Non son
io che favella, è il divin lume
Che
move il labbro ad annunziar portenti.
A caso
no, ma per voler del Nume,
Elisabetta sentesi nomata
Bianca gentil di candido costume.
Amico,
e che vi par? L’ho io trovata?
Quel
che ho detto di lei può dirsi mai
Che sia
cosa per altre immaginata?
Argomento
più certo io non trovai:
E in
difetto di lumi e cognizioni,
Or
l’astrologo ho fatto, e indovinai.
E non dite
che sien vane allusioni
Ai nomi
ed ai cognomi accidentali.
Son
poetici voli belli e buoni;
Poiché
sulle ragion fondamentali
Della
Sacra Scrittura e dei Dottori,
I miei
carmi son veri, e dottrinali;
E dopo
che ho fatt’io tanti lavori
Per
vestiari di monache o professe,
Son
coll’astrologia saltato fuori.
Forse
non piacerò; ma Dio volesse
Che
provassero almen, siccom’io provo,
Certi
tali a non dir le cose istesse.
Che se
immagin felici ognor non trovo,
Dir
posso almeno, e comprovar col fatto:
Mi affatico
a cercare un pensier novo.
Quando
conosco, le invenzioni adatto;
Ma
questa volta mi credei davvero,
A forza
di pensar, diventar matto.
E quasi
ho maledetto il mio mestiero;
Ma mi
sono al Signor raccomandato:
Nel
caos profondo ho ripescato il vero,
E mi
pare d’averlo indovinato.
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