IL
PELLEGRINO
POEMETTO PER LA
VESTIZIONE DELLA NOBILDONNA CONTESSA
VITTORIA
VIDIMAN NEL MONASTERO DI SANTA CATERINA
PARTE
PRIMA
O voi,
che brama di sapere avete
Quel
che accade di nuovo alla giornata,
E di
fiabe e romanzi avidi siete,
E
d’ogni altra ridente pappolata;
Cosa vi
narrerò se mi udirete,
Non
iscritta finora, né stampata:
Idest
vi canterò di un Pellegrino
Le
avventure, i viaggi, ed il destino.
Dite
quest’opra mia, qual più vi aggrada,
Storia,
canto, poema, o stanze, o ottave;
Io non
mi scosterò dalla mia strada,
Seguitando
il mio stil, non vil, non grave;
E al
solito, qualor sentir m’accada
Di
critica toccar l’acuta chiave,
Seguirò
non ostante, e m’apparecchio
Aprir
le labbra e chiudere l’orecchio.
Odami
chi udir vuole, e a chi non piace,
Tutto
quel ch’io dirò, sia per non detto.
La mia
sola ricchezza è la mia pace,
Né
m’attrista d’invidia onta o dispetto.
Chi ne
sa più di me, sel goda in pace.
Dono di
provvidenza è l’intelletto.
Io
compatisco chi non sa nïente;
Me
compatisca ancor chi è più valente.
Non mi
muove a dettar la storia in rima
Del mio
tedesco Peregrin divoto
Brama
di gire
alla sacrata cima
Del
Parnaso immortal, che a pochi è noto;
Ma
offrir vo’ in segno di rispetto e stima
Ad un
illustre cavaliere in voto
(Prima
ch’i’ esca dall’Italia fuori)
Uno de’
miei fantastici lavori.
Se
grati a lui non riusciran miei carmi,
Figli
di un miserabile talento,
Posso
almen con certezza assicurarmi
Che
gratissimo a lui fia l’argomento.
Ché non
d’amori, o cavalieri, o d’armi,
E di
cosa vulgar cantar io tento,
Ma il
Pellegrin, ch’è la fedel mia scorta,
Di
vergin santa a ragionar mi porta.
Questa
vergine eccelsa a Dio diletta,
O
saggio, o illustre Vidiman
cortese,
È
figlia vostra, fra le donne eletta
A dar
gloria dell’Adria al bel paese.
Udite
come sua virtù perfetta
La
mente e il cor di un Pellegrino accese;
E di Joan
Lordgloc, Tedesco vero,
Io
copio i detti, e non v’aggiungo un zero.
Mosso
il pio cristian da divozione
Per
visitar gl’italici santuari,
Preso
il breve mantel, preso il bordone,
Addio
disse agli amici, e ai patrii lari.
Solo per lo cammino andar propone,
Ricco
di fede e scarso di danari,
Cavalcando
per via, da buon Tedesco,
Sul
docile caval di san Francesco.
Venne,
scorrendo il bavaro paese,
Di
Salisburgo agli ultimi confini,
Passò
la Drava, ed il cammino ei prese
Della
Carintia per i giogi alpini.
Giunse
a San Paternian, là dove intese
Che non
son malveduti i pellegrini,
E
persuaso da sì dolce incanto,
Colà
fermossi a riposare alquanto.
Vede un
ricco palagio, e in cuor gli viene
Voglia
di domandar chi n’è il signore,
Desïoso,
se può, d’alloggiar bene,
Senza
aver il danar da metter fuore.
Gli
risponde in tedesco un uom da bene:
Di
quell’ampia magione è possessore
Un
cavalier patrizio veneziano
Saggio,
prudente, generoso e umano.
Qui Sua
Eccellenza Vidiiman padrone,
Conte
del Sacro e del Romano Impero,
Di
questo borgo è libero barone,
E
comanda al fecondo ampio sentiero.
Soggiacciono
alla sua giuridizione
Trentaquattro
comuni; e solo, e vero
Dominator
con magistrati e corte,
Assolver
può, può condannare a morte.
Ei può
donar l’eredità giacenti
Ad
ognun de’ vassalli a suo talento,
E può
legittimar quei che innocenti
Nacquero
al mondo senza il Sacramento.
Regge,
benché lontan, le nostre genti
Con un
Vicario alla giustizia intento,
E siam,
grazia del Ciel, lieti e felici
Di sì
caro signor sotto gli auspici.
Benché
lungi da noi lo tenga il fato
In
augusta città di lui ben degna,
Egli è
da noi teneramente amato,
E nel
cuor nostro dolcemente ei regna:
Poiché
sappiam che di virtuti è ornato,
Che ama
giustizia e la clemenza insegna,
E
quant’è nel punir pesante e lento,
Altrettanto
è in graziar presto e contento.
Entraro
uniti nel palagio antico.
E fu il
divoto Pellegrin raccolto,
E
all’indomani pel terreno aprico
Per la
via di Villacco ha il piè rivolto :
Villacco,
in cui dal Sassone nemico
Carlo
Quinto, fuggendo, un dì fu accolto,
Ed ebbe
il vanto di salvar l’onore,
E la
vita, e gli stati al suo signore.
Alla
breve città fermossi intorno,
I caldi
bagni ad osservare attento,
Onde
s’empie talora il bel soggiorno
Da
infermo stuolo a risanarsi intento.
La
Provvidenza ha quel paese adorno
Di
facile e sicur medicamento,
E i
medici colà coi loro arcani
Strage
non fan dei miseri cristiani.
Per
l’Italia seguendo il suo cammino,
Giunse
della Pontieba, al passo angusto,
Per cui
diviso è il veneto Domino
Dall’antico
Germano Impero augusto.
E
ammirò come il popolo vicino
Serba
di sua nazion l’uso vetusto.
Di qua
tutto è italian, lingua, e costume;
Ed è
tutto german di là dal fiume.
L’Alpi
Giulie passate, arriva al fine
Alla
bella città ch’Udine ha nome,
Che tra
il furor di barbare ruine
Coronate
d’allor serbò le chiome.
Scorrendo
il delizioso ampio confine
L’accorto
Pellegrino intese come
Quella
patria reggeva un Mocenico,
Ch’era
del Vidiman cortese amico.
E colà
poscia a ragionare udio
Ch’ave
una figlia il Vidiman signore
Che ha
destinato di donarsi a Dio,
D’ogni
umano desir spogliato il cuore.
Eravi
chi lodava il bel desio
Di
un’alma accesa di celeste ardore :
E chi
dicea con un sospir profondo:
Oh
quanto perde, se lei perde il mondo!
Ricca,
nobile dama e di talento,
Vaga,
gentil, di maestoso aspetto,
Chiuderassi
per sempre in un convento,
Cambierà
in umil cella un aureo tetto?
Nutre
dell’Adria a conseguirla intento
Ogni
illustre garzon la brama in petto,
Ed ella
fugge in solitaria stanza?
Oh
delusa del mondo egra speranza!
Fra
quel che intese il Pellegrin da prima,
E quel
che or sente di sì pia famiglia,
Desia,
pien di rispetto e d’alta stima,
Il
genitor conoscere, e la figlia.
S’alza
di buon mattino, e verso il clima
Temperato
dal mare il cammin piglia,
Ma per
divozïon risolve intanto
Passar
per Padua a visitare il Santo.
Trovasi
alla Fossetta, e là s’imbarca,
E in
grazia del bordon risparmia il nolo,
E la
Laguna sino a Mestre varca,
E passo
passo si ritrova al Dolo.
Giunto
a Padua alfin dinanzi all’arca
Bacia i
candidi marmi, e bacia il suolo;
Indi a
Santa Giustina ei va curioso
Il gran
tempio a mirar maraviglioso.
Per il
Prà della Valle indi s’avvia
Sotto
il comodo ombroso porticato,
Ed
osserva un signore a mezza via
Starsi
sedendo al suo portone allato.
L’inchina
il Pellegrin. Con cortesia
Lo
risaluta il gentiluom garbato;
Indi
amorevolmente lo trattiene,
Chiedendo
dove va, da dove viene.
Svela
il Tedesco la sua patria e il nome,
E la
novella sua buona intenzione
Di
passare a Venezia, e narra come
Acquistarsi
colà brama un padrone.
Il
nobil Padoan chiede il cognome
Di quel
signor cui visitar propone,
E
sentendosi a dir che è il Vidimano,
Alzasi
in piedi, e batte mano a mano.
Bravo,
dicendo, o Pellegrino, andate
A
conoscere il fior de’ cavalieri,
Ricco
di fregi e ricco di bontate,
Docile
nei costumi e nei pensieri;
Ma se
piacere al cavalier bramate,
Le lodi
trattener fa di mestieri,
Ché
nemico del fasto è per natura,
E la
lode servil sprezza e non cura.
Ite,
soggiunge, e al Cavalier gentile,
E alla
nobile sposa, e alla famiglia
Rinnovellate
il mio rispetto umile
Especialmente
alla contessa figlia:
Figlia
vaga, modesta e signorile
Che nel
bel cuore al genitor somiglia,
D’occhio
vivace, e maestoso aspetto,
Che
risveglia in ciascun stima e rispetto
Ella
nata di sangue illustre e degno
D’ogni
nodo sublime, e pronipote
Del pio
signor che ha della Chiesa il regno,
Ricca
di beni e di cospicua dote,
Ella
che al grado suo pari ha l’ingegno,
Le cui
rare virtù son chiare e note,
Tutto
pone in non cal, tutto in oblio,
Per
viver casta e consacrarsi a Dio.
Scelta
ha la cella sua nel monistero
Ch’è
all’egiziana martire dicato,
Nobile
antico santuario vero,
’Ve di
Sant’Agostin l’Ordine è usato
Ivi
l’alma nutrì, nutrì il pensiero
Di
massime conformi ad umil stato,
Certa
che l’umiltà, per virtù eletta,
Apre la
via per divenir perfetta.
Né
parte alcuna in così pio consiglio
Ebbe
umano discorso o affetto umano.
Fissò,
egli è vero, in due sorelle il ciglio
La
divota nipote, e non in vano,
Di lor
ch’han preso dalla terra esiglio,
Valse
l’esempio angelico e sovrano;
Ma
queste due Rezzoniche pietose
Alla
grazia lasciar le strade ascose.
E la
grazia di Dio soavemente
Penetrolle
nel sen, le punse il core,
Onde
giunta all’etade in cui si sente
La
vergin pronta a concepire amore,
Disse
fra sé: Se il genitor consente,
Esser
sposa vogl’io del mio Signore;
So
quanto è il genitor cortese, umano:
In lui
confido, e non confido in vano.
Il
saggio, il prode cavalier pietoso
Fa la
figlia sortir da quelle mura,
E
l’occulto pensier, per anche ascoso,
Di
penetrar discretamente ha cura.
Nobile
per costume e generoso,
Ogni
onesto piacere a lei procura;
Ella
per aggradir mostra diletto,
Ma il
suo primo desio coltiva in petto.
Poi
giunge il dì che ha di parlar fissato,
E al
suo buon genitor scoprir l’arcano.
S’avvia
modesta, gli si prostra allato,
E
umilemente baciagli la mano.
Padre,
dicendo, a sé Dio mi ha chiamato :
Altro
sposo non vo’ che il mio Sovrano;
S’è in
piacer vostro che felice io sia,
Piacciavi
secondar la voglia mia.
L’abbraccia
il padre e intenerir si sente,
Riman
sospeso, indi
favella e dice:
Figlia,
se sua ti vuol Dio onnipotente,
Che
l’uom si opponga al suo voler non lice.
Vanne,
che il genitor te l’acconsente:
Fa che
sappialo ancor la genitrice.
S’alza
la figlia, e giubilante appieno
Corre
alla madre, e le si getta in seno.
Volea
parlar, ma la
prudente dama
Prevenuta
l’avea col suo pensiero:
Figlia,
dicendo, dell’occulta brama
Fra i
tuoi silenzi ho discoperto il vero;
Vattene
al chiostro pur, se Dio ti chiama;
Io non
mi oppongo al suo divino impero.
Pur che
appaghi contenta il tuo desio,
Lo
soffro in pace, e son contenta anch’io.
Finì
dicendo il padovan signore
Al buon
Tedesco: Mi ricordo ancora
Quando
Maria Quintilia, la minore
Rezzonico sorella, si feo suora,
Un
comico poeta, o sia dottore,
Con Esopo
alla grata saltò fuora
Dicendo
che inclinava, e disse il vero,
La
contessa Vittoria al monistero.
Sempre
più s’invogliava il Pellegrino
D’ire a
Venezia ove spingealo il cuore,
Per
vedere e ammirar più da vicino
L’ammirabile
figlia e il genitore.
Ma
poiché non sapea d’onde il cammino
Prender
dovesse, chiese per favore
Gli
additasse la via sicura e corta
Per gir
della città fuor della porta.
Chiamando
tosto il gentiluom Pasquale,
Va, gli
dice, e accompagna il forastiere
Alla
solita barca; e liberale
Mette
mano al taschin, gli dà per bere.
Fra sé
disse il Tedesco: Manco male.
Indi
col Cavalier fa il suo dovere
E dal
fido Pasquale accompagnato,
Giunse
al solito imbarco, e s’è imbarcato.
Sperava
il pover uom di riposarsi,
E
dormire la notte agiatamente,
Ma non
trova un canton da coricarsi
Fra
cotanti imbarazzi e tanta gente.
Procura,
come può, di addormentarsi,
E sotto
il manto mordere si sente:
Onde
perché il vegliar meno gl’incresca,
Si
risolve di starsi all’aria fresca.
Splendea
la luna, e a vagheggiar si diede
Della
Brenta i palagi ed i giardini,
E a un
galantuomo a lui vicino ei chiede,
Se ha
stanza il Vidiman fra quei
confini.
No, gli
risponde, villeggiar si vede
Altrove
il Vidiman fra’ suoi domini,
sembra
che fra gli altri ei si consoli
Nel suo
ricco, giocondo, ampio Bagnoli.
Due
volte l’anno in compagnia giuliva
Di Dame
e Cavalier, di buoni amici,
Nel
fresco autunno e alla stagione estiva
Gode, e
altrui fa goder giorni felici;
E talor
rende l’allegria più viva
Colle
comiche scene imitatrici,
E con
giochi innocenti, e pranzi, e cene,
Cortese
con chi va, grato a chi viene.
Seco
condusse a villeggiar l’altr’anno
La sua
figlia maggior, ma convien dire
Ch’altri
pensieri nel suo cuor sen stanno,
Poiché
non seppe in tanto ben gioire.
Sparsa
è una voce che mi reca affanno,
Ch’abito
monacal voglia vestire,
E la
patria privar d’una speranza
Che in
lei fondava, ed ogni speme avanza.
Con
questi ed altri tai ragionamenti
Passan
la notte, ed a spuntar si vede
La vaga
Aurora a serenar le genti;
Indi
all’alba novella il sol succede.
Tenendo
gli occhi il Pellegrino intenti,
Discopre
la regal veneta sede,
E tocco
da stupor, da maraviglia,
Segue
il Tedesco ad inarcar le ciglia.
Piucché
s’avanza, piucchemai comprende
Esser
opra de’ numi il gran lavoro.
Mira
gli alti palagi, e non intende
Come
scherzino l’onde intorno a loro.
Scende
nella gran Piazza, e a dir s’intende:
O
dell’arte, o del mondo ampio tesoro!
Va per
la Merceria, s’incanta, e dice:
O
abbondante città! Città felice!
Giunge
verso Rialto, e il ponte ammira
Noto
per fama ai popoli lontani.
Volea
salir, ma di
veder sospira
La
diletta magion de’ Vidimani;
La via
ne chiede, e ciascheduno aspira,
Giusta
la cortesia de’ Veneziani,
D’insegnargli
la strada, e un buon cristiano
Lo
conduce con seco a San Canciano.
Giunti
dove fa capo un fruttaiuolo,
Per
qua, dice, s’andria, ma per sventura
Si è
rotto il ponte, e per maggior mio duolo
Poner
mano non veggio
all’armatura.
Chi non
vuole il canal passare a volo,
Un giro
convien far per via sicura:
Deggio
presto partir, ma spero un giorno
Che il
ponte sarà fatto al mio ritorno.
Era un
uomo costui che andar sovente
Soleva
a desinar dal cavaliere,
E che
talor per astrazion di mente
Verso
il ponte sen gìa sopra pensiere.
Quando
se n’accorgeva, impazïente
Maledire
s’udiva a più potere,
Come se
l’allungar la strada un poco
Fosse
per esso un camminar sul foco.
Giunsero
al fine a penetrar le porte
Del bel
palagio Vidimani antico;
E le
scale scendea, per buona sorte,
Un
galantuom che degli amici è amico.
Chiedon
del cavalier, della consorte;
Ei
d’introdurli prendesi l’intrico,
E
entrato il Pellegrin col camerata,
Trovano
in essi la bontade usata.
Già il
franco Venezian colà restava,
E
rincresceva al Pellegrin partire,
Tanto
più che vedere ei desïava
Quella
la cui virtù fa altrui stupire.
Siccome
un galantuom d’esser mostrava
Nel
parlar, nell’aspetto, e nel vestire,
A
pranzo il cavalier l’ebbe a invitare,
E il
buon Tedesco non si feo pregare.
Poscia
guidato il Pellegrino in sito
Separato
in allor dall’altra gente,
Tenete,
disse cavalier compito,
E una
carta gli dà segretamente.
Grazie
gli rende, e poi sotto al vestito
Discioglie
il gruppo, e le monete sente;
Si
rallegra iI meschin, ma arrivar sente
Dalla
porta comun dell’altra gente.
Erano
questi i due minor figliuoli,
Il
contino francesco e il bel Tognino;
E
l’ultimo di lor par si consoli
Nel
veder col bordone il Pellegrino.
Chiede
il Tedesco se due maschi soli
Concessi
al cavalier abbia il destino;
Risponde
il Venezian: Ve n’ha in Murano
Due
maggiori di questi, a San Cipriano.
Giovine
dama nell’età fiorita
Entrar
poi vede in maestoso aspetto,
Colla
faccia ridente e colorita,
Nere
pupille, e labbro tumidetto,
Vezzosa
agli atti, e in favellar compita,
Ma tal
che impone al forestier rispetto.
Veggendo
il Peliegrin l’aria modesta:
È
questa? ei chiede, e dir si sente: È questa.
Siedon
tutti alla mensa, e il buon straniero
Nel
sentirla parlar gode e s’incanta,
Preso
da maraviglia e stupor vero,
Come in
donna si dia virtù cotanta.
Delle
donne, dicea, non è il mestiere
Saper
l’istorie, e la Scrittura Santa;
E delle
matematiche il diletto
Sorpassa
il femminil vago intelletto.
Tentò
l’accorto provocar la dama,
Seco
parlando di grandezze umane,
E
scoprì in essa la celeste brama
Disprezzatrice
delle pompe vane.
Vede
che nel suo cuor coltiva ed ama,
Piucché
l’argento e l’or, le sacre lane,
E che
tanta virtù rara e perfetta
Pel
mondo no, ma per il Ciel fu eletta.
Indi il
discorso fe’
cadere a sorte
Sul suo
viaggio il Pellegrin valente,
Pregando
il cavaliere e la consorte
E la
vergine saggia umilemente
Raccomandarlo
a quella sagra Corte
Dove
regna il santissimo Clemente,
Zio di
donna Quintilia, e che per essa
Amor
paterno e distinzion professa.
Volentieri
la grazia a lui si accorda:
Parte
contento, e ai protettor s’inchina.
Delle
dame congiunte ei si ricorda,
E va di
botto a Santa Caterina.
Del
santo campanel tira la corda,
Deo
gratias gli
risponde una vicina;
L’abbadessa
domanda, e la sorella,
E la
minore Vidimana anch’ella.
Vengon
le due Rezzoniche gentili
Piene
di umanità, di cortesia,
Nell’eccelse
virtudi ambe simili,
Arabe
d’anima grande, e giusta, e pia.
Indi
conosce ai tratti signorili,
Alla
vaga gentil fisionomia,
La
nipotina, la contessa Annetta,
Disinvolta,
cortese e vezzosetta.
Dame,
lor dice, i passi miei diretti
Son di
Roma ai santuari. Avrò l’onore
D’esser
anch’io fra i pellegrini eletti,
E i piè
baciare del roman Pastore.
Conoscer
bramo i nobili soggetti
Del
sangue illustre di sì pio signore,
E prima
di partir son qua venuto
Quel
rispetto ad usar ch’è a voi dovuto.
Maria Luigia,
nobile abbadessa,
Pria lo
ringrazia, e poi gli dà il buon viaggio.
Maria Quintilia
lo ringrazia anch’essa,
E gli
augura felice un tal passaggio.
La
giovinetta al finestrin s’appressa,
Dicendo
con parlar modesto e saggio:
Andate
in pace, Pellegrino mio:
Verrei
a Roma volentieri anch’io.
Di là
partissi il galantuom gentile,
E una
gondola prese e andò a Murano,
Desideroso
d’inchinarsi umile
Ai due
figli colà del Vidimano.
Giunto
all’isola vasta e signorile,
Si
conduce bel bello a San Cipriano,
Dove
stansi in collegio i giovanetti
Sotto i
Somaschi, in educar perfetti.
Il
contino Giovanni, allegro in
volto,
Lieto
l’accoglie e pel collegio il mena,
E molte
cose gli domanda, e molto
Era in
quel dì di favellare in vena.
L’altro,
meno verboso, e più raccolto.
L’accoglie
anch’esso con fronte serena,
Dicendo:
A Roma noi andremo ancora;
E
soggiunge il maggior: Non vedo l’ora.
Terminati
il Tedesco i complimenti,
Torna a
Venezia, e d’inchinar bramoso
Del
Santo Padre i nobili parenti,
Al
palagio sen va ricco e pompososo
Dove
sen sta di Giustiniane genti
Dama
d’illustre sangue e cuor pietoso,
Del
Romano Pastor degna cognata,
D’ogni
bontà, d’ogni virtute ornata.
Accolto
fu benignamente, ed ebbe
Prove
del suo bel cor cortese, umano;
E
all’informato Pellegrino increbbe
Che non
vivesse quel signor sovrano
Che il
latte sempre di pietà sol bebbe,
Cavalier
generoso, e pio cristiano,
Morto
Procurator, ma vivo ancora
Della
Patria nel cuor, che il nome onora.
Da
Venezia partir risolve al fine
E va
tosto a imbarcarsi alla Piazzetta;
Giunge
colla peota al bel confine
Dove di
zucche si suol fare incetta:
E
mentre avvien ch’ei per la via cammine,
Un’arme
osserva sul palagio eretta,
Arme
ch’anche in Germania avea veduta,
Arme
del Vidiman riconosciuta.
S’invogliò
di saper del pio signore
Come
fosse lo stemma in Chiozza appeso,
E
risposto gli fu: Saggio Rettore
Fu
quivi un tempo alla giustizia inteso.
Il nome
suo de’ cittadini in cuore
Vive, e
regna tuttor dal tempo illeso,
E
rammentasi ancor di Sua Eccellenza
Il saper,
la dolcezza, e la clemenza.
Benedetto
sia Dio, disse giocondo
Il
Pellegrin: di quel signor sublime
Trovo
marche d’onor per tutto il mondo,
Degno
che ciaschedun l’onori e stime.
La sua
pietade, il suo saper profondo
Lo
trasporta di gloria all’alte cime...
Perdoni
il Vidiman: lo so, gli spiace
Sentir
le lodi; ed io fui troppo audace.
Parlo
del Pellegrin, che s’incammina
Ver la
prefissa religiosa meta,
E pria
verso Loreto andar destina,
Ch’è di
gente simil via consueta.
Or
cavalca, or s’imbarca, ed or cammina,
Misurando
il voler colla moneta:
Ché per
tutto non trovansi Cristiani
Del
bellissimo cuor dei Vidimani.
Tutto
il viaggio narrar lungo sarebbe,
Seguendo
il Pellegrin di loco in loco;
E
annoiarsi potria chi finor ebbe
Gl’incolti
versi a tollerar non poco.
Anche
il mio canto divenir potrebbe,
Forse
più che non è, spossato e roco;
Dunque
restringerò la grave soma,
Di lui
parlando allor che giunse in Roma.
O città
fortunata, al Ciel diletta,
Sovrana
un tempo del Romano Impero,
E or
più felice poiché fosti eletta
In
stabil sede al successor di Piero.
A te
accordano i fati, e a te si aspetta
L’esser
capo regal del mondo intero.
Se in
te la Santa Religion risiede,
Tutto
il mondo cristian ti bacia il piede.
Ma
soffri che l’onor tuo si divida
Con
l’augusta città che all’Adria impera,
Ché se
il sagro Pastore in te si annida,
Ella è
del tuo Pastor la madre vera.
Onorevol
tra voi sia la disfida
Se sia
vanto maggior, gloria primiera,
Possedere
un eroe di virtù ornato.
O
l’averlo prodotto e altrui donato.
Contento
adunque il Pellegrino arriva
Nella
vasta città dei sette colli,
E
scorrendo le vie del Tebro in riva,
Ammira
i tempi e le superbe molli.
Del
supremo poter l’immagin viva
Nel
Pontefice mira, e i tristi, e i folli
Error
compiange di chi tenta in vano
Scemar
la fede al regnator romano.
Adempier
cale al buon Tedesco il voto
A di
cui fin peregrinar si canta:
Le
Sette Chiese visita divoto,
E sale
in ginocchion la Scala Santa;
Di San
Pietro e San Paolo al tempio noto
Piange
compunto, e sacre laudi canta;
Sen van
dei santi a visitar le tombe,
E dei
martiri eroi le catacombe.
Indi la
viva santitate aspira
Nell’almo
venerar Sagro Pastore;
Sale a
Monte Cavallo, e intorno gira
Fra la
brama confuso e fra il timore.
Vede la
Guardia, che dagli occhi spira
Il
nazionale elvetico furore;
In
Tedesco gli parla, e ciò non basta,
Ché lo
discaccia, e gli presenta un’asta.
Allora
il pover uom dal suo taschino
La
lettera trae fuori, e il buon soldato,
Alla
lettera fatto un bell’inchino,
Entrate,
disse, e il Pellegrino è entrato.
Veggendo
nel cortile un abbatino,
Del
cardinal patron gli ha domandato;
Non
rispondea, ma quando vide il foglio,
Venite,
ei disse, accompagnarvi io voglio.
In
fondo del cortil con lui guidollo
Dove
sta Sua Eminenza, ed al decano
Il
cortese abbatin raccomandollo,
Per la
lettera sol che aveva in mano.
Gli
levaro il bordone, ed ei lasciollo;
Le
camere passò di mano in mano,
E
finalmente all’ultima arrivato,
Fu dal
mastro di camera incontrato.
Non
aspettò che gli venisse chiesto
Cosa
volea; la lettera ha mostrata,
E tosto
il gentiluom cortese e presto
All’Eminenza
Sua fe’
l’ambasciata.
Subito
ritornò, subito e lesto
Aprì
ridente al Pellegrin l’entrata;
Ed ei
baciando e ribaciando il foglio,
Entra
senza timore, e senza orgoglio.
Lieto
l’accoglie il porporato umile:
Legge
la carta, e il Pellegrin consola,
Di sì
eccelso signor solito stile,
Che
dolcemente ogni timore invola;
Rispetta
il grande e non disprezza il vile.
Pietoso
a tutti, e niuno mai sconsola;
Onde
per le virtudi al mondo note
È di
Sua Santità degno nipote.
Che
vorreste, figliuolo? a prender dice;
A lui
risponde il Peregrin festante:
Eminenza,
vorrei, se ciò pur lice,
Solo,
al Papa baciar le sacre piante;
I
pellegrin, per quel che mi si dice,
Sen
vanno in truppa al santo Padre innante:
Solo
andare io vorrei; per grazia il chieggio,
Per
boria no, ma favellargli io deggio.
Ho
veduta, signor, la cara figlia
Del
conte Vidiman, vostro cognato,
Vaga
così che a un angelo somiglia,
E pare
proprio un angelo incarnato.
Alla
vergine pia, che ora s’appiglia
A viver
castamente in umil stato,
Del zio
vorrei portar con divozione
L’apostolica
sua benedizione.
Ben
volentieri, il cardinal risponde;
E
stabilisce la giornata e l’ora.
Contento
il Pellegrin va, e si confonde,
E non
vede la via per uscir fuora.
Trova
la porta che al cortil risponde,
E
riprende il cammin calcato ancora.
All’ospizio
giulivo ei fa ritorno,
E
aspetta poi di tanta grazia il giorno.
Sen va
scortato a visitare intanto
Dal
porporato i tre minor germani,
E
giubila in vedersi ad essi accanto,
E
grazie ottien dai cavalieri umani;
Specialmente
da lui che il nobil vanto
Ha dei
veneti fregi, e dei romani,
Prence,
procuratore e cavaliere,
Pieno
di cortesia, pien di sapere.
Dalla
Cancelleria, dov’essi stanno,
A
ritirarsi il buon Tedesco andava,
E per
la via, ’ve i pellegrin sen vanno,
Trova
un palafrenier che lo cercava.
Domandògli
s’er’ ei quell’Alemanno
Che i
santi piedi di baciar bramava.
Rispose:
Io sono. E quel: Doman mattina
L’udienza
il Santo Padre a voi destina.
Restan
gli astanti colla
bocca aperta,
E gli
fan di berretta e di cappello,
Ché non
avean la lettera scoperta,
Che
degli altri lo fa parer più bello.
Lo
staffiere papal l’ora concerta,
E gli
addita per segno un campanello.
Ma la
notte non dorme, e la mattina
S’alza
per tempo, e al Quirinal cammina.
Giunta
l’ora prefissa, ei vien chiamato;
Entra,
in terra si prostra, e bacia il piede;
E il
discorso che avea già preparato
Scorda
del tutto, e in confusion si vede.
Ma il
Pontefice pio, ch’era avvisato,
Sa quel
ch’ei brama e per timor non chiede,
E
rivolto col cuore a Dio sovrano,
Alza
per benedir la sacra mano.
Benedica,
dicendo, il pio Signore
La
saggia nostra pronipote eletta,
Benedica
di lei la mente e il cuore,
La
bell’anima sua sia benedetta.
Sia
benedetto il verginal candore,
Le
sacre spoglie e l’umile celletta;
Con
quella autorità che Dio ci diede,
Noi la
benediciam da questa Sede.
Sorgi,
poi dice al Pellegrin piangente,
E
questa mia benedizion papale
Reca
alla santa vergine prudente,
Che sa
quanto si apprezzi e quanto vale.
Benedico
te pur teneramente
Con
plenaria indulgenza universale;
Vattene,
o Pellegrin, vattene in pace.
Ei
s’alza, e piange, e si consola, e tace.
Ebrio
di gioia sul
momento ei parte
E alla
Porta del Popolo s’avvia,
E
risolve tornar per l’altra parte
Della
Toscana, ed abbreviar la via.
Vede
Firenze, di natura ed arte
Maraviglia,
e a Bologna indi s’invia:
Colà provista la sua mensa parca,
Col
corrier che non corre indi s’imbarca.
Torna
in Venezia, e vi perviene il giorno
In cui
la santa vergine si veste,
E vede
il tempio riccamente adorno,
E andar
le genti curïose e preste.
Lei
vede pur con ricche gioie intorno
Splender
pomposamente in aurea veste,
E fra
sé dice: Mi farò palese
Allur
quando vedrolla in altro arnese.
Sembrando
a lui che l’abito pomposo
Della
benedizion non fosse degno,
Fermossi
in chiesa, fra la turba ascoso,
Fino
che la funzion giungesse al segno.
Poi dal
manto coperta religioso,
Troncato
il crin, d’obbedïenza in segno,
Accostossi
alla grata il Pellegrino,
A lei
facendo un rispettoso inchino.
Brevemente
narrò per qual ragione
Era
tornato, e del sovran Pastore
Le recò
la papal benedizione,
Ricevuta
da lei con umil core.
Poi
ringraziolla di sua protezione
E della
lettra che recogli onore;
E de’
parenti suoi nuova le diede,
Gloria
e splendor della romana sede.
Indi
chiede in qual nome ha il suo cambiato.
Ella
dice: In Maria Luigia Eletta.
Esclama
il Pellegrino: Ha profetato
Del pio
Pastor la santità perfetta.
Allor
che la Nipote ha nominato,
Vi
aggiunse questo termine di Eletta;
Eletta
dal Signore, oh quanto, oh come
A voi
convien sì prezïoso nome!
Vi
benedica e vi consoli il Cielo,
E a me
dia grazia di vedervi un giorno
Sposa
del buon Gesù col santo velo,
Il che
spero veder nel mio ritorno.
Or
animato da divoto zelo
Ai
luoghi pii peregrinando io torno,
E se la
sorte è al desir mio propizia,
A San
Giacomo andar vuò di Gallizia.
Passerò
dell’Europa in più paesi
Per
mari, e monti, e per torrenti, e fiumi,
E al
mio ritorno farò a voi palesi
D’ogni
popolo gli usi ed i costumi.
Vi dirò
quel ch’io vidi e quel che intesi,
Né a
voi discari riusciran tai lumi,
Poiché
a vergine chiusa in umil tetto
Pascolo
non si nega all’intelletto.
E
dovunque mi guidi il mio destino,
Porterò
in segno la memoria impressa
Della
vostra virtù, di quel divino
Lume
che v’arde e agli angeli v’appressa.
Ricordatevi
voi del Pellegrino,
Ch’essere
un vostro servitor professa.
Siatemi
protettrice. Addio, signora:
Se Dio
vorrà, ci rivedremo ancora.
Torna
poscia veloce a San Canciano,
E si
consola colla genitrice,
Ed al
pio genitor bacia la mano,
E si
licenza rispettoso, e dice:
Giuro
da buon Tedesco e da cristiano
(Ché
altrimente giurare a noi non lice),
Parto
con allegria, parto contento,
Or che
vidi la figlia in quel convento.
Io
studiato non ho poco né molto,
Ma pur
m’intendo di fisionomia;
E
rimirando la damina in volto,
L’alma
conobbi in lei candida e pia.
Per
essa ogni piacer del mondo stolto
Stata
sarebbe una malinconia.
Ora non
cambierebbe il monistero
Con una
reggia o con un vasto impero.
Novamente
s’inchina, e si congeda;
L’invita
il cavalier seco a pranzare;
Ei lo
ringrazia, che non vuol si creda
Che
tornato là sia sol per mangiare.
Ordina
il pio Signor che si proveda
Di
quanto al pellegrin può abbisognare;
Lo
ringrazia, si parte, e va pian piano
Benedicendo
il nome Vidimano.
Pria
d’uscir di Venezia in cuor gli viene
Brama
di registrar quant’è seguito,
Fra sé
dicendo: Ritrovar conviene
Un che
lo sappia far presto e polito.
Veduto
a caso il Venezian dabbene
Ch’aveaio
un dì di compagnia servito,
Di
scrivere pregollo in italiano
Quel
ch’ei dettar volea di
mano in mano.
Il
galantuom, che in vita sua non disse
Di no a
nessuno, lo guidò al suo tetto;
Prese
in mano la penna, e tutto scrisse
Ciò che
dal Pellegrin gli venne detto.
Tante
le cose fur che a lui descrisse,
Tanti
fogli vergò, che fe’ un
libretto;
Ed io
l’ebbi alle mani, ed io conversi
La sua
pessima prosa in peggior versi.
Ecco,
signor, da qual ragion fui mosso
Con
diletto a vergar sì lunghe carte,
Bench’io
sapessi che far ben non posso
Poiché
mi manca la poetic’arte.
Avrei
giusta ragion di farmi rosso,
Miei
difetti scorgendo a parte a parte,
Ma
finalmente non ebb’io in pensiero
Che
un’istoria narrar che dice il vero.
So che
voi siete un cavalier cortese
Che
gradisce e perdona, e cento volte
Furo
da voi
benignamente intese
Le
scarse di pensier mie rime incolte
Il
povero mio stil, noto al
Paese,
Compatito
sarà da genti molte;
Altri
lo taccieran, ma non pavento,
Ché se
voi l’aggradite, io son contento.
Contento
i’ son se in questo dì felice,
In cui
la figlia si consacra a Dio,
Al
padre illustre e all’alma genitrice
Posso
un pegno offerir del dover mio:
Se al
mio talento immaginar non lice
Cosa
corrispondente al buon desio,
In
tributo, signore, a voi destino
L’opera
ed il pensier del Pellegrino.
Se
andrà in Gallizia, e tornerà st’altr’anno
La
vergin santa a riveder professa,
E se,
dove sarò, mi manderanno
Del
Pellegrin la relazion promessa,
Continuare
i miei carmi allor potranno
Un’altra
parte della storia stessa;
Dio ci
doni salute, e lunga vita:
La
centesima ottava ecco è finita.
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