DEL PELLEGRINO
PARTE
SECONDA
Sono
quattr’anni ornai che il Pellegrino
Al
santuario di Gallizia è andato.
Ritornare
promise, e il poverino
La
parola mantenne, ed è tornato.
Di
Francia con piacer prese il cammino;
Qui mi
venne a veder, qui mi ha parlato;
E
nutriva il desio, di lui ben degno,
D’ire a
Venezia a mantener l’impegno.
Quando
(oh colpo fatal!) lettera giunse,
Lettera
apportatrice di cordoglio,
Che con
aspra ferita il cor mi punse,
E il
Pellegrin d’ogni speranza ha spoglio.
Il suo
dolore al mio dolore aggiunse,
Di
lagrime bagnando ambi quel foglio :
Foglio
crudel che involaci il conforto!
Il Vidiman, il signor nostro, è morto.
Mutoli
lunga pezza, e senza moto,
Ci
guardiamo l’un l’altro, e coi sospiri
A
vicenda spieghiam nel cuor divoto
Qual
tenerezza il duro caso inspiri.
Dal
dolente letargo alfin mi scuoto,
Sfogo
la pena mia co’ miei deliri:
Santi
deliri, cui mi desta in petto
Gratitudine,
amor, stima e rispetto.
Oh
Patria (esclamo), o cittadin, dal cuore
Sciogliete,
per dolor, sciogliete il pianto,
Ché lo
merita ben quel pio signore
Che fu
vostra delizia e vostro vanto:
Tenero
sposo, amante genitore,
Buon
padron, buon amico, in cui cotanto
La
pietade prevalse e il zel cristiano,
Che
pover mai non l’ha pregato in vano.
Mente
aveva sublime e peregrina,
Talento,
erudizion, genio e coltura,
E pompa
non facea di sua dottrina,
Umile e
circospetto per natura.
Pieno
di santa religion divina,
Divoto
zelator senza impostura,
Che
dolcemente ad un girar di ciglia
Regolava
gli affari e la famiglia.
Nato
d’illustre sangue, e pieno il petto
Di
sentimenti nobili e sublimi,
Senza
orgoglio imponea stima e rispetto,
E solea rispettar gli ultimi e i
primi.
Ricca
mensa offeriva in ricco tetto,
Splendidi
arredi, di ricchezza opimi:
Non pel
vano piacer d’inutil some,
Ma per
render giustizia al grado e al nome.
Rendere
ai figli quell’onor dovea
Che
dagli avi in custodia a lui fu dato,
E
all’illustre consorte ei non potea
Rifiutar
ricca sede e ricco stato:
Ma la
man liberal ch’oro spargea
Per il
decoro nella Patria usato,
Parte,
segretamente, e con giustezza,
Ai
poveri facea di sua ricchezza.
Nella
splendida sua villeggiatura,
Di cui
più volte celebrati ho i vanti,
Divoto
cavalier prendeasi cura
Che la
pietà gisse al piacere innanti.
Quello
che al suo piacer porgea pastura,
Eran le
scene comiche festanti,
Giovando
al serio suo temperamento
L’innocente
giovial divertimento.
Oh con
qual zelo e qual bontà infinita
Furon
l’opere mie da lui protette!
Finché
la sorte mia mel tenne in vita,
Le ha
mai sempre vedute e sempre lette.
L’orgoglio
mio questo mio vanto addita
Contro
critiche acerbe e mal concette,
E il Caffè,
dedicato al mio signore,
Reca
agli scritti miei gloria ed onore.
Oh
quali grazie, oh quai dover rammento!
Oh qual
fu meco
il cavalier
cortese!
Questo
ad usi diversi util strumento562,
Sforzo
dell’arte e dell’ingegno inglese,
Quest’orivol,
questa catena, e cento
Doni,
con cui rimunerarmi intese,
Furo
del suo bel cor
pretesti usati,
Mai
pretesi da me, mai meritati.
Ma il
profitto maggior, ma il ben maggiore
Fu per
me la sua voce, e i suoi consigli:
Candidamente
io gli svelava il cuore,
Certo
ch’ei riparava i miei perigli.
Poco
parlar solea,
ma uscivan fuore
Da quel
labbro divin le perle e i gigli;
E
partiva il suo dir, chiaro e robusto,
Da una
vera amicizia e da un cuor giusto.
Oh s’io
tutto svelar potessi al mondo
Quel
ch’io seppi di lui, che a pochi è noto...
Ma lo
spirto, che in Ciel regna giocondo,
M’impon
ch’io taccia, e va il desire a vuoto.
O genti
afflitte da dolor profondo,
Quando
vi tolse inesorabil Cloto!
Quanto
perdeste, o miseri innocenti,
Vergini
esposte, vedove dolenti!
Nel bel
fior dell’età non lo rispetti,
Morte,
ed abbrevi al cavalier lo stame?
Mancan
del tuo furor più
degni oggetti,
Se
avida sei di sazïar tue brame?
Barbara,
il so, tu ciecamente affretti
Del
viver tuo le insidïose trame,
Perché
le sue virtù numeri, e vedi
Ch’egli
ha spirto senile, e vecchio il credi.
Abbia
pace e riposo in fra i beati
L’anima
giusta sull’eterea sede,
Vivano
i figli suoi, figli onorati,
E sia
ciascun di sue virtuti erede.
Quella
che al chiostro i giorni ha consacrati,
Quella
che al suo Signor giurò la fede...
Quivi
interrompe il Pellegrino il canto,
E
piange, e mesce alle parole il pianto.
Ohimè
(dicendo), i’ mi facea una festa
D’ire a
Vinegia a riveder la santa,
La
diletta a Gesù vergin modesta
Che
ripiena vid’io di gioia tanta.
Alla
nuova fatal della funesta
Morte,
da tanto e più da lei compianta,
Qual
sarà il suo dolore? Ah posso anch’io
Il suo
cordoglio misurar dal mio.
Può la
virtù di un’anima innocente
Consolarsi
con Dio, ma la natura,
Senza
offender la grazia, si risente
Del
proprio peso e della sua sciagura.
Dio
medesmo lo soffre e lo consente,
Acciò
veggiam quanto la vità è dura,
E con
più forza, e con più ardente zelo,
Si
sprezzi il mondo e si desiri il Cielo.
Quanto
(soggiunse) sospirato ho il giorno
Di
riveder la vergine festante
Col
santo velo monacale intorno,
Vittima
volontaria all’ara innante!
Sollecito
intrapresi il mio ritorno
A
Vinegia volgendo il cor, le piante;
E qui
passai, perché di vostra mano
Scriver
vi piaccia il mio vïaggio ispano.
Nel
staccarmi da loro, un tal diletto
Alla
figlia promisi e al genitore.
L’uno,
ahimè! non è più; l’altra a dispetto
Prenderà,
che si turbi il suo dolore.
Che far
dunque degg’io? Partir m’affretto,
Se fia
d’uopo partir: son uom d’onore.
Se
aspettare degg’io, restar non sdegno;
Dite, e
al vostro consiglio io mi rassegno.
Oh! me
stesso (rispondo) io non comprendo,
Né in
caso tale a consigliar mi appiglio.
Penso
brievi minuti, e poi riprendo:
Ecco,
per evitare ogni periglio;
Scrivo
a Venezia; la risposta attendo,
E la
risposta ci darà il consiglio.
Formo
il foglio dolente, e il foglio mio
A un
cavalier, a un protettore invio.
Priegol
le parti mie far colla dama,
Vedova
afflitta, e coll’eroica figlia,
E
coll’illustre, desolata e grama
Per
estremo dolor nobil famiglia.
Narro
del Pellegrin l’ardente brama,
Che lo
sprona al viaggio e lo consiglia;
E dirmi
il prego se nel dì fissato
Si farà
la funzione, o sia cangiato.
Si
sommette il Tedesco all’ardua legge,
La
risposta aspettando egro e scontento,
Ed a
Parigi trattenersi elegge,
Il
diario informe a regolare intento.
Visita
i fogli suoi, cambia e corregge
Quanto
comporta il suo discernimento;
Poscia
a me li consegna, e: Voi potrete
(Dicemi)
principiar quando il volete.
Veggo,
spoglio le carte, e in ordin metto
Quel
che vi ha di più scelto e interessante.
Ché le
inutili cose il poveretto
Meschiate
avea colle più serie e sante:
De’
viaggiatori solito difetto,
Ch’empiono
i fogli lor d’inezie tante.
Difetto
ch’io conosco, e non lo schivo,
E fo
peggio degli altri allor ch’io scrivo.
Per
esempio: che importa alla lettura
Del
viaggio di Gallizia il saper quanto
Il
Pellegrino per l’estiva arsura
Nell’ispano
terren sudore ha spanto?
E
sapere che, ingrata alla natura,
L’ispana
gente d’ozïosa ha il vanto,
E come
il contadino e il carrettiere
Colà il
titol si dan di cavaliere?
Inutile
è il saper che una giornata
Viaggiasi,
e non si vede un sol ostello;
E alfin
la sera l’osteria trovata,
Avvi in
terra disteso un letticello,
Senza
pan, senza vin, senza derrata
Per la
fame saziar d’un poverello,
E vi
vuol, per unir piccola mensa,
Tempo,
danaro e una fatica immensa.
E
portar seco per il giorno appresso
Il
bisogno convien per reficiarsi,
E far
legna nel bosco, e da se stesso
Far
bollire la pentola, ed aitarsi.
E se tu
cadi, e il tuo cavallo anch’esso,
Non
trovi un can che voglia incomodarsi,
E puoi
gridare: Cavaliere, aiuto,
Che il
cavaliere se ne sta seduto.
Fra le
povere inezie, e senza sale,
Descrive
il Pellegrin degli Spagnuoli
L’Oglia
putrida, polta universale
Che de’
piccioli e grandi empie gli orciuoli.
Bue,
montone, vitel, pollo, maiale,
Rape,
cavoli, ceci, erbe, e fagiuoli
Serve
in un piatto sol, tutto meschiato
Di
minestra, d’alesso e di stuffato.
Cento
cose cassai di tal natura,
Degne
di un più ridicolo argomento,
Poiché
per nostra, e per comun sventura,
Di
ridere non è questo il momento.
Giunto
il Tedesco alle divote mura
Di
Compostella, a scior il voto intento,
Di san
Jacopo giunto al sacro altare,
Quello
è il momento che si dee cantare.
E là mi
estesi ad ispogliar gli scritti,
E
formar di notizie un zibaldone.
Que’
santi luoghi ritrovai descritti
Con
qualche studio e qualche erudizione.
E lessi
come i peregrin contritti
Han di
colpa e di pena assoluzione,
E colà
le indulgenze vaglion tanto,
Quanto
quelle di Roma L’Anno Santo.
Giunti
all’alma città di Compostella,
Ch’ora
della Gallizia è capitale,
Mostrano
i pellegrin la lor cartella,
Fede o
sia passaporto episcopale.
Poi
offerta lor vien povera cella
Per
alloggiar nel pubblico spedale,
Dove
(per digressione) i poveretti
Trovano
scarso cibo e tristi letti.
Ma
notato trovai che un gran convento
Evvi di
Religion Benedettina
Nella
stessa città, dove alimento
Trovan
migliore e una
miglior cantina.
Dopo
lunga fatica e lungo stento,
Il buon
vino di Spagna è medicina,
E alla
lor divozion non isconviene
Viver
di carità, ma viver bene.
Tutto
ciò, a dir il ver, potea cassarsi
Come
inutile e basso, e l’ho lasciato
Perché
l’autor non abbia a lamentarsi
Ch’abbia
troppo il suo diario mutilato.
Quel
che dai pellegrin colà dee farsi
Per la
santa funzione ho registrato,
Cioè la
Confession, la Comunione,
La
visita, l’offerta e l’orazione.
E
cercando nell’ampio scartafaccio
Cose
degne di canto e di memoria,
Di san
Jacopo trarre io mi compiaccio
Quel
che trovo marcato a di lui gloria;
Sufficiente
materia io mi procaccio
Per
impinguar la meditata istoria;
D’Asia
l’apostolato, e quai sudori
In
Ispagna versò scacciando i Mori.
E come,
in Asia vincitor tornando,
Seguì
con zelo a predicar la fede,
E qual
del santo corpo venerando
Fu Compostella
fortunata erede,
Sotto
l’altar maggior colà serbando
Questo
dono del Ciel ch’occhio non vede:
Narra
la tradizion che un uom ardito
Gli
occhi, entrando, perdé, da Dio punito.
Seguitando
lo spoglio, e in ordin posto
Quel
ch’io scriver doveva, il Pellegrino
Viene a
veder se ha il cavalier risposto,
Per
saper una volta il suo destino.
Guardo
il lunario alla muraglia accosto,
Vedo
che è giovedì, chiamo Cecchino,
E
dicogli: Alla posta ite, e vedete
Se
lettere vi son. Presto, correte.
Vola il
mio servitore, a cui natura
Diè
pesante cervello e gamba lesta.
E
intanto il Pellegrin veder procura
S’io
avea la cosa in ordine contesta;
Ma
veggendo più d’una cassatura,
Mirol
sott’occhio torcere la testa,
Morder
le labbra ed increspare il naso,
Degli
scrupoli miei mal persuaso.
Perché
(mesto mi dice e a mezzo fiato,
Ché
lagnarsi volea,
non disgustarmi),
Perché
levar la serva del curato
Che ad
onta del padron venne a scacciarmi?
Il buon
servo di Dio mi aveva dato
Pane,
vino e quartier per reficiarmi,
E la
serva mel toglie, e non poss’io
Dir,
per modo d’esempio, il caso mio?
Caro
amico, rispondo, ogni argomento
Suscettibil
non è di tai novelle;
E
mentre parlo, il Pellegrino attento
Scorre
coll’occhio in queste carte, e in quelle.
Indi
esclama: Mio Dio, morir mi sento,
Mi
sento proprio intirizzir la pelle:
Perché
il gallo cassare e la gallina?
Il mio
povero diario ito è in rovina.
Infatti
ritrovai questi animali
Registrati
nei fogli, ma non vi era
Buona
ragion perché di cose tali
Ornar
dovessi la mia cantafera.
Io la
credei di quelle madornali
Fiabe
della befana e la versiera.
L’interrogai
che mi dicesse il vero;
Ecco
come a svelar prese il mistero.
Di
Castiglia la vecchia in un’altura
Evvi
una chiesa, detta San Domingo
De
la Calzada,
dove su le
mura
Del
sagro tempio (non invento o fingo)
Un
gallo e una gallina avvi in natura
Bianchi
come nel diario io li dipingo,
Chiusi
in gabbia e nutriti, e morti quelli,
Ne
rimettono due freschi e novelli.
E i
pellegrini allungano il bordone
E lor
danno a mangiar, sia per diletto,
Sia per
curiositade o divozione,
E
portan tutti agli
animai rispetto;
Poiché
per un’antica tradizione
Un
miracolo diede a ciò il soggetto.
E
volgendosi a me: Del vostro ingegno
(Disse)
un prodigio tal non parmi indegno.
Sì, un
prodigio sì bel narrar conviene
(Dicogli),
ed ei principia gravemente:
Era
una volta... (Cominciamo bene.
Mi
pareva sentir precisamente
Quell’uom
che in piazza il popolo trattiene,
E di
piacer fa strabiliar la gente:
Quell’uom
grasso, vecchietto, gran ciarliero,
Vestito
male e per lo più di nero).
Era
una volta un buono Pellegrino
Con
buona moglie, e con un buon figliuolo.
Portavano
il bordone nel cammino,
E di
tela incerata il ferraiuolo.
A
San Domingo arrivano un mattino
E
alloggiano da un oste marïuolo;
E la
sua serva, ch’era una sfacciata,
Del
giovinetto si era innamorata.
Come
che questo non vuol aderire,
Passa
tutta la notte in orazione,
E la
serva si sente inviperire,
E il
Demonio le fa la tentazione.
Vien
la mattina, tempo é di partire:
Si
licenziano queste tre persone,
E la
serva, per far le sue vendette,
Una
posata in saccoccia gli mette.
L’oste
fa la rivista, e mancar vede
Una
posata fra le sue posate.
E la
brutta servaccia, per mercede,
Dice
che i pellegrin le avran rubate.
L’oste,
senza dimora, se lo crede,
E le
persone tosto son pigliate.
Presto
presto, il processo fu spicciato,
E il
povero figliuolo fu impiccato.
Padre
e madre piangevan per dolore:
Povero
figlio, non ti vedrò più.
Povero
figlio mio, mi crepa il cuore,
Morir
con innocenza e gioventù,
E di
più ancora perduto l’onore:
Cagion
del mio rossore sarai tu.
Destinano
d’accordo d’andar via,
Dov’era
il figlio prendono la via.
Eran
tre giorni che fu al laccio appeso,
E
nel vederlo si rattristan molto.
Un
pianto in quella via la moglie ha inteso;
Dice
al marito: Ohimè, che cosa ascolto?
Il
padre si avvicina, ed è sorpreso
Vedendo
vivo del figliuolo il volto.
Dal
laccio lo voleano distaccare,
Ma
non l’han fatto (e lo potevan fare).
Con
che sono tornati alla città,
E al
giudice la cosa han raccontata.
E il
giudice che avea gran quantità
Di
gente ad un banchetto convitata,
Credere
non volea
la verità,
Dicendo
che la favola è inventata..
E i
pellegrini di concordamento
Lo
voglion confermar col giuramento.
Il
giudice ridendo, e tutti quanti,
Un
gallo e una gallina aveva in piatto;
E
dice ai pellegrini là tremanti:
Tanto
possibil è lo vostro fatto,
Quanto
che questi polli qui davanti
Tornino
crudi, e volino ad un tratto.
Ecco
in quel punto, Vergine Maria!
Il
gallo e la gallina volan via.
Miracolo,
miracolo, gridaro.
E il
giovine ancor vivo fu trovato.
Con
suoni e canti a casa lo mandaro,
E fu
con gran larghezza regalato.
E la
serva fu presa, ed ebbe al paro
Egual
sentenza, come ha meritato.
E
per memoria in chiesa si destina
Un
gallo mantenere, e una gallina.
Così
l’istoria ha il Pellegrin finita.
Non è
di fé, ma è tradizione antica;
E vuol
di Dio la potestà infinita
Che in
più modi si esalti, e benedica.
Consolo
il Pellegrin, lo torno in vita,
Caso
facendo della sua fatica,
Dicendo:
Io stenderolla in altro stile;
Ma il
mio stile del suo quasi è simile.
In
questo mentre il servitor ritorna;
Mi dà
la lettra ch’ei trovò alla posta.
L’arme
conosco che il sigillo adorna.
Questa,
dico al Tedesco, è la risposta.
Aprola,
e leggo, ed il cuor mio si torna
A
conturbar, veggendola composta
D’immagini
funeste dolorose,
Che ha
il cuor dettate e che la mano espose.
Né mai
mi scorderò del dolce stile
Onde
dal cavalier vergato è il foglio.
Sempre
uguale con me, sempre gentile,
Diede
merito e lode al mio cordoglio.
Dissemi
poi, che pel vicino aprile
Era tal
morte alla funzion lo scoglio,
E che i
voti comuni avean fissato
Lasciar
l’anno passar del lutto usato.
E
soggiunse cortese: Il Pellegrino
Sarà,
quando qui giunga, il benvenuto,
E avrà
tempo per trar dal taccuino,
E in
ordine dispor quel che ha veduto:
Sperando
che il secondo libriccino,
Come fu
del primier, sia anch’ei goduto;
E la
lettera chiude il pio signore
Con
chiari segni di verace amore.
Contento
il Pellegrin dice: Aspettiamo;
Verrà
il giorno per noi più fortunato.
L’opera
intanto terminar possiamo:
Eccovi
il diario; ma... signor garbato,
(Seguita
a dirmi) non lo sfiguriamo;
E poi
mel lascia, e prendesi commiato.
Torna
dopo sei mesi, e non mi trova,
E cosa
intende inaspettata e nuova.
A
Versailles (gli dicono) è passato;
Ma si
aspetta domani. Ei pontualmente
L’indomani
mattina è ritornato,
Di
sentir, di saper, curioso, ardente.
Con
sincera amicizia io l’ho informato
Di un
felice per me nuovo accidente,
Che mi
obbligava di lasciar le porte
Del bel
Parigi, ed abitare in Corte.
Più
volte in confidenza aveagli detto
Ch’era
annoiato di comporre in Franza
Commedie
mozze, commedie a soggetto,
Io che
in Italia ne abolii l’usanza;
E veder
non poteva a mio dispetto
I
diavoli volare e far la danza.
E qui,
dove teatro è d’onor degno,
Essere
l’Italian de’ scherni il segno.
Domandato
(soggiunsi) ho il mio congedo;
Spero
d’averlo, ma non l’ebbi ancora...
M’interrompe
il Tedesco, e dice: Il vedo,
Voi
tornate in Venezia a far dimora.
Non lo
so, gli rispondo, anzi nol credo.
Ella è
mia Patria, ed il mio cor l’adora.
Ma se
l’adoro e la sospiro invano,
Viverò,
morirò da lei lontano.
Seguitiam
dunque. La real Delfina
Di sua
clemente protezion mi onora,
E
fissare il mio stato ora destina
Ed in
Corte fissar la mia dimora.
Ella
che ai studi e alle bell’arti inclina,
E le
lingue possede ed assapora,
Destò
in due principesse il buon desio
D’un
maestro italiano, e quel son io.
Me ne
consolo, dice il Pellegrino
A mezza
bocca fra contento e afflitto,
Ch’egli
mi volea
ben, ma il
taccuino
Gli
stava in core e nel cervel confitto.
Guardami,
e dir si prova il poverino:
Avete
almeno qualche cosa scritto?
Quel
parlar, quel dolersi, e quelle occhiate
Furo
al cuor mio
fierissime stoccate.
Ahimè,
risposi, ahimè, nulla ho ancor fatto,
E la
pena mi cruccia e mi divora.
Sciolto
non sono da Parigi affatto,
A
Versailles non ho l’albergo ancora.
Vado e
ritorno qui di tratto in tratto,
Non ho
di pace e di quïete un’ora:
Ma vi è
tempo, vi è tempo. Ite, e vedrete
Che
scontento di me voi non sarete.
Guardami,
mentr’io parlo, e colla mano
Vede
che gli occhi ritoccar non cesso,
Ed in
tuon lamentevole ed umano
Chiede
s’io son da qualche male oppresso.
Ah, pur
troppo (rispondo), un caso strano
Nell’andare
a Versailles mi è successo.
Correa
la posta, e il leggere correndo
Cagionommi
alla vista un mal tremendo.
Non
vedea sul cavallo il postiglione,
Né gli
alberi d’intorno, né la via;
Cieco
già mi credeva, e l’orazione
Dissi
alla santa
martire Lucia;
Alla
più salutar rassegnazione
Mi fu
scorta fedel Filosofia;
E (per
tutto narrar candidamente)
Il
Cieco d’Adria mi è venuto in mente.
Giunto
al Palazzo, il postiglion s’arresta,
Porgemi
il braccio, e scendere mi provo.
Qualche
raggio di vista ancor mi resta,
E la
scala segreta al fin ritrovo.
Voglio
entrare nel quarto, e do la testa
Nella
porta socchiusa, e poiché nuovo
Il
cammino non m’era, andar mi metto
Dell’augusta
scolara al gabinetto.
Sentomi
salutar da più persone:
Non le
distinguo ben, ma francamente
Le
risaluto, come un mio padrone
A
Venezia suol far continuamente.
Trovo
le damigelle e le matrone,
Le
conosco alla voce esattamente;
Pregole
d’annunziarmi: detto fatto,
La
padrona vi aspetta, entro ad un tratto.
Come
dal sole era difeso il loco,
Né aria
entrar si sentia da verun lato,
L’occhio
fortificossi a poco a poco,
Cosicché
al mio dover non ho mancato.
Se
n’accorse però madama un poco;
Le ho
la mia colpa ed il mio mal svelato.
Ella
un’acqua mi diè si salutare,
Che già
sono guarito, o almen mi pare.
Ringraziato
il Signore, il Pellegrino
Dice:
Scrivete, poiché il tempo vola.
Scriverò,
scriverò. Di buon mattino
Domani
incominciar vi do parola.
Rilegge
quel di che parlar destino,
Si
contenta, mi abbraccia, e si consola;
Poi si
licenzia, e dicemi: Fra poco
Ci
rivedrem; datemi il tempo e il loco.
Deggio
(rispondo) al fin di questo mese
Trasportar
a Versailles la famiglia.
Là
potete venir, ché il bel paese
Non è
lungi di qui che dieci miglia.
Allor
dolente il Pellegrin riprese:
Questa
cosa m’affanna e mi scompiglia.
La
vista, gl’imbarazzi, il nuovo impegno...
Non
giungerete di quest’opra al segno.
Profetizzava
il galantuom da bene,
Ma
l’ardente desio ch’i’ aveva in petto
M’empie
di bell’ardir, di bella spene,
E mari
e monti al Pellegrin prometto.
Parte;
mi lascia; il nuovo dì sen viene;
M’alzo
per tempo, e a lavorar mi metto.
L’estro
e la man scorrea come un ruscello,
Ma la
vista mi manca in sul più bello.
Prendo
breve riposo, e poi ritorno
All’amico
lavoro; ahimè, la vista
Inferma
è sì, che
quel ch’io veggio
intorno
Per
metà il veggio, e nuove forme acquista.
Uso
l’utile occhial, sino a quel giorno
Sconosciuto
da me; l’occhial mi attrista;
E
affaticato dal novello impaccio,
Mancami
l’estro, e in van faccio e rifaccio.
Provomi
il giorno dopo, e son lo stesso.
Al
terzo, al quarto, non mi cambio ancora.
Misero
me! Son dal dolore oppresso,
M’ange
disperazione, e mi divora.
Coi
cavalli del re giunge il calesso,
Di
andar a Corte si avvicina l’ora;
Vado a
adempire il mio dover con stento,
E
assegnato mi vien l’appartamento.
L’alloggio
in Corte mi consola alquanto,
Ché il
comodo e l’onor givano insieme;
Con più
ragion, con più calor pertanto
La
vista mia ricuperar mi preme.
I
medici consulto, e faccio tanto,
Che
risponde al desio più certa speme;
E
ricupero alfin l’occhio diritto,
Ma il
sinistro non già, che ancora è afflitto.
Ma il
tempo passa, e va la cura in lungo,
E il
Pellegrin viene a trovarmi in Corte,
E d’un
dardo fatale il cuor gli pungo,
Lui
dipingendo la mia triste sorte.
— Ahi che a tempo, mi dice, io più non giungo
Al
sagrifizio della vergin forte.
Manco
all’oggetto mio, manco all’impegno. —
Ei piange,
io piango, e il dolor passa il segno.
Io
scusarmi volea,
ma tondo e
schietto
Dissemi
in faccia il buon Tedesco allora:
— Voi avete, lo so, questo difetto
Di
ridurvi mai sempre all’ultim’ora. —
— E ver, risposi, è ver, tale è il concetto;
Ma in
casi tai non ho mancato ancora.
Serviva
il tempo, e avrei il dover compito,
Ma
l’occhio è infermo, e mi ha il destin tradito. —
Povero
Pellegrin! mesto e dolente
Scusa
mi chiede se mi avesse offeso.
Io
l’abbraccio di cuor teneramente,
Ché
onesto criticar non mi ha mai leso;
E
avezzo sono a satira pungente,
E più
di un labbro mal onesto ho inteso
Contro
dell’onor mio scagliarsi irato,
E ho
compianto il costume, e ho perdonato.
Certo
son io che all’occasion presente
Noi
otterrem dai Vidiman perdono,
Ma vi
sarà dell’indiscreta gente,
Che di
titoli rei ci farà dono.
Dirà
taluno che il poeta mente,
Che un
infingardo e mancatore io sono,
E che
la cecità, che indarno affetto,
Non è
degli occhi, ma dell’intelletto.
Siami
Dio testimonio... — Ah no, cessate,
(Ripiglia
il Pellegrin) di rattristarvi;
I cuor
sinceri, le anime onorate
Fede,
se han fede in cor, non pon negarvi.
Piuttosto
a quel Signor ch’ora invocate,
Che può
salute e pazïenza darvi,
Porgiam
d’accordo supplici e devoti
Per la
donzella Vidimana i voti. —
Ed alza
gli occhi ad una immagin pia
Del
Salvator dei miseri mortali,
Fra
certi arazzi della stanza mia,
Mobili
antichi, mobili reali.
Inginocchiasi
a terra; in compagnia
Seco
m’invita, e parla in sensi tali:
— Se al
dover nostro in questi dì manchiamo,
Per la
vergine santa almen preghiamo. —
Mettomi
a lui dappresso in ginocchioni,
Ogni
umano pensier dal cuor disvelto;
E fra
le varie proposte orazioni,
Dei
tre fanciulli il cantico fu scelto;
Mandando
al pio Signor benedizioni,
Che sì
bel fior da questo mondo ha svelto
Per
piantarlo lassù nel suo divino,
Sempiterno,
soavissimo giardino,
Opere
del Signor, lodate Iddio;
Angeli
e Cieli, il nome suo esaltate.
Acque
in mar chiuse, in lago, in fonte, in rio,
E
voi, sante Virtuti, Iddio lodate.
Sol,
luna, e stelle, e quanto in Ciel s’unio,
Benedizioni
al Creator mandate.
E
voi pioggie, e rugiade, ai venti unite,
Il
Signore esaltate, e benedite.
Fuochi
cocenti di stagione estiva,
Benedite
la man di Dio superno.
Benedite
il poter che vi ravviva,
Crudi
rigori del gelato inverno.
Nebbie,
pioggie, pruine, onde deriva
L’util
dell’aria movimento alterno,
Condensati
vapor, brine gelate,
Il
Signor benedite, ed esaltate.
Benedicanlo
sempre e ghiacci, e nevi,
Le
notti, i dì, le tenebre e la luce.
Terra
feconda, benedir tu devi
Eternamente
il tuo Sovrano e duce.
E
voi colline, e voi montagne grevi,
E
voi erbe, e voi piante, in cui traluce
L’alto
saper del Creator possente,
Benedite
il Signor perpetuamente.
Benedite,
fontane, il sommo bene;
Benedicanlo
i fumi, e il vasto mare.
Beneditelo
voi, mostri e balene,
E
voi pesci dell’acque o dolci o amare.
Benedirlo
e lodarlo a voi conviene,
Pennuti
augelli; benedir, laudare
Voi
lo dovete, numerosi armenti,
Bestie
feroci, pecore innocenti.
Voi,
figliuoli dell’uom, Dio benedite.
Benedica
Israelle il suo Sovrano.
Voi,
sacerdoti, e voi, che a Dio servite,
Di
benedirlo non cessate in vano.
Benedite
il Signore, alme contrite,
E
voi spiriti giusti in corpo umano.
Lo
benedica il tenero Anania,
Misael
lo benedica, ed Azaria.
Il
Padre ed il Figliuol benediciamo,
E lo
Spirito Santo; e laude eterna
Alla
divina Trinità mandiamo,
Solo
Dio che ci regge e ci governa.
Benedetto
il Signore in ciel sappiamo,
Tal
si senta da noi con voce alterna:
Benedetto
mai sempre e in ogni lato
Nei
secoli dei secoli esaltato.
Il
cantico finito, ambi di cuore
L’offriamo
a Dio per quella vergin pura
Che,
penetrata dal divino amore,
Vuol
finir i suoi dì fra sacre mura.
Vidimana delle donne il fiore,
Di tua
felicità lieta e sicura,
Vattene
al sacro altar, pura angioletta,
A Dio
ti dona, il nostro zelo accetta.
Priegami
il Pellegrin che voglia almeno
Far le
scuse comuni a chi s’aspetta.
Rispondo:
Lo farò. Mi stringe al seno
Dicendo:
Addio, la mia famiglia aspetta.
Non dell’Italia,
ma la via del Reno
Prender
destina, e di partir s’affretta.
Trattengo
i fogli suoi per farne altr’uso:
Scrivo
intanto a Venezia, e il fallo io scuso.
Ed allo
stesso cavaliere io scrivo,
E il
doloroso mio malor gli espongo.
Ma di
grata risposta io resto privo,
Segno
ch’ei non mi crede, e al ver m’appongo.
Pazienza,
dico. Ma chi sa? Se vivo,
Qualche
cosa di fare un dì propongo
Che
vagliami a provar che, se ho mancato,
Fu mia
sventura, e ch’io non sono ingrato.
Un anno
dopo (oh mio contento estremo!)
Giungemi
da Venezia la novella
Che
nozze in Casa Vidimana avremo,
Che si
marita la minor sorella.
Giubilo,
e fra me dico: Ora vedremo
Se son
quel desso che talun mi appella:
Ecco
l’occasion pronta e felice
Per far
quello ch’io devo, e quel che lice.
E un
pensiero mi prende, e mi diletta:
Il mio Esopo
alla grata ha detto il vero,
Quando
cantò che la contessa Annetta
Destinata
non era al monistero.
Colma è
ancor essa di virtù perfetta,
D’animo
religioso e cor sincero.
Ma per
rendere altrui lieto e giocondo
La
Provvidenza la destina al mondo.
O
felice Michele, o degno erede
E
imitator dei Mauroceni eroi,
A cui
tanta fortuna il Ciel concede,
Sì gran
sposa accordando ai voti tuoi:
Cotanto
in merto l’altre donne eccede
Questa
cui trasse Amor fra’ lacci suoi,
Quanto
l’altra germana in sagro chiostro
Esempio
di pietade è al secol nostro.
Ecco
(fra me diceva) il campo aperto
Alla
Musa divota, ecco il momento
Di far
altrui del zelo mio più certo
E di
chiuder la bocca a cento e cento.
Scrivo
a Venezia per saper di certo
Il
tempo delle nozze; l’argomento
Termino
intanto, ed opportuna all’uopo
Viemmi
l’idea: La profezia d’Esopo.
Scrivere
non ardisco al cavaliere,
Per un
consiglio rispettoso e sano.
Scrivo
a persona che doveal sapere
(Non
dico a chi, per un rispetto umano).
Tarda
d’Italia il solito corriere,
E
giunge alfine, e non aspetto invano.
Ho la
risposta, e leggo in chiaro stile:
Si fan
le nozze nel venturo aprile.
Sopra
notizia tal riposo in pace,
E
medito, e dispongo il mio disegno.
Qui
dico, pingerò d’Amor la face,
Qui
d’Imeneo fecondator l’impegno.
A
questo passo la mia Musa audace
Tutta
l’arte userà, tutto l’ingegno,
Della
sposa a formar l’almo ritratto,
Beltà,
grazia e virtude unendo a un tratto.
M’aprirò
il campo per cantar di nuovo
Della
famiglia Vidiman le glorie,
Ché,
per quanto ne dica, ognor ritrovo
Nuovi
argomenti di novelle istorie.
Dell’estinto
signore (ah il duol rinnovo!)
Canterò
le sublimi alte memorie;
E della
saggia vedova dolente
Canterò
le virtudi il cuor, la mente:
Donna Quintilia, del Pastor regnante
Degna
nipote, provvida tutrice
Dell’illustre
famiglia, e madre amante,
Che
l’eccelsa magion può far felice:
Quella
che mi colmò di grazie tante,
Generosa
padrona e protettrice,
Quella
che di lontan venero e inchino,
Quella
nei versi miei cantar destino.
Reso il
disegno, qual potei, migliore,
Vado un
giorno a Parigi, ed alloggiato
Da Sua
Eccellenza, nostro ambasciatore,
Il
dispaccio in quel punto era arrivato.
Chiedo
le novità: mi fa l’onore
Di
darmi il foglio di notizie usato.
E leggo
(ohimè!): Si son nei dì passati
La Vidimana e il Morosin
sposati.
Balzo
in piedi furente, e cambio loco.
Domanda
il cavalier: Che vi è arrivato?
Nulla,
nulla, Eccellenza, e getto al foco
Le
carte che con meco avea
portato.
Poscia,
come potei, dolente e fioco
La mia
sventura ho al cavalier narrato.
Ah, se
quel che mi ha scritto i’ avea alle mani,
Foss’anche
un mio fratel, facealo in brani.
Eccomi
un’altra volta al caso istesso;
Cerco
il rimedio, ed il mio mal peggiora.
Son da
fortuna svergognato, oppresso,
E la
rabbia mi cruccia e mi divora.
Giovani,
vecchi, genti d’ogni sesso,
Che
sparlate di me, fatelo ancora.
Son, lo
giuro al Signor, sono innocente,
Ma il
pretesto ai maligni è sufficiente.
Che
farò, dissi fra di me, meschino?
La
Profezia d’Esopo è incenerita.
Per i
fogli produr del Pellegrino
La
seconda occasione andò fallita.
Ma se
non svelo il mio crudel destino,
Non
avrò pace finché duro in vita.
Si
scateni, m’insulti il mondo intero,
I’ vuò
sfogarmi, e far palese il vero.
Coll’occasion
che le mie fanfaluche
Deonsi
stampare, e pubblicar fra poco
(Per
far cartacce, involgere le acciuche).
Scelto
ho di farlo l’occasione e il loco.
Quei
che cercan
nel grano le
festuche,
A spese
mie divertiransi un poco.
Il
resto affin del Pellegrino ho inviato.
Il
soccorso di Pisa ecco arrivato.
|