PER
LA PROFESSIONE DELL’ILLUSTRISSIMA N. GAUDIO
AL SIGNOR MARCO
ASTORI
CAPITOLO
Astori,
io sono ognor mortificato,
Quando
in mente mi vien che l’anno scorso
Vi ho
promesso de’ versi, e vi ho mancato.
Senz’altre
scuse, senz’altro discorso,
So che
ho fallito, e in simile difetto
So che
parecchie volte sono incorso.
Facile
a dir di sì (sia per rispetto,
O sia
per amicizia, o per natura),
Di
buona voglia e di buon cor prometto;
E
questo buon voler persiste e dura
Costantemente,
finché dell’impegno
E del
bisogno il termine matura.
Allor
contro di me m’accendo e sdegno,
Allor
m’accorgo che pesi m’addosso,
Molto
più che non ho tempo ed ingegno.
I dover
primi trascurar non posso,
Quelli
cioè dell’odierno incarco,
Che non
è lieve pel mio debol dosso.
E
quando teso lungamente è l’arco,
Scoppia
la corda, se non si rallenta,
E
facilmente non ritorna carco.
Poi si
parla, si strilla, e si argomenta
Ch’io manco
di dovere e di rispetto,
E la
mia Patria è di me malcontenta.
Per
correggere adunque il mio difetto,
Per non
promettere, e mancar di nuovo,
Nulla
per l’avvenir, nulla prometto.
E se
disposto a lavorar mi trovo
Per
qualche impegno, o per compiacimento.
Verran
le cose mie dal Mondo Nuovo.
Ma che
serve cotal cicalamento?
Ecco
l’altro difetto mio ordinario:
Dir
cento cose fuor dell’argomento.
Or
celebrar degg’io l’anniversario,
Cioè la
Profession d’una donzella
Ch’è
fatta gemma del divino erario.
Di casa
Gaudio, mi ricordo, è quella
Per cui
l’onore mi faceste un giorno
Di
domandarmi qualche coserella.
Perdono,
amico, a domandarvi io torno
Se non
l’ho fatto per la vestizione,
Ma
questo peso or mi vuò trar d’intorno.
E parmi
or d’aver maggior ragione
Di
lodar la fanciulla, or che ha formati
Gli
eterni voti della Professione.
Potea
coi versi miei, ne’ dì passati,
Confortarla
a durar nel buon volere,
E i tre
nemici non temer sdegnati.
Poteva
argomentar, farle vedere
Che la
pace è il maggior d’ogni altro bene
Che si
possa da noi quaggiù godere.
Disvelarle
potea con quai catene
Allaccia
il mando, e qual difficil cosa
Sia lo
sottrarsi da chi il piè vi tiene.
Ma alla
donzella, che nel sen riposa
Della
virtude e del divin consiglio,
Non era
alcuna veritade ascosa.
Meglio
ora posso con allegro ciglio
Consolarmi
con lei, che ha superato
Ogni
scoglio, ogni brama, ogni periglio.
Rallegrarmi
poss’io che a quello stato
L’ha
condotta l’Amor sacro e divino,
Che in
Cielo e in terra all’alme pure è dato.
Quindi
aprirmi potrei l’ampio cammino
A
tesser inni a sua virtù sublime,
Al suo
merito sommo e peregrino.
Potrei
cantar quanto di lei si stime
L’innocenza
assai più della bellezza,
Onde il
mondo l’esalta in fra le prime;
E come
ella pospone ogni ricchezza
Alla
felice povertà del chiostro,
Trovando
fra gli stenti ogni dolcezza.
Donna
la potrei dir del secol nostro
Ornamento,
modello e maraviglia,
Scorno
del vizio e dell’infernal mostro.
All’ingegno
disciolta avrei la briglia
In
altri tempi, e con sì nobil sprone
Avrei
corso cantando mille miglia.
Ma
questa, in cui vivo, ampia nazione,
Perder
l’uso mi ha fatto d’ogni lode
E
d’ogni metro, in simile occasione.
Qui dai
poeti accompagnar non s’ode
La
verginella che si dona al chiostro
Colla
canzona, col sonetto o l’ode,
Anzi si
beffan del costume nostro;
Dicono
che per tali sagrifizi
Inutilmente
spargesi l’inchiostro;
Che
s’ella è mossa dai celesti auspizi,
D’uopo
non ha di suoni né di canti,
Ma
d’orazioni e di divini uffizi.
Detestano,
condannano quei pianti
Che
fingono i poeti delle madri,
Dei
padri, dei parenti e degli amanti;
Condannano,
detestano quei quadri
Che si
fanno del mondo all’innocente
Con
colori sì vivi e sì leggiadri;
Onde la
vergin che non sa niente,
Sente
quel che ha perduto e che ha lasciato,
E
qualche volta di lasciar si pente.
Io non
mi sento ancor determinato
A dar
torto o ragione a questi o a quelli,
E
lascio il mondo come l’ho trovato.
Il
capitolo ho letto ai miei fratelli;
L’hanno
ascoltato digrignando i denti,
Li ho
tormentati a colpi di martelli.
Non
parver dei miei versi malcontenti,
Ma
tutti mormorar contro l’abuso
Ch’Italia
fa di simili argomenti.
E detto
m’han che dal consorzio escluso
Stato
sarei, se avessi mai pensato
D’introdurre
a Parigi un simil uso.
E parmi
già di vedervi invogliato
Di
saper quai fratelli in Francia io vanto,
Dove il
mio genitor non è mai stato.
Ma voi
sapete che amicizia tanto
Puote,
quanto natura, e ch’è più forte
Della
vera amicizia il nodo santo.
Noi
siamo nove; a ognun di noi le porte
Sono
schiuse dell’altro, e i beni e i mali
Facciam
comuni della nostra sorte.
Di
radunarci i giorni principali
Le
domeniche sono, e abbiam per questo
Il nome
assunto di Domenicali.
Ciascun
dona ai fratelli un pranzo onesto
Nella
sua casa, il giorno che gli tocca,
Escluso
ogni altro per comune arresto.
Brilla
ne’ pranzi l’allegria non sciocca,
La
critica discreta e salutare,
Schiettezza
in core, e veritade in bocca.
Io che
sapea con chi avea che fare,
Quando
lor lessi il mio componimento,
Cercai
l’animo lor di guadagnare.
Dissi:
Amici e fratelli, anch’io consento
Ch’è
stucchevole cosa e tristo impegno
Formar
poemi su tale argomento,
Ma
talor deesi assoggettir l’ingegno
E
sforzar la natura e l’intelletto,
Quando
il soggetto di tal cura è degno.
Se conosceste
il peregrino oggetto
Dei
carmi miei, la vergine sublime,
Idea
miglior vi desterebbe in petto.
E certo
son che colle vostre rime
Eco
fareste alla mia Musa umile
Per
esaltarla sulle aonie cime.
Giovine
vaga, amabile, gentile,
Ricca
di beni e ricca di talento,
Nata
per aver stato signorile:
Mossa
sol da virtù, da sentimento
D’umiltà,
d’onestà, di penitenza,
A
passar i suoi giorni in un convento,
Merita
aver da voi la preferenza,
Merta
che una nazion così cortese
Prendasi,
in grazia sua, simil licenza.
Risvegliandosi
allora il brio francese,
Viva,
dice ciascun, viva il suo zelo;
Viva
l’amor che la donzella accese.
Ma
compor versi? Ci difenda il Cielo.
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