PER
IL SOLENNE INGRESSO DI SUA ECCELLENZA
IL SIGNOR GIOVANNI
FRANCESCO PISANI
ALLA SUBLIME
DIGNITÀ DI PROCUR. DI SAN MARCO
CAPITOLI
TRE ALL’ILLUSTRISSIMO SIG. GIOVANNI FONTANA
SEGRETARIO
DELL’ECCELLENTISSIMO SENATO,
ED
IN QUEL TEMPO SEGRETARIO D’AMBASCIATA A PARIGI
CAPITOLO
PRIMO
Monsieur
Fontana (ché Messieurs
noi siamo,
Voglia
o non voglia, e il titolo in comune
Coi
grandi in Francia, e coi meschini abbiamo),
Monsieur,
dicea, voi
non andrete immune,
Benché
fuor di Parigi, e a me lontano,
Dalle
mie lunghe chiacchiere importune.
Ho
mandato al sobborgo San Germano
Per
saper quando siete di ritorno,
E di
saperlo ho procurato in vano.
Dicono
che farà lungo soggiorno
A
Compiègne la Corte, e in conseguenza
Di
rivedervi mi si allunga il giorno.
Farvi,
se foste qui, la confidenza
Vorrei
di certo mio novello impegno,
Per cui
ho duopo di vostra assistenza.
Voi
conoscete quell’illustre e degno
Nuovo
Procuratore di San Marco,
Onor,
delizia dell’adriaco regno.
E di
parlar di lui preso ho l’incarco
In
occasion del suo vicino Ingresso,
E un
vasto mar con picciol legno io varco.
Voi che
gli foste lungamente appresso,
Che mi
diceste cento volte e cento
Averlo
in cuore e nella mente impresso,
Voi mi
potreste dar giusto argomento,
Ampia
materia, instruzïon, soggetto,
D’un Francesco Pisani al lodamento.
Ma voi,
dal vostro minister costretto
A
seguitar l’ambasciator per tutto
Ove il
re va per uso o per diletto,
Siete a
Compiègne, ed io son qui ridutto
Senza
soccorso in così grande impresa,
E perdo
il tempo, e di speranza il frutto.
La
fama, è ver, della famiglia ho intesa,
E a me
non sono le bell’opre ignote
Che
grande in ogni secolo l’han resa.
E le
storie e gli archivi osservar puote
Chi
saper brama degli eroi Pisani
Le
glorie, i fasti dell’età remote,
E i
cuori interrogar de’ Veneziani
Per
saper quanto venerati or sono
Questi
sublimi cittadin sovrani.
Mi
ricordo quel dì che al ducal Trono,
Fu d
genitore di Francesco eletto,
Delle
comuni acclamazioni al suono.
Dell’eccelso
LUIGI viva in petto
Serbano
la memoria gli Ordin tutti,
E vivrà
sempre di morte a dispetto.
Oh gli
uomini, le donne, i vecchi, i putti,
Qual
nel dì del trionfo facean festa
Intorno
al doge, dall’amor condutti!
E qual
di pianti orribile tempesta
Scosse
tutto il Paese il dì fatale
Che
alla patria il rapio Parca funesta!
Del
merto di un eroe la principale
Gloria
non è l’esser degli altri il primo,
Né il
superbo vestir manto reale;
E meno
l’esser di ricchezze opimo,
E
vantar sangue e
nobiltà degli avi,
Che
puro dono di fortuna estimo.
E il
talento e il saper, se tronfi e gravi
I dotti
rende, lor scïenza è vana,
Spiriti
al mondo perigliosi e pravi.
Il vero
merto che il cammino appiana
Alla
fama, all’onor sacro immortale,
E
l’alma dote di clemenza umana.
Esser
giusto, pietoso e liberale;
Beneficar
senza superbia o stento;
Essere
colla Patria universale.
Amar
ali uomini buoni, e di talento;
Promover
l’arti, ed
arricchir lo Stato,
Ed al
pubblico ben vegliare intento.
Ecco
l’eroe che al comun grido è alzato,
Ecco
l’eroe che va di gloria al segno;
Tal fu
Luigi, e perché tal, fu amato.
E il
sangue, e la ricchezza, e l’alto ingegno,
E le
sublimi dignità reali
Fur
belle in lui, perché di lor fu degno.
Ma
quanti v’han nella famiglia eguali
A
quest’eccelso possessor del trono!
Quanti
al pari di lui grandi, immortali!
Fur ne’
secoli primi, ed or pur sono,
Della
Patria l’amor, pronti per essa
A dar
il sangue e le ricchezze in dono.
Ahi,
che ancor vive amaramente impressa
Di Andrea, perito di Corcira al lido,
L’immagin
trista che Vinegia ha oppressa.
E di
LORENZO non s’estingue il grido
Che
acquistossi di Candia in su le mura,
Per la
Patria morendo, invitto e fido.
E la
memoria si rinnova e dura
De’ due
Pisani, Niccolò e Vittore
De’
nemici flagel, scorno e paura.
E dove
l’occhio o la memoria scorre,
Trovansi
de’ Pisani i monumenti,
Che pon rispetto e maraviglia imporre.
In
guerra, in pace, a mercar gloria
intenti,
Governar,
decorar fu il loro impegno
Cariche,
magistrati e reggimenti.
Si
ricordano ancora in più d’un regno
Gli
ambasciatori del Pisan lignaggio
Celebri
per splendore e per ingegno.
E dar
potrei della famiglia un saggio
Raccogliendo
le stole e l’ampie vesti
Che fur
sempre di lei premio e retaggio.
Pregi,
egli è ver, grandissimi son questi,
De’
quali è parte quel signore istesso
Di cui
è forza che a parlar mi appresti.
Ma non
basta, Fontana: i’ vorrei d’esso
Parlar
soltanto, e non degli avi suoi;
Quest’è
ch’io bramo, e che ho di far promesso.
Ricorro,
amico, in sì grand’uopo a voi;
Se mi
siete lontan, l’utile Posta
Può
deluder lo spazio ch’è fra noi.
No;
mandate piuttosto un uomo apposta
Perché
venga più presto e più sicuro,
E costi
la staffetta quel che costa.
Vi
supplico, Fontana, e vi scongiuro:
Datemi
le notizie che credete,
Ond’io
dir possa facile e sicuro.
Spero
che un importun non mi direte:
Trattasi
d’un signor che vi vuol bene,
A cui
per detto vostro assai dovete.
E
qualche sagrifizio far conviene
Per i
padroni, e per gli amici ancora,
E per
me, ch’ho riposta in voi mia spene.
Su via,
rubate volentieri un’ora
Alle
caccie, alle mense, al dolce letto,
A
qualch’altro piacer che vi ristora.
Fatelo
presto, siate benedetto,
Perché
il mese d’agosto va a gran passi.
Il
vostro foglio come un uomo aspetto,
Che
aspetta il giorno fra le spine e i sassi.
CAPITOLO
SECONDO
O mio
diletto amabile FONTANA,
Venezian
vero, che vuol dir dabbene,
Della
stirpe d’amici veterana;
Baciato
ho il foglio che da voi mi viene,
Foglio
sicur, ché mi ha toccato il cuore,
Poiché
la bella verità contiene.
Io fui
mai sempre dello stesso umore:
Amo dir
poco, è ver, non falso e molto;
E
abborrisco il mestier d’adulatore.
Pur
v’ha nel monde chi superbo e stolto
Si bee
le lodi che non sue ravvisa,
E paga
il falso tra bei fiori avvolto;
E non
s’avvede che l’altrui divisa
Sconciamente
affibbiatasi sul dosso,
Provoca
e move il popolo alle risa.
Io, per
esempio, tollerar non posso
Che
diasi lode a un uomo di fortuna,
Senza
suo merto, a dignità promosso.
Veggio
un Ministro che ricchezze aduna
Molli
del pianto d’infelici oppressi,
E non
m’inspira riverenza alcuna:
E se
mia sorte migliorar potessi
Adulando
a chius’occhi un uomo tale,
Non
sapre’ farlo, quand’io lo volessi.
Oh
bella gloria d’un eroe marziale
Dir:
Son, per grazia della protezione,
Capitan,
colonello e generale!
E quei
che fan servir la devozione
Per
farsi strada ad usurpar gli onori,
Mertan,
anzi che laudi, esecrazione.
Scusatemi,
Fontana, uscito fuori
Sono
dal seminato. Vi ringrazio,
Che
materia porgeste a’ miei lavori.
Cose
molte, ristrette in breve spazio
Offremi
il foglio vostro, e cose tali
Che il
mio vivo desir pon render
sazio.
Sceglierò
dell’eroe le principali,
Le più
belle virtù da voi dipinte:
Quelle
che rendon gli uomini immortali,
E che
nel nostro cavalier distinte
Sano
dalle comuni, il di cui merto
Muove
le Muse alla bell’opra accinte.
Voi,
del miglior conoscitore esperto,
Cominciaste
a lodar di Sua Eccellenza
L’affabil
cuore ai cittadini aperto,
La
bontade, l’amor, la provvidenza,
Onde
guarda, protegge, e tratta, e onora
Chiunque
ha riposta in lui sua confidenza.
Pronto,
attivo, s’investe e s’infervora
Per lo
ben, per l’onor de’ servi e amici,
E gli
scorta, e gli assiste, e gli avvalora.
Noi, di
Vinegia sudditi felici,
Questo
abbiamo di ben, fra gli altri beni,
Bene
che nel governo ha le radici:
Se
avvien che soffra un sfortunato, e peni,
Trova
la man del protettor pietoso
Che
render puote i giorni suoi sereni.
Altrove,
se un meschin diventa odioso
Di un
Ministro alla vista, ahimè, è perduto:
O
fuggir deve, o consumarsi ascoso.
Fra
noi, per grazia del divino aiuto,
S’evvi
persona che tremar ci faccia,
V’ha
chi lo sdegno suo può render muto;
Non per
sovercheria, non per minaccia,
Ma per
la necessaria, util catena
Che il
cuor dei grandi e gl’interessi allaccia.
Apre le
labbra, e si dichiara appena
Protettore
Francesco all’innocente,
Placa,
vince, commove, e i cuor serena.
E
prendendo per man l’umil cliente,
Lo
conduce all’onore, o alla fortuna
Misurata
al suo grado e all’abil mente.
Questa,
fra sue virtù, questa è quell’una
Che
amor lo rende universal, prezioso,
Di
tutti gli Ordin dell’ampia laguna.
Quest’è
che rese il popolo festoso
Quando
il Supremo Veneto Consiglio
Diè
l’alma veste a quest’eroe pietoso;
E di
gioia mostrando umido ii ciglio,
Ecco,
diceva la festevol gente,
Il
padre nostro, e della patria il figlio.
Chi
vide mai di carità più ardente
Acceso
un cor per la miseria umana?
Chi più
di lui benefattor clemente?
Ecco
l’altra virtude, ecco, Fontana,
La
seconda virtù che voi marcate
Giustamente
in quest’anima sovrana.
Di sì
caro signor son opre usate
L’opere
di pietà, né al bisognoso
Fur mai
le porte e le sue man serrate.
Facile
soccorrendo e generoso
Quei
che di domandar fatto han mestiere,
Ma più
il meschin che per rossore è ascoso.
Le
vedove, i pupilli e le mogliere
Abbandonate,
e le zitelle oneste
Di
proteggere ha cura e provvedere;
E liberarle
dalle genti infeste
Che limosina fanno alla bellezza,
Coll’ignominia
di scorrette inchieste.
Voi
passate, Fontana, alla saggezza
Di
quell’eroe del Veneto Domino
Ch’ama
giustizia, e non conosce asprezza.
Con voi
ammiro, e riverente inchino,
Il vigilante
difensor robusto
Dell’umano
diritto, e del divino:
Padre
conscritto del Senato augusto,
Ebbe le
chiavi di Giustizia in mano
Tenero
d’anni, e di prudenza onusto;
E la
provvida mente e il cuore umano
Util lo
rese, e necessario, e grato
Al
ministero pubblico sovrano.
Al
sommo Tribunal sei volte alzato
Dei
Decemviri eccelsi, il rigor tenne
Unito
sempre alla clemenza allato.
E col
merto, e col zelo ond’ei sostenne
Della
Patria gli onori, e i gradi, e i pesi,
All’odierna
dignità pervenne.
Amico,
è ver, nel foglio vostro intesi
Di
quant’altre virtù va il prode adorno,
E ho di
parlarne desideri accesi.
Lo
farò, s’a Dio piace, al nuovo giorno,
Ch’or
per sentire un’opera novella
Ho
gl’italiani comici d’intorno.
Vuole
il destino mio, vuol la mia stella,
Ch’abbia
a sagrificarmi eternamente
A un
mestier che talvolta mi arrovella:
In
Francia dove son, principalmente,
Dove
inteso non è, com’i’ vorrei,
Il
linguaggio italian comunemente.
Ingrato,
è vero, alla bontà sarei,
Se mi
dolessi dell’accoglimento
Dei
Francesi indulgenti ai parti miei;
Ma quel
rumore popolar non sento,
Quelle
man, quelle voci, e quel piacere,
Che in
Vinegia solea
farmi contento.
Bramo
la Patria mia di rivedere:
Ma un
pensiere mi attrista e mi allontana;
Crescono
gli anni, e scemasi il potere.
Ed il
consiglio di natura umana
Mi fa,
girando in questa parte e in quella,
Pensare
alla minestra quotidiana.
Quel
che più mi dà peso, e mi martella,
È la
famiglia d’un fratel minore,
Che al
desco mio si dee nutrire anch’ella.
E
ottener non potei, che per favore
Nelle
venete truppe il mio germano
Un po’
d’utile avesse, un po’ d’onore.
E
parlo, e prego, e il mio pregare è vano,
Ed ho
timor di comparir molesto.
Fontana, state allegro, e state sano;
Domani
avrete de’ miei carmi il resto.
CAPITOLO
TERZO
Fontana, i’ penso all’amicizia vostra
Che per
me s’interessa, e all’onor mio
Ed al
mio ben sollecita si mostra.
Penso
che avrete di saper desio
La
commedia qual sia che ieri ho letto,
Ed ho
piacer, che lo sappiate, anch’io.
Di
quest’opera mia tratto ho il soggetto
Dalla
mia Dalmatina, a voi ben nota,
Che in
Vinegia produsse ottimo effetto.
E al
nome vinizian ligia e divota
La Musa
mia, vuol che a Parigi ancora
Sulle
pubbliche scene onor riscuota,
Ho la
cara mia Patria in mente ognora,
E i
padroni, e gli amici e i protettori,
E il
loro amor che anche lontan mi onora.
Principiato
ho a mandar de’ miei lavori
A
Vinegia quest’anno, e voi il sapete,
Voi che
mi deste i stimoli maggiori.
Qual
commedia mandai saper volete?
Eccola:
Il matrimonio per concorso.
Ritornate
a Parigi, e la vedrete.
Tratto
ho quest’anno alla mia Musa il morso;
Esser
vo’ grato al pubblico che aspetta,
E al
difetto supplir dell’anno scorso.
Spedita
parimente ho un’operetta
Per lo
teatro di San Samuele,
E al
maestro Galuppi l’ho diretta:
A quel
maestro che di latte e mele
L’opre
condisce, ed è fra i professori
Quello
che fra i pittori è un Raffaele.
Come
prima facea, non esco fuori
Tutto
il giorno di casa; or mi governo,
E bado
seriamente a’ miei lavori.
Ecco,
amico Fontana, il vizio eterno
Che mi
possede; parlo di me spesso,
E se
principio, parlere’ in eterno.
Tempo,
lo veggio anch’io, non era adesso
Di
meschiar le mie frottole noiose
Al
grave incarco che mi vien commesso.
Tempo è
di ponderar quel che propose
Il foglio
vostro, e scegliere il migliore,
E in
poetico stil dispor le cose.
Ma il
tempo mi si abbrevia, e passan l’ore,
E se in
quest’ordinario io non spedisco,
Rischio
della Raccolta restar fuore.
E
sapete quant’amo e quanto ambisco
Far
vedere ai patroni, anche in distanza,
Che
d’amor per la Patria io mi nutrisco.
Ma se
tardo ho l’ingegno, e il dì s’avanza,
Sentite
qual pensier mi viene in testa:
Correggetemi
voi, s’ella è baldanza.
Per far
la cosa più innocente e presta,
I tre
fogli spedir che ho scritti a voi
Un’improvvisa
fantasia mi desta.
So che
altro stil per esaltar gli eroi,
Altro
metro si adopra, altri pensieri,
E a
ragion temo che dispiaccia e annoi.
Ma un
gran merto de’ carmi è l’esser veri
Voi gli
avete dettati, ed io gli ho scritti,
E siam
del pari tutti due sinceri;
E vedrà
il signor nostro in questi scritti,
Se non
di poesia l’arte e l’ingegno,
I
nostri cuor delineati e fitti.
E chi
sa ch’ei non metta al libro un segno,
E non
rilegga con piacere un giorno
I fogli
che alla sorte ora consegno?
Ne’
suoi riposi, nel palagio adorno
Magnifico
di Stra, dar si potrebbe
Ch’ei
li leggesse a’ bei giardini intorno
O
Stra felice, chi ridir saprebbe
Quanto
alla rara tua bellezza antica
Il
genio illustre di Francesco
accrebbe?
La Brenta
nostra deliziosa, aprica,
Di
palagi, di parchi e statue ornata,
Albergo
in sua stagion di gente amica,
Esser
può bene al grand’onore alzata
Di star
a fronte alle superbe ville
De’
giorni nostri e dell’età passata;
E la
Villa Pisani alle pupille
Offre
l’idea dello splendor natio
Delle
venete illustri aime tranquille.
Dite la
verità, Fontana mio,
Qual
bellezza maggiore hanno i giardini
Di
Parigi, che amate, ed amo anch’io?
Dieci,
dodici mila Parigini
Di
vario sesso, in un sol luogo uniti,
I
passeggi fan belli e peregrini.
Piacevole
è il veder mogli e mariti
Divertirsi
all’aperto, e nel boschetto
Giovani
donne ed amator scaltriti.
Là un
filosofo pensa, e là soletto
Legge,
studia, compone un letterato;
Colà
sull’erbe l’ozïoso ha il letto.
Mirasi
unito un circolo da un lato
Di
novellisti, divisor del mondo,
Della
pace scontenti e dello Stato.
Bell’è
il vedere un Parigin giocondo
Colla
comoda lente ad una ad una
Le
donne esaminar da capo a fondo.
Talor
d’intorno il popolo s’aduna
A
qualche antica stravagante arpia,
Capitata
al giardin per sua sfortuna;
E il
moto popolar non si potria
Trattener
con catene, ed è forzata
Di
salvarsi la donna, e fuggir via:
Cosa,
per vero dir, mal conciliata
Colla
dolcezza di un Paese colto,
Dov’è
sì ben la gioventù educata.
Ma la
vivacità del popol folto,
Nel
primo moto dall’esempio scosso,
Trovasi,
non volendo, il fren disciolto.
Un
altr’uso mi spiace. Il viso rosso
Delle
donne mirar qual lo scarlatto,
Cariche
di carmin sparso all’ingrosso.
Scernere
non si ponno a verun patto
Dalle
brutte le belle, e dalle antiche
Le
giovani, che il volto han contrafatto;
Ma per
uso lo fan le più pudiche,
E non
come da noi per impostura
Le
scaltre donne del buon tempo amiche.
Amano
li Francesi alla frescura
Le
dipinte mirar vermiglie rose
Far
spalliera d’intorno alla verdura.
Stan
nel primo vïal le più pompose,
Passeggiando
o sedendo, unite o sole,
Vedove,
maritate, o figlie, o spose;
E
l’umili, modeste famigliuole
Stansi
ne’ laterali, e spesso uniti
Vedonsi
genitor, madri, figliuole.
A
Parigi le mogli ed i mariti
Vanno
insieme ai teatri ed ai passeggi,
Per le
vie, per le chiese ed ai conviti,
E
pericol non v’è che si beffeggi
Un
marito che, accanto alla mogliera,
Scherzi,
vada, sen stia, canti o festeggi.
Quivi
l’amor, che da principio impera,
Se non
può conservar le fiamme intesse,
Si
cambia almeno in amicizia vera.
Ed
unite di genio e d’interesse
Sono le
mogli ai docili mariti,
Non
padrone orgogliose o schiave oppresse.
Sì
comune non è sui nostri liti
L’armonia
de’ congiunti, e il zel mi sprona
E il
patrio onor che un esemplar ne additi.
Degno
d’eterna, d’immortal corona,
Luigi, eccelso cavalier sovrano,
Se di
te parlo, all’ardir mio perdona
Tu di Francesco amabile germano,
Di
egual sublime dignitade ornato,
Di lui
non meno generoso, umano,
Tu
della saggia tua consorte allato,
GAMBARA,
delle prische
imitatrice,
Tu
rendi il nodo marital beato.
E la
gemina tua prole felice,
Non men
che l’altra del germano estinto,
Gloria
alla patria e ai genitor predice.
Prezioso
di pace almo recinto,
Albergo
illustre de’ Pisani eroi,
Spinti
a grand’opre dall’antico instinto,
Che
apri vasto Liceo fra’ muri tuoi
Di
scienze ed arti, ed i felici ingegni
Allettare,
animar, soccorrer puoi,
I versi
miei son d’appressarsi indegni
A
quelle soglie di virtù custodi,
Fra i
sonori d’amor pubblici segni:
Ch’esser
atto non puote a cantar lodi
Comico
vate a lineare avvezzo
Costumi,
passïon, difetti e frodi.
Ma più
il comando che il periglio apprezzo;
E se un
pronto obbedir merta indulgenza,
Non
andran forse i miei carmi dassezzo.
Fontana, vi spedisco in diligenza
Il
terzo foglio, a norma dell’impegno.
Ditemi
il parer vostro in confidenza.
Lo
spedirò, se non affatto indegno
Vi
sembra dell’altissino soggetto,
Non
come poesia, ma come un segno
D’allegrezza,
di stima, e di rispetto.
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