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Carlo Goldoni Componimenti poetici IntraText CT - Lettura del testo |
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CANZONE PER MONACA
Non più, donne, non più; cessate il pianto, Ch’io non lo morto, e meno il mio destino. Perché d’aspro cammino Tolta si fosse accorta Timida agnella, a ricovrars’ intenta, Piagnereste voi forse? Io qua fui scorta Dal buon pastore a sicurezza accanto Contro al desio di chi voleami spenta. Or vivo lieta in più sicuro nido: Voi piagnete il mio fato, e intanto io rido. Rido di voi, rido di chi si affanna Nel vedermi lasciar grandezze tante; Di chi la folla errante Segue de’ stolti schiavi Incatenati di Cupido al carro; Di chi del proprio cuor diede le chiavi Al traditor, che con lusighe inganna. Anch’io pugnai, ma sol vittorie or narro; Vittorie tante de’ nemici a scorno, Mercé di Lui, che diò la luce al giorno. Fra gli ostri, e gli ori, e le corone. e i manti, Nacqui, egli è vero, e fra tiare, e spade, Sin nella prima etade Anch’io conobbi quanto Sorte fu larga a’ Gradenighi eroi. Ah non mancò chi di formarne incanto Pensò al cuor mio co’ gloriosi vanti: Chiusi a tempo l’orecchie a’ detti suoi. Sì, nacqui grande, alle più grandi eguale; Ma grandezza di mondo a me non cale. E non si offenda l’umiltà che io pregio, Se rammento talor de gli avi miei Fasti, glorie, trofei; Se del gran zio, che splende Gloria dell’Adria e della Patria onore, Parlo sovente. Nel mio cuor non scende Vanità d’acquistarmi e gloria e fregio, Con gli altrui merti, o coll’altrui sudore. Amo virtude e non di sorte il dono; Io non sono qual fui, ma son qual sono. Ancella i’ son del mio Signor clemente; Seguo sua povertà, serbo sue leggi. Altri pianga, e vaneggi; Carcere appelli il chiostro, E me fra ceppi di veder si dolga. Donne, quanto s’inganna il pensier vostro Qui, qui venite, e vostra bassa mente Per un momento al mondo rio si tolga. Giuro che, sciolte da’ fatali impacci, Meco verrete fra soavi lacci. Incerta anch’io fui di cangiar mio stato; Tremai talor nell’accostarmi al tempio. Ma il glorioso esempio Di due suore felici, Pria di me nate dal medesmo sangue, Che poggiar del Calvario alle pendici, Franca mi fece nel cammin tentato. Vid’io stessa fuggir l’orribil angue Dinnanzi a me, standomi sempre appresso Queste, che gloria son del nostro sesso. Forse, perché misto d’argento ed oro Serico ammanto non mi cinge intorno; Perché di gemme adorno Il tronco crin non serbo, E di natura non accresco i pregi Coll’inganno dell’arte, e di superbo Fasto non copro il femminil decoro, Sembro a voi degna degli altrui dispregi? Oh quanto vaglion più queste mie lane, Donne ingannate dalle pompe umane! Perché non corro infra la turba insana Ai teatri, alle veglie, ai lusinghieri Effimeri piaceri, Dietro cui van perdute Genti cotante, che potrian al mondo Farsi esempio di gloria e di virtute; Perché donna i’ non son garrula e vana, E amor dispregio, e suo desire immondo, Sembravi il mio destin penoso tanto? Ah! voi siete, non io, degne di pianto. Vanne, canzon, e i saggi detti e santi Di lei, che fugge il mondo e i lacci sui, Narra fedele altrui. Di’ che cessin omai gli amari pianti. Di’ che Giustiniana in umil tetto Gode felice in Dio pace e diletto.
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