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Carlo Goldoni Componimenti poetici IntraText CT - Lettura del testo |
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ALL’ILLUSTRISSIMO SIG. DOTTOR MATTEO FORESTI MEDICO FISICO Ottave per il molto revererendo Padre Angelo Pastrovicchi romano, minor conventuale.
No: dissi a tanti che a me versi han chiesti Per oratori, monache o sponsali; E dissi: No, per que’ motivi onesti Che il mondo sa quanti in me sieno, e quali; Ma dir nol posso a voi, saggio Foresti, Per quant’amo spirar l’aure vitali; A voi nol posso dir, ché in vostra mano Sta il farmi viver lungamente, e sano. S’io per questo terrò più dell’usato Il fragil arco della mente teso, Da voi sarammi farmaco prestato Che il capo serbi da disgrazie illeso; Come faceste già per lo passato, Allor ch’i fui dall’ipocondria preso, Con apprensioni vigorose e strane Che il mondo chiama volgarmente rane. Oltre di che, medico tal non siete Che per necessità solo si onori; Ché congiunta al saper voi possedete L’arte gentil d’incatenare i cuori: Coll’impostura inimicizia avete, L’interesse non forma i vostri ardori, Impegnato pe ‘l grande e pe ‘l mendico, Del vero amante, e degli amici amico. Cantisi dunque, e sia de’ carmi nostri Sacro oratore il nobile argomento; Onde lui per esempio altrui si mostri D’alme smarrite alla salute intento. Ma come sia, che i miei profani inchiostri Cambino di natura e di talento? Contro i vizi gridare anch’io m’avviso, Ma il pianto ei desta, e da me desto è il riso. Pur v’è talun che avvicinar non teme L’arti disgiunte, per lo scopo almeno Di sparger quinci di virtude il seme, E dei vizi scoprir quindi il veleno. Il piacere, il terror congiunti insieme Recan per tutto alla licenza il freno. Quel che più mi spaventa, è la distanza Di sua virtute, e della mia ignoranza. Ma questa non può far ch’io non comprenda La forza in lui delle parole sante, Ché la predicazione è tal faccenda Ch’ave a intendere il dotto e l’ignorante. Ne produr può la procacciata emenda Chi troppo s’erge dal Vangel distante; Ché nel giardin dal Redentor costrutto Gli altri son fiori, ed il Vangelo è il frutto. Lice per altro al buon cultor sagace Ornar di fiori anche il pomario eletto, E più invita a gustar pianta ferace, Quando all’utile unisce anche il diletto. Tale il sacro orator giova, se piace, Ora il cuore movendo, or l’intelletto; Basta sia il frutto della sua virtute Gloria non solo, ma !’altrui salute. Però in quest’anno mille settecento Cinquantacinque (oh epoca gloriosa!), Nei santi dì del santo pentimento, Nel tempio augusto di Maria Formosa, In questa, che nel liquido elemento La sua reggia fondò città pomposa, A noi mandò la Provvidenza industre Del Serafico Padre un figlio illustre. Pastrovicchi, orator sul Tebro nato, Dell’illirica terra originario, Di Girolamo suo lo stile ornato, Dolce insieme e robusto ha ereditario; E nel seguire il santo apostolato, Giusta la mente del roman Vicario, Arder di zelo e lacrimar fu visto Per ricondur le pecorelle a Cristo. Il primo dì che alla brutal succede Notte di Carnovale ultima indegna, Che con polvere umil la santa Fede A rammentare il nostro fin c’insegna, Ah che talor pur troppo alcun si vede Ridere in faccia alla lugubre insegna, Ed occupando dormiglioso il banco, Udir la Messa coll’amante al fianco. Ma chi per grazia della Provvidenza Udir poteo nelle sacrate porte Del divino orator l’alma eloquenza Sgridar il vizio, e favellar di Morte; L’alma tosto dispose a penitenza, Temendo il fin dell’infernal coorte, E pianse il reo del suo fallir pentito, E la cenere prese umil contrito. Indi talun che di Cristiano ha il segno, E il cuore innalza ad insultar la Fede, Seguace rio di quel costume indegno Ch’oggi nel mondo a prevaler si vede, E il più superbo pervicace ingegno, Nell’udir lui, trema, s’arrende, e crede; Indi la fede sua fa che si scopre Verace fede per la via dell’opre. E chi sdegno nutria, tenace, antico, Col funesto desio d’aspra vendetta, Perdonare fu visto al suo nemico, E correr tosto ad abbracciarlo in fretta. Ah se talun, ch’è delle risse amico, Udita avesse quella benedetta Voce divina, che penetra i marmi, Cessato avrebbe di perseguitarmi. Lungo troppo sarebbe il ridir tutti I cuor perversi, che da lui fur vinti. Son del suo amor, son del suo zelo i frutti Le rinate virtudi, i vizi estinti. Ha con dolcezza i docili condutti, Ha i contumaci col terror convinti, E fa che ognuno per diversa strada A penitenza salutar sen vada. E la Grazia efficace, od efficiente, La naturale, e soprannaturale, E la concomitante, e susseguente, E preveniente Grazia abituale, E la santificante, o sufficiente, E la forte di Dio Grazia attuale Si ben dipinse agli animi terreni, Che di Grazia divina essi fur pieni. Non più, dicean le femmine tra loro, Del prossimo non più mormorazioni: Lingua, flagello dell’altrui decoro, Apprendi a recitar sante orazioni. La famiglia, la Chiesa ed il lavoro Sien le nostre miglior conversazioni: Cessino in casa le orgogliose liti, Ed il tormento ai miseri mariti. Non più amori, non più, le verginelle Diceano anch’esse, lagrimando a prova; Cessi lo studio di lisciar la pelle, Che or vano è troppo, e in vecchia età non giova. Ah non più amori, le congiunte anch’elle Dicean, seguaci dell’usanza nuova: Lungi, lungi da noi, se dunque è reo, Il servente, l’amico, il cicisbeo. E gli usurari sospirar fur visti Disserrando tremanti oro ed argento, E nel privarsi de’ preziosi acquisti, Per un scudo sperar d’averne cento. Ai poverelli di miseria tristi Parte de’ suoi tesor donando a stento, Gli occhi chiudeva l’infelice avaro, Per non morir nel porgere il denaro. Ma pur convinti, svergognati, accesi Di timore e d’amore, a poco a poco Dal vizio andran dell’avarizia illesi, Le ricchezze cercando in altro loco. Essere il mondo da Francesco intesi Un’ombra, un fumo, un’illusione, un gioco. Vera eterna fortuna in Ciel ci aspetta; Ma è la strada del Ciel spinosa e stretta. Quanto costò nostra salute, ahi quanto Alla Vergine Madre addolorata! Rammentate, Foresti, il largo pianto, Onde la Chiesa fu per noi bagnata, Allor che di Maria mostrocci il vanto Dei tre forti dolori in una fiata: Figli ciascun del triplicato amore, Che le feriro con tre punte il cuore. E del Figlio di lei, dell’Uomo Dio, Che per nostra salute è morto in croce, Quando più forte ragionar s’udio Fra le mura del tempio amabil voce? Cuore non fu sì pertinace e rio Che alla tragedia resistesse atroce; Piangere il giusto e il peccator fu visto, Tutti col buon ladron, niuno col tristo. Sogliono gli orator, pria di partire, Lasciar ricordi contro al rio demonio: Piacque a Francesco il minister compire Coll’ampie lodi del divino Antonio; Opera insigne, che potria servire Sola del suo valor per testimonio: Svelò l’amor del taumaturgo pio Verso sé, verso gli altri, e verso Dio. Qual maggior bene ricordar potrebbe Oltre l’imitazion di sì gran Santo? Ma la virtù, che in noi discese e crebbe, Come durare in noi vedrassi, e quanto? Deh quella fronte, ove il suo latte bebbe L’anima nostra, e dissetossi alquanto, Torni, deh torni a scaturir fra noi. Pastrovicchi, signor, favello a voi. A voi favello, e meco porto i voti, Pieni d’amor, d’una cittade intera. Mirate il cuor de’ popoli divoti, Che vi acclama, vi loda, ed in voi spera. E di Vinegia non son nomi ignoti I cittadini dove il Tebro impera. Ella divota al Vatican, qual nacque, Col mondo il regno finirà nell’acque. Le interne piaghe a medicare intento Voi all’alme porgeste ampia salute; Ma dei nemici recanci spavento Le minacciate triplici ferute. Dell’Occasion la predica rammento, In cui mostraste medica virtute: Deh, se ‘l frequente medicar dà vita, Replicateci voi la vostra aita. Di rivedervi la fondata speme Scema il dolor della partenza vostra; E quanto a ognuno la salute preme, Altrettanto desioso in ciò si mostra. La Musa mia, d’altre più colte insieme, La man vi bacia, e con amor si prostra. Piacciavi d’aggradir la rima umile Col mio comico usato, amico stile.
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