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Carlo Goldoni Componimenti poetici IntraText CT - Lettura del testo |
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RISPOSTA DEL GOLDONI AL SIGNORE STEFANO SCIUGLIAGA
Sciugliaga, i dolci tuoi carmi sonori Sciolgono in me la fantasia legata Dalla comica Musa, e nel mio petto Talìa cede gli onori all’alma suora Calliope, madre degli eroici canti. Cinto di lauri il crin, col plettro allato, Inni cantar al faretrato Amore, Di pacifico ulivo all’ombra amica, Veggami il curioso spettatore; Dicami: Polissen, tu sei quel desso Che l’ingordo rapace, il falso amico, L’empio, il mendace e l’impostor pungesti? E non mel creda, se rispondo: Io sono. Né per colui vo’ mi ravvisi il mondo Che, le vittorie d’Imeneo cantando, Seppe infiorar di comici concetti Le laudi epitalamiche sonore. L’aureo sul Tebro grave metro usato Mi percuote l’orecchio, e in sen mi desta L’armonia spenta, qual cetra non tocca Con giusta ad arte simmetria locata Risponde a cetra dalle dita scossa. Degli esametri carmi andar del pari Può sol l’endecasillabo spogliato Della rima, che snerva il suon robusto; Qual del divin verseggiator latino, Seppe tradur la maggior opra il Caro. Ecco, i numeri scelgo i più concordi A quei che meco a stimolarmi usasti; Ma i detti incolti pareggiar non posso, Sciugliaga, ai tuoi, che de’ Britanni al fonte Qual bevesti, non bebbi, ove s’impara Dir molto in poco, e dir soave e forte. So che te al monte vanità non spinge Di mercar fama dalle Aonie suore; Ma per diletto a quella meta arrivi, ’Ve sudan tanti penetrare in vano. Taci di me, se numerar ti piace I fortunati che toccar le cime Del bel Permesso e trapassaro a volo Le spine, i sterpi, dell’invidia a scherno. Io qual timida serpe il suol radendo Di sasso in sasso, ora allungando il collo, Or traendomi dietro il corpo inerme, La via calcata di salire agogno; Ma la cima dei monte al serpe è chiusa, E può solo volar di balza in balza Canoro augel colle grand’ali a tergo. Non mi adular; ché se la Gallia industre, La saccente Britannia, e la belligera Alemagna converte in proprio stile Del mio sudor, della mia Musa i parti, Di nuove spoglie travestiti, avranno Vita migliore dal secondo padre. Tu l’avrai da te stesso; i gravi studi Sempre fur tua delizia; or la divina Scienza t’accende, che l’eterna essenza, E il divin culto, e i gran misteri addita, Onde meglio lodar l’Onnipossente, Che ti feo ricco di virtù e saggezza. Lascia il vulgo gracchiar, che non ravvisa Mediocrità fra la virtude e il vizio, E misantropo crede il saggio e il dotto. La mano un tempo ad Imeneo cedesti; Libero, or di te sei arbitro e donno, Né credi amor della tua Musa indegno. Non quell’amor che anime vili accende, D’impure voglie promotor Cupido, Ma il saggio, il casto, il venturoso arciero Che il sen ferisce degli eroi soltanto; Quel dolce amor, che d’un Valiero il cuore Unisce al cor di vergine sublime Di sangue nata Gradenigo, eccelso. Chi è mai sì ignaro degli Adriaci fasti, Che nomi tali non conosca, e appieno I lor nuovi non sappia, e prischi onori? Non le fere battaglie e i tristi eventi Della tenace sanguinosa pugna La pacifica Musa a cantar prende; Ma se meschiare a te piacesse, o Vate, All’imprese d’amor del furibondo Marte le stragi, spazioso campo Offre a’ tuoi carmi la vittoria stessa Che i Gradenighi ed i Valieri addita, Gloria ed onor de’ secoli vetusti, E in carte, e in bronzi, e in sculte tele, e in marmi (Memorie eterne dei guerrieri antichi, Provido esempio ai successor nipoti); E ai rami eterni di sì eccelsi tronchi, Mira appese le porpore sublimi, E i regal manti, e le ducali insegne, Sudati frutti di valor guerriero. Lunge lunge de’ bellici strumenti Il suon feroce in sì bel giorno; Euterpe Spinga soavemente il dolce fiato Nelle stridule canne; accosti all’arpa Tersicore la mano; e dolcemente Odasi Erato tasteggiar la cetra, E Clio la lira, e Calliope il plettro: Formi Urania i presagi, ed apra il fonte Polinnia dei rettorici concetti. Delle nove sorelle a te stan sette, Sciugliaga, d’intorno. Io vantar posso Le grazie umili di Talia soltanto; E talor di Melpomene superba Il coturno baciar. Deh, se ti cale Di Cristoforo tuo l’onor, la fama, Se di Teresa le virtudi eccelse, E di tale Imeneo le glorie, i fasti, Non arrestar de’ dolci carmi il suono Per lasciar me nella più dura impresa, In cui non lice adoperare il socco. Ma tant’obbligo ho teco, e l’amicizia Tanto può in me, tanto l’umìl rispetto, Che al nome illustre di tai sposi io serbo, Che vo’ al di sopra di me stesso alzarmi. Schieratevi da un lato al mio cospetto, Vizi, dell’uom persecutori eterni; E voi belle virtù venite a destra A trionfar de’ perfidi nemici. Vien, di te gonfia, delirante, altera, Vana Superbia, che l’onor adombri Di false tinte e coloriti inganni. Specchiati in volto all’Umiltà, che abbassa Per modesto rossor le luci al suolo. Ella, se tu nol sai, dal cor si parte Della bella Teresa, e in mezzo a tanta Gloria che la circonda, al Ciel dà lode, E il vano orgoglio, e l’alterezza abborre. Pallida in faccia, macerata e smunta, Vien, lugubre Avarizia, e a tuo dispetto Mira la mano liberal pietosa Della virtude, che il Valiero adorna. Tra il confin d’avarizia, e il periglioso Prodigo calle, vigilante insegna Il felice sentier Prudenza umana. E tu, nemica di te stessa, ingorda, Deridi pur lo smoderato abuso Di Providenza, ma vergogna prendi Della virtù, che fra gli estremi alligna. Copriti il volto di rossor macchiato, Fervida Passion, figlia inonesta D’impuri affetti, e di perigli madre. No, le torbide luci al bianco velo Della santa Onestà fissar non dei. Ella di puro amor l’anime accende Di due sposi novelli. Il verginale Cinto discioglie d’innocenza al fianco, E al cor di Lui perpetuamente annoda. Né fia che il fiato de’ profani amori I sacri nodi rallentar si vegga Della soave marital catena; Né il geloso vapor, né il rio veleno Della discordia penetrarvi ardisca. Chi sei tu, che guatando or questa, or quella Bella virtù, ch’è di se stessa adorna, Ne aspiri al vanto, e non imiti i pregi? Perfida, ti conosco, Invidia atroce, C’hai del tuo labbro insanguinato il dente. Fremi dinanzi alla ridente coppia Degli amanti felici. Osserva in essi L’illustre sangue che lor empie il seno. Mira il valor delle famiglie antiche, Gloria del patrio ciel, gloria del mondo. Vedi ricchezza, onor, pace e decoro, E virtude, e bellezza a lor d’intorno. Mira quanta Umiltà nel cor s’annida Dei novelli congiunti, il proprio bene Godendo in pace, dello altrui contenti; E le tue brame pertinaci, ardite, Dal bell’esempio a moderare impara. Eh, del baratro fosco itene al fondo Miserevoli arpie, Gola rapace, Ira cocente e vergognosa Accidia. Temperanza soave, amor di pace, Operosa virtù tornano al seno, Donde partir, dei coniugati eroi; E voi, donde sorgeste, ite frementi. Libera vuol la scena Amor fecondo; Ecco, dal terzo ciel Venere il guida Col secondo fanciul, che Imene ha nome. Adria augusta, felice, ecco il momento Fortunato per te Pronuba all’ara Mira la dea che nella Cipria sede Incoronò d’una tua figlia il crine. Ecco i sposi novelli; Amor da un lato Scuote la face, ed Imeneo dall’altro; E, dalla fiamma separati, i fumi Grati odorosi volano d’intorno Della donzella, a fecondarle il seno. O sospirata, avventurosa prole, Scendi dalla tua stella, e vita prendi, E le speranze a consolar ti affretta.
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