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Carlo Goldoni Componimenti poetici IntraText CT - Lettura del testo |
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LA PUBBLICA CONFESSIONE Ottave recitate nell’Accademia degli Arcadi in Roma nell’anno 1759.
Ecco dinnanzi all’Arcade consesso, Dove albergan le Muse e il biondo Apollo, Polisseno Fegejo. Un reo confesso Ecco, Pastori, colla corda al collo. Compilate, o ministri, il mio processo, Scrivasi la sentenza in protocollo: Pubblico le mie colpe, e reo qual sono, Da voi spero pietà, se non perdono. Scelto ho il tempo di pace, in cui festeggia Arcadia vostra il Redentor Bambino: Né fia che grazia vanamente io chieggia In sì bel giorno al popolo latino. Di colte laudi santamente echeggia Quest’albergo diletto al Re divino, E il dolce plettro e la soave lira Rossor mi desta, e tenerezza inspira. Varie son le mie colpe; ad una ad una Dirle tutte non basta un mese, un anno: Ne sceglierò fra le più gravi alcuna, Le dirò senza scusa, e senza inganno. Non farò già, come suol far taluna, Che per scemarsi la vergogna o il danno Suol la scusa appoggiar d’aver fallito Alle figlie, alle serve, od al marito. Ecco il primo mio fallo: incolto, abbietto, Senza merito alcun, senz’alcun pregio, Rapir tentai (e ne sortii l’effetto) Sulle rive d’Alfea287 d’Arcade il fregio. Indi il mio nome a pubblicar costretto, Questo eccelso vantai titolo egregio; Ed oh pur troppo, per mio scorno e pena, Dei fogli miei l’Europa tutta è piena. Quel che dopo di ciò m’aggrava e pesa, È l’abbandono della diva Astrea, Sol per seguir la perigliosa impresa Di scoprir, di sferzar la gente rea. La Musa, è ver, di giusto zelo accesa, Contro il vizio comun parlar solea, Ma talor, per disgrazia, il rio demonio Ravvisare facea Tizio o Sempronio. Rimorso alcun per colpa tal non sento, E pur reo mi dichiara il popol folto: Io, che il pubblico stimo, e lo pavento, Pace non ho, se non mi veggio assolto. Vaglia il credito vostro a far che spento Sia il van sospetto a’ danni miei rivolto. Dite a ognuno di lor: Se siete in mostra, Non è colpa di lui; la colpa è vostra. Facilmente sin qui, Pastori, il vedo, Ragion vi sprona ad accordarmi il dono; Ma una colpa maggiore, ahi lo prevedo, Non mi lusinga meritar perdono. Or che in riva del Tebro albergo e siedo, Dove han le Muse, e la virtude ha il trono, Dove d’ogni saper le vie son piene, Ebb’io l’ardir di moderar le Scene. Scorta, è vero, mi fu la seduttrice Fama che l’opre mia Roma non sprezza; Ma lusingarsi ed abusar non lice Di tal bontade a tollerarmi avvezza. Anche un fosco vapor sulla pendice, In distanza, da noi talor si apprezza, Ma se l’occhio s’inoltra e si avvicina, Scopre l’inganno, ed il vapor declina. D’un’altra colpa io mi fo reo, Pastori: Avido son di gloria, e lo confesso; Per usurpar non meritati onori, Di faticar, di meditar non cesso; Le dame, i cavalier, prenci e signori Soglio sovente importunar dappresso. Vile non son, di domandar non uso, Ma le grazie e i favori io non ricuso. E non voglio tacer quest’altra colpa, Se colpa è il zel di migliorar sua sorte; Finor succhiai del mio cervel la polpa, Non vorrei l’ossa rosicchiare in morte. Il profano mestier taluno incolpa, Se chiuse io trovo al mio pregar le porte; Ridon le genti alle mie spalle, e intanto Finir io temo i giorni miei col pianto. Miraste mai di giovinetta il volto Tinto di rose, e di bei gigli adorno? Come ogni sguardo ad ammirarla è volto, Come a lei stanno i pastorei d’intorno? Ma il bel fior dell’età se a lei vien tolto, Sceman gli ammirator di giorno in giorno. Dicesi a gloria sua: Costei fu bella, Ma nel cuor dei pastor non è più quella. Esser mi aspetto, nell’età canuta, Più d’una vecchia disperato ancora: Se chi farlo potrebbe or non m’aiuta, Quai tristi giorni ho d’aspettarmi allora? Se in quest’etade il mio destin non muta, Meglio è finire, e ch’onorato io mora: Rassegnarsi al destino, è ver, conviene; Ma campare vorrei, e campar bene. Ah conosco l’error: L’audace stile Forse i giudici miei commove, irrita. Grazia, grazia, perdon vi chieggio umile, Se fuor del campo è la mia Musa uscita. Talora avvien che lo scherzar gentile Gli ascoltatori al dolce plauso invita, Ma lo vedo, lo so, per mia disgrazia, Che vo’ fare il grazioso, e non ci ho grazia. Confessate ho le colpe; il cuore in petto Tremarmi io sento pel giudizio incerto; Posso molto sperar dal vostro affetto, Tutto deggio temer dal mio demerto. L’occhio volgete a quel sublime oggetto, Che alla pietade ha l’ampio calle aperto; Il pio Clemente, che felice or regna, A perdonare e a compatire insegna. Così degno foss’io di sua clemenza, Che sperare potrei miglior destino; Ma per fatal poetica influenza, Vissi cantando, e ho da morir meschino. Pronunciate, o Pastor, la mia sentenza: La sospiro, l’attendo a capo chino: Ah, se miro d’ognun ridente il volto, Viva, dirò, son dalle colpe assolto.
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287 Fu in Pisa, dove l’Autore fu aggregato agli Arcadi. |
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