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Anton Giulio Barrili
Capitan Dodero

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I.

 

Eravamo, se ben ricordo, nove o dieci a tavola, ospiti di un cortese amico che la faceva da Anfitrione in una sua villeggiatura di Quinto, del bel paese di Quinto dove gli uomini nascono marinai, diventano capitani di lungo corso e si riposano spesso su centinaia di migliaia di lire.

Il pranzo, quasi tutto di pesci della costa e di cacciagione dei dintorni, era stato inaffiato con un certo vin bianco del paese, il quale è tenuto in gran pregio dai buongustai. Se a cotesto si aggiunga che il bue e il vitello erano di casa, le ortaglie e le frutta del pari, s'intenderà come quel pranzo potesse dirsi un saggio gastronomico di tutte le cose mangereccie del beato comune di Quinto. La Francia non s'era intromessa, giusta il costume colle sue poco autentiche bottiglie di Sciampagna; l'Italia faceva proprio da , chiudendo il simposio con una larga libazione di vino di Siracusa, fatto per svegliare i morti e per addormentare i vivi.

Tra molte chiacchere disordinate, s'era giunti alle frutte, e colle frutte incominciarono i brindisi, i lunghi discorsi, i faceti racconti. Il bere snodava lo scilinguagnolo, e ognuno dei commensali voleva dire la sua.

Un milionario narrava con modesta schiettezza com'egli si fosse perigliato la prima volta nel gran mare della mercatura con venti marenghi di capitale. Un assicuratore marittimo raccontava di una certa avaria; che gli era venuta a battere tra capo e collo, facendo diventar ricco l'assicurato. Ma la conversazione, tenuta da principio nella ristretta cerchia dei traffichi, andò man mano alla deriva verso la confusione delle lingue, dove chi più ne sa, più ne conta.

— E voi, capitan Dodero, non dite nulla?

Questa dimanda era rivolta da un faceto compare al suo vicino di destra, uomo di età matura, siccome dimostrava la sua barba bianca che serbava ancora qualche filo di biondo, dal volto arsiccio, che faceva fede delle burrasche durate, e dagli occhi vivaci, i quali dicevano come il capitano Mauro Dodero, dopo aver girato a tondo il globo assai più di Leone Pancaldo, e misurato più acqua che terra, non avesse perduto nulla della sua prima vigoria e della sua naturale giovialità. E invero il capitano era uomo piacevole assai, il quale ci aveva avventure a carra, anzi a tonnellate, che non gli dispiaceva punto di raccontare, e che si stavano ad udire molto volentieri, imperocchè egli era uomo di una discreta coltura e parlava con grande scioltezza. Pregi cotesti che, uniti ad una larga sostanza, gli avevano procurato il voto da' suoi concittadini nelle elezioni comunali; ma qui il capitano Dodero, sebbene il parlare gli piacesse come ai tordi il ginepro, aveva gridato: transeat a me calix iste! perchè, diceva egli, nello accettar pubblici uffizii si va incontro al pericolo di diventare uomini gravi; malanno al quale c'è sempre tempo, come alla morte.

Quel giorno il capitano, pari al generale avveduto che non vuol disperdere le sue forze in assalti spicciolati, aveva parlato pochissimo per tutto il tempo del pranzo; e non volle neppure aprir bocca quando gli fu tratto quel colpo a bruciapelo dal suo vicino. Si contentò di sorridere; e alzò il bicchiere fino agli occhi, guardando di rincontro alla luce il liquido topazio, innanzi di inghiottirlo, come Cleopatra le sue perle disciolte.

— Che cosa chiedete, Carlino? — saltò su a dire un altro dei commensali. — Non vedete che capitan Dodero non è in vena quest'oggi?

Povero amico! — soggiunse un terzo. — Egli ha tirato a terra la sua filuca.

— O come a terra? — interruppe un quarto. — Si dice anzi che prenda moglie, e sta forse preparandosi all'atto con un bravo esame di coscienza.

Capitan Dodero non era uomo da perdersi d'animo dinanzi a quella raffica d'epigrammi. Mentre gli amici lo suonavano a quel modo, egli tirava innanzi a sorridere, e poichè aveva deposto il bicchiere vuoto sulla tavola, si andava, tanto per far qualche cosa, pettinando colle cinque dita la barba. Ma vedendo che si aspettava una risposta da lui, si fece finalmente a parlare.

— E credete che non sarei uomo da prenderla, se me ne saltasse il ticchio? Ma in verità, il prender moglie s'ha da lasciare per le frutta, nel pranzo della vita. Io poi sebbene Giacomo Duranti dica che ho tirato la mia filuca a terra, non ho anche rinunziato a viaggiare.

Diamine! Avete forse lasciato qualche bella al Giappone o alla Nuova Zelanda?

— Che! Non gli è per le belle di quei paesi che io penso a rimettermi in mare. Per vostra norma sappiate, mio caro Giacomo, che per le belle si sta, non si viaggia; imperocchè questa derrata l'abbiamo a casa nostra, e fuori non ce n'è di migliore, ve lo giuro per san Giorgio! Ma senza cercare le donne, il mondo è sempre bello a vedere.

— E i colpi di vento non sono sempre gustosi a parare.

Baie! ho naufragato due volte, e non sono anche morto, come vedete.

— I pesci non vi avranno voluto assaggiare.

— Può darsi, ma in quella vece vi so dir io che volevano assaggiarmi i cannibali.

— I cannibali! Questa è nuova di zecca.

Sicuro, i cannibali, che m'hanno posto ad ingrassare, come si usa qui per gli ortolani.

Accidenti! — gridò Giacomo Duranti.

— Ma se lo dicevo io — ripigliò il primo interlocutore — che capitan Dodero ci aveva qualcosa da raccontare. E il manigoldo si teneva il segreto in corpo!

— Da bravo, capitano, raccontateci questa storia dei cannibali!

— Sì, volentieri; ma la sarebbe lunga.... — rispose capitan Dodero, seguitando a pettinarsi la barba — troppo lunga per dirvela qui sul bicchiere.

— Oh, per questo non abbiate paura! entrò a dire l'Anfitrione. — Voi sapete, capitano, che siamo venuti quassù per fare baldoria. Le signore mogli sanno dove siamo, e non ci caveranno gli occhi quando torneremo a Genova. A teatro, poi, nessuno ha da andare. Gli scapoli, se hanno qualche visita da fare, possono andare a piedi, poichè per amore non si sente dolore.

— No, no, — gridarono tutti in coro. — Noi stiamo ad udire la storia di capitan Dodero.

— Orbene, capitano, vedete che uditorio ansioso! Ma qui non si sta bene, ora; scendiamo nell'atrio, dove potremo sdraiarci a nostro bell'agio e fumare e bere al chiaro di luna.

— Sì, ben detto! La luna è appunto cosa bella!

Gobba a ponente, luna crescente!

Scendiamo nell'atrio, scendiamo nell'atrio, e viva capitan Dodero!

Accenderemo il sigaro al fuoco che doveva renderlo commestibile.

Berremo alla salute dei cuochi che dovevano girare il menarrosto.

— Sì, sì, — borbottava tra i denti il capitano, in quella che scendeva colla gaia brigata fin sotto l'atrio della casa; — ve la darò io la storia, e vi farò rimaner tutti con un palmo di naso. —

Scesi che furono e seduti, ognuno secondo il piacer suo, di costa ai pilastri, o sugli scalini del portico, capitan Dodero prosegui ad alta voce:

Portatemi del rhum, perchè questo liquido ha la proprietà singolare di rinfrescar l'ugola, e piglio subito il largo.

Gerolamo! — gridò l'Anfitrionevino, acqua, rhum, bicchieri, sigari e tutto quello che ci abbisogna! Ora eccoci qui, capitano, con tanto d'orecchi ad udire la vostra storia.

— Sì, la mia; ma anzitutto quella della povera Stella del mare, una magnifica nave, in fede mia, che è andata a lasciare il suo carcame nelle acque del Pacifico.

— In che anno, capitano?

— Oh, ne sono già passati parecchi. Io ne aveva allora ventiquattro; fate voi la somma.

— Nel 1700, dunque! esclamò quel burlone di Giacomo Duranti.

Vedete mo' i giovani che parlano! ripiccò capitan Dodero, toccato sul vivo. — Ci avete più anni di Matusalem, voi, e vi tingete per giunta i capelli.

— Chi è che lo dice?

— Il vostro parrucchiere, che lo racconta a chi vuole e a chi non vuole saperlo.

— Ma questa è la storia di Giacomo Duranti e non la vostra! — interruppe un'altro della brigata.

— Avete ragione, e comincio la mia. Bevo un bicchierino per far zavorra, e ci metto subito la prua addosso.




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