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Anton Giulio Barrili
Capitan Dodero

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II.

 

Avevo ventiquattr'anni, siccome vi ho detto, ed ero secondo sulla Stella del mare, una nave di cinquecento tonnellate, ch'era già una maraviglia di staza per quei tempi, e faceva molto onore al cantiere di Varazze da dove era uscita. La ci aveva poi una forma sparvierata che la rendeva atta al correre che nulla più, e quando andava col vento in fil di ruota con tutte le vela spiegate, coltellacci, coltellaccini e scopamari, e' bisognava vederla, a filare i suoi dieci nodi all'ora!

La Stella del mare mi richiama alla mente il povero capitano Fantasia, che l'amava molto, anche più di sua moglie. E non aveva po' poi tutto il torto, imperocchè sua moglie si curava di lui, com'io del Gran Turco; laddove essa, la Stella del mare, rispondeva a tutti i suoi comandi con una docilità che direi quasi affettuosa, ed egli poi la vagheggiava come si vagheggia una donna nel primo mese di matrimonio, l'amava tenerissimamente, dalla chiglia fino all'albero di velaccia di maestra, e dalla poppa fino all'asta del fiocco. Sono morti ambedue, il capitano Fantasia e la sua nave, l'uno poco discosto dall'altra e li ha sepelliti senza cerimonie il medesimo tratto di mare.

Il brav'uomo si chiamava Giovanni Del Bene, ma quasi nessuno lo conosceva per quel nome, e tutti lo chiamavano capitan Fantasia, tra perchè era uomo fantastico davvero, e perchè quella parola e' l'aveva di sovente sulle labbra. — Capitano, siete ammalato; bevete acqua di tiglio. — Fantasia! vi rispondeva lui — Capitano, io penso che questo vostro sia un negozio spallato. — Fantasia! Fantasia! — Insomma, Fantasia dappertutto, a proposito ed a sproposito, sempre Fantasia; e il nome gli era rimasto.

Io era già imbarcato da due anni sulla Stella del mare, quando partimmo per quel maledetto viaggio alla volta di Lima. Dopo novanta giorni di navigazione, tra buona e cattiva, giungemmo al capo Horn, che è, vi so dir io, un tristo capo, con quei suoi venti di ponente maestro, i quali ci si scatenarono addosso, portandoci via l'asta di fiocco e rompendoci l'albero di parrocchetto, proprio a filo della testa di moro. Con quella sorta di musica, potete figurarvi come fosse il mare, e che sbalzi ci facesse dare sulle onde rabbiose. Rimettere l'asta di fiocco e ghindare un altro albero di parrocchetto, come ci occorreva per andare innanzi, non si potè a nessun patto in quel trambusto di elementi; laonde ci mettemmo pazientemente alla cappa, colla gabbia interzaruolata e il trinchetto del pari, e scendemmo giù giù, per aver pace con Eolo, fino a settanta gradi di latitudine.

Per due giorni la durammo a quel modo; e certo, se la Stella del mare non fosse stata un osso duro da rodere, era quella la volta che s'inabissava nei gorghi. Ma che cosa le valse, poverina, vincer la prova allora, e far struggere di rabbia i pescicani, se pochi giorni di poi.... Basta, tiriamo innanzi. In que' due giorni di navigazione forzata verso l'Antartico, si rimediò ai guasti avvenuti nell'alberatura, mettendo una nuova asta di fiocco e ghindando l'albero di rispetto. Finalmente girammo il capo Horn, ma col vento in prua, più indiavolato che mai; di guisa che, o voltare verso terra, ed essere sbalestrati sulla costa, o voltare a ponente, e cercare di navigar di bolina, serrando il vento in sei quarti.

A quest'ultimo partito si attenne capitan Fantasia, e il negozio non andava poi tanto male. Che anzi il vento essendosi fatto più maneggevole, demmo tutte le vele che si poteva in quell'occasione, e giungemmo a fare forse otto miglia all'ora, senza andar troppo alla deriva. E già gli animi cominciavano a rasserenarsi, e chi non aveva punto dormito nei giorni antecedenti cercava di ricattarsi con qualche oretta di rancio; quando una notte, tra il rumoreggiar dei marosi e il fischiar del vento nel sartiame, si udì un gran colpo, e subito commuoversi, cigolar tutto il bastimento, dare uno sbalzo, come se avesse percosso contro uno scoglio.

Fa quello il primo pensiero che venne a me, in quella che saltavo esterreffatto dalla cuccetta, deve ero andato mezz'ora innanzi a riposarmi un tratto. Fui subito sulla tolda, dove il capitano, in mezzo alla confusione universale, stava tirando moccoli, e sacramentando che in quel luogo non ci potevano essere scogli, secche, epperò bisognava pensare a qualche altro malanno.

Il capitano aveva ragione. Sapete voi che diavolo fosse? Un carcame di nave bruciata, che le correnti avevano trasportato in quei paraggi, e che i marosi ci avevano scaraventato sulla prua.

Egli non è strano, raramente occorre, d'abbattersi in simili avanzi sull'alto mare, come non è difficile di trovare ossa di cadaveri su d'un antico campo di battaglia. I morti non tornano in polvere così presto, e la madre terra non può sgranocchiarsi le ossa alla lesta, come fa delle carni ond'erano rivestite. Non dissimilmente il mare; e' rispetta per alcun tempo le grandi ossa che ingoia nei suoi pasti feroci, e più facilmente della terra rivomita e fa pompa delle sue vittime. Guai a chi incespica su quell'avanzo di nave, quando la notte è buia; guai a chi vi si abbatte, quando il mare furibondo vi cangia in ariete l'ostacolo!

Il mio povero capitano era ancora da prua a maledire il carcame, allorquando il nostromo, da sotto coperta dov'era andato, si messe a gridare che il legno faceva acqua, per una squarciatura del fasciame esterno, prodotto dal cozzo. La era una brutta notizia, e sebbene fosse da prevedersi fin da quando s'era udito il gran colpo, e tutti in cuor nostro ne temessimo, ella ci scosse come l'annunzio di una inaspettata sciagura. E lo sgomento crebbe di molto, quando ci fummo accorti che la falla dava quindici pollici d'acqua all'ora nella sentina.

La nostra gente era rimasta di sasso; nessuno avea forza di muoversi; nessuno aveva voce per lamentarsi. Quanti pensieri dolorosi facevano ressa in quel punto nella mente di ognuno! Se quel malanno fosse accaduto nel Mediterraneo, in vicinanza di una costa ospitale, certo il danno, anco grave, non avrebbe messo tanto spavento negli animi, e la speranza ci avrebbe pure avuto il suo posto. Ma , in mezzo al Pacifico, così poco degno allora del suo nome, senza fiducia di poter rattenere l'invasione dell'onda, era una dolorosa catastrofe, e l'immagine della morte si librava già sui pennoni della Stella del mare.

Per scuotere dal loro torpore i marinai, si fe' udire la voce di capitan Fantasia, il quale era uomo da non perder la bussola mai, o da non lasciar scorgere ad alcuno che l'avesse perduta. Il suo grido «alle trombe» e qualche scrollatina data ai più restii, ruppero quell'incantesimo che avrebbe affrettato, nell'inerzia comune, il naufragio della nave. Alle trombe! alle trombe! Non ce n'erano che due a bordo; e queste due furono armate in un batter d'occhio. I corpi stanchi da cinque giorni d'insonnia, sudarono tutti a quell'opera affannosa; l'anima, ridotta allo stremo, pur s'industriava a rinnovare le forze.

Ma inutilmente. Per tre giorni si prolungò il lavoro: senonchè l'acqua, in cambio di scemare, aumentava, e scemava in quella vece la lena dei poveri marinai. Tutti intendevano che quello non era più un mezzo di salvezza, sibbene un prolungamento di agonia.

Solo il capitano teneva fermo, e gridava che si sarebbe vinta la prova; intanto lavorava anche lui come l'infimo mozzo, e sorrideva ai più volonterosi che l'imitavano; sorrideva sempre, ma gli fu rotto il sorriso, quando vide che i congegni delle trombe, pel grande adoperarsi, s'erano fiaccati; e quelli pur troppo, non c'era modo di raccomodarli.

La nostra gente mise un grido disperato, e rimase alcuni minuti inerte, con gli occhi sbarrati, a guardare gli inutili congegni. Perfino Apollo, un bel cane barbone che era sempre vissuto a bordo ed era il prediletto dell'equipaggio, partecipava allo stupore universale, abbaiando alle trombe, e guardando, coi suoi intelligenti occhioni, ora questo, ora quello dei marinai.

Capitan Fantasia s'era allontanato zufolando, segno ch'era molto inquieto, e zufolando entrò nella camera di poppa, dove io e il nostromo lo seguitammo per prendere consiglio.

— Orbene, che cosa facciamo, Dodero? — mi chiese egli, andandosi a sedere sulla carta nautica che stava spiegata sul tavolino.

— Eh, capitano, — risposi, — mi pare che non istaremo molto a far l'atto contrizione.

Fantasie! Fantasie! — gridò egli, e raccoltosi il capo tra le palme, si messe a pensare.

In questo mentre s'inoltrarono cinque o sei marinai fino all'uscio della camera. Il mormorar che facevano di fuori, dimostrava chiaramente che l'equipaggio aveva tenuto consiglio anch'esso, e che i primi venuti erano gli ambasciatori di tutti i loro compagni. L'imminenza del pericolo toglieva ogni rispetto di grado, e non si voleva aspettare nemmanco che il capitano pigliasse la sua deliberazione.

Capitano, — gridò uno d'essi affacciandosi all'uscio — che cosa stiamo a far qui? Non si gettano le imbarcazioni in mare?

Capitan Fantasia non s'accorse del tono poco rispettoso con cui erano pronunciate quelle parole, e non rispose nemmeno. Pensava alla sua prediletta nave, il povero capitano, e due lagrime gli tremavano sugli occhi; le prime, io credo, che gli uscissero fuori in sua vita.

— Che cosa dite, Vincenzo? — chiese egli finalmente, ritornando in stesso.

Dico, e tutti lo dicono, che bisogna mettere le imbarcazioni in mare.

— Ah, lo dicono tutti? Vogliono proprio abbandonarla, questa povera Stella del mare?

— E debbono dunque andare per occhio i poveri cristiani, per non lasciarla sola?

— No, per Dio santo! gridarono i marinai, che facevano ressa dietro il loro oratore. —Vogliamo le imbarcazioni in mare!

— E gettatele in mare le imbarcazioni! — rispose il capitano uscendo sulla tolda. Ma non così, a precipizio, che le fareste abboccare. Da bravi, un po' di calma; voi radunate le provvigioni, e voi lavorate a metter giù la lancia e i canotti.

— I canotti! — esclamò il nostromo. — Non ce n'è più che uno; l'altro se n'è andato fin dai primi colpi di mare.

— Ah, tanto meglio! ci avremo manco fatica a durare! — disse il capitano con un malinconico sorriso. — Voi, Dodero, comanderete il canotto. Nella lancia io farò stare dieci uomini; voi prenderete gli altri sette.

La bisogna urgeva. Lancia e canotto furono gettati in mare così presto com'io racconto. I marinai volevano andar tutti nella lancia, che pareva più forte, e ne nacque un parapiglia. Capitan Fantasia ebbe a sudare per chetarli, ma fortunatamente, com'ebbe chiamati per nome i dodici che dovevano scendere con lui, gli eletti fecero rispettare il comando. Tutti allora si diedero a calar provvigioni, e i dodici ne pigliarono tante, come se si preparassero ad un viaggio di parecchie settimane.

A provvedere il canotto pensai io, col nostromo. Un barile di biscotto, uno d'acqua e qualche misura d'acquavite, furono il viatico che prendemmo, e che doveva bastarci, parcamente diviso, per cinque o sei giorni. dimenticai il mio sestante, il compasso, la bussola e la mia carta di navigazione, che potevano riuscire tanto utili quanto l'acqua e il biscotto.

La confusione, la fretta con cui i dodici compagni del capitano si precipitarono nella lancia, furono ad un pelo di farla capovolgere.

Cattivo pronostico! — mi disse il nostromo all'orecchio.

Il povero Apollo, che aveva seguiti dell'occhio tutti gli apprestamenti dello sgombero, andava mugolando col muso ad uno sportello, e man mano rafforzando la sua voce quasi umana, perchè si badasse ad un tratto anche a lui e lo si calasse nella lancia:

Pigliate il cane! — gridò capitan Fantasia.

Ma i suoi uomini fecero orecchie da mercante. L'istinto della conservazione rende gli uomini crudeli.

— E che? borbottava uno ch'era l'ultimo a calarsi nella lancia. — Ci piglieremmo anche quest'altra bocca, per morire di fame noi altri?

L'egoismo di quella gente mi fe' nausea, e credo d'aver detto, nello sdegno, qualche parolaccia che trovò eco nel cuore de' miei compagni, i quali erano ancora un po' in collera coi dodici fortunati della lancia.

— Non temete, capitano! — gridai allora, forte della approvazione de' miei. — Apollo, lo prenderemo noi.

— Ma non starà nel canotto.

—    Oh, ci ristringeremo per farlo stare. Povero Apollo, aspetta, vengo a pigliarti.

Apollo era un cane a cui non mancava che la parola. Egli aveva capito quel dialogo che si faceva per lui, e mi rispose mugolando e scodinzolando per modo da strapparmi le lagrime. Lo presi con me e lo calai nel canotto, dov'egli, accorto come era, per non rubare lo spazio alla manovra de' suoi amici pietosi, andò a rannicchiarsi sotto la panca di poppa, col muso tra le gambe a me, che stava alla barra del timone.

Il mare era fortemente agitato; lunghi cavalloni verdastri arricciavano le creste spumeggianti sopra dia noi, a guisa di fauci spalancate per ingoiarci, e venivano a dar di traverso sulle imbarcazioni. A noi del canotto ci bisognava fare di grandissimi sforzi per dar loro la prua, e così col vento contrario non potevamo nemmanco pensare a servirci della vela.

La lancia, fatta più tarda pel gran peso degli uomini e delle provvigioni, fu l'ultima a staccarsi dalla nave. Io diedi un'occhiata a capitano Fantasia, e vidi che guardava malinconicamente il suo legno. La Stella del mare, senza vele, senza uomini, era triste a vedersi come una casa vuota. Già mezza sommersa, senza una mano che dirigesse il timone, errava in balia dei marosi, barcollava come un uomo sopraffatto dal vino.

Ci allontanammo nella direzione di ponente maestro, per dar meno che si potesse il fianco ai flutti. L'anima nostra era piena d'angoscia. Quella da noi tenuta era l'unica via che ci fosse consentita dalla tempesta; ma quella via non ci offriva possibilità di approdo, se non a tale sterminata distanza dove non ci avrebbero condotto le forze scemate, la pochezza delle provvigioni, la piccolezza dello schifo. Io non avevo nel cuore che un fil di speranza, e con me, credo, i miei compagni: che il vento si chetasse, e noi potessimo volgere la prora a levante.

La notte giunse, e nella notte il vento, in cambio di smettere, rinfrescò, e il canotto errò sui flutti, imbarcando molt'acqua che si durò lunga fatica ad aggottare. Ma assai più triste fu la mattina vegnente, allorquando il nostromo, dopo aver ben guardato d'ogni parte sul mare, esclamò:

— L'avevo detto io!

— Che cosa? — gridai.

— Che gli era un brutto pronostico, quello della lancia. Legno, uomini e provvigioni, se ne sono andati per occhio.

— Ah, che dite, mai? Ma sì veramente, non si vede più nulla. Povera gente!

— Si povera gente! Avevano tanta furia di andar nella lancia, e l'hanno avuta, la lancia! E il capitano Fantasia! Lui almeno sarà contento, che è morto vicino alla sua nave.... Capitano, con vostra licenza, noi diremo un De profundis per quelle povere anime.

I marinai, come sapete, sono religiosissimi in mare. Uno scrittore antico ha detto che i primi Dei furono inventati dalla paura, e mi pare che, salvo il rispetto dovuto alla divinità, in cui credo fermamente, ma che nessuno ha veduta e nessuno conosce, egli avesse ragione. In alto mare la religione è superstiziosa; tutti i santi e tutte le madonne hanno il loro culto secondo il paese dei naviganti; ma se tutti i santuarii dovessero avere i voti che si promettono loro nei giorni di burrasca, io credo che bisognerebbe scoprire ancora una mezza dozzina di miniere d'oro, e una dozzina d'argento. Tornando al De profundis, vi dirò che fu quella una scena la quale non dimenticherò fino a tanto che io viva. Quella prece pei nostri disgraziati compagni fu mormorata con un severo raccoglimento, a cui aggiungeva gravità il nostro pericoloso stato. Il vento che fischiava, il mare che ruggiva, parevano dirci: «pregate, pregate! Nessuno pregherà per le anime vostre domattina, quando avrete gettato il vostro ultimo scandaglio anche voi».

— Da bravi, figliuoli! dissi io, quand'ebbero finito. — Qui ci vuol animo; sperare in Dio e aiutarci colle nostre forze. Questo vento non ha da durare poi sempre, e se possiamo giungere sulla latitudine di Valparaiso, che non mi pare abbia ad essere molto lontana, troveremo le calme, e qualche bastimento che Iddio manderà sul nostro cammino. —

Ma sì, altro che calme! Per tre giorni alla fila navigammo a quel modo. Gli uomini erano stanchi, e si dovette finalmente issare la vela, andando alla deriva verso ponente. E di vela sull'orizzonte non si vedeva pur l'ombra. A que' tempi la navigazione del Pacifico era molto scarsa, e quei paraggi erano quasi sempre deserti. Avevamo un bel guardare e specolare per tutti i versi; non si vedeva che un'infinita distesa di marosi, tinti d'un verde cupo, sui quali il cielo nerastro incombeva come una cappa di piombo.

Una strana allucinazione colse i marinai nella quarta notte del tristissimo viaggio. Il nostromo aveva veduto dei segnali, e metteva i compagni sull'avviso. Io non aveva veduto nulla, ma a furia di sentirlo a dire e di veder accennare in questa o in quella direzione, parve anco a me di scorgere ciò che gli altri vedevano. Si notava dunque la vicinanza di un bastimento; si udiva il fischiar del vento nel sartiame, lo scuotersi delle vele, il cigolare dell'alberatura. Tutti ci diemmo a gridare aiuto, con quanto fiato avevamo in corpo, e ci parve di udir molte voci che rispondevano alle nostre grida. Fu un momento d'angosciosa aspettazione. Ma passarono i minuti, passò un'ora, e non ci venne soccorso. I segnali, le voci, si dispersero verso ostro-scirocco, nella direzione del vento, e noi ci chiedemmo allora se non fossimo stati in balìa di un bruttissimo sogno.

— Sì, pur troppo! — esclamò il nostromo, esterrefatto. — Quello che è passato sulla nostra destra è il vascello fantasma, quella nave maledetta che gira forse da dugento anni sulle acque del Pacifico. —

Un brivido di paura corse per l'ossa di tutti, a quelle parole, ed io udii battere i denti a parecchi che mi erano più vicini da poppa.

— Certo! gli è stato il vascello fantasma; — disse uno con voce tremebonda. — Non avete udito Apollo, come urlava, quando il legno maledetto ci passò da vicino?

— La va male! la va male! borbottò il nostromo, che pensava all'ultima parte della leggenda.

Diffatti, se nol sapeste, vi dirò esser voce tra i marinai che l'apparizione del vascello fantasma, o vascello olandese, come altri lo chiamano, sia segno di disgrazia per qualcheduno dell'equipaggio che s'abbatte in lui, nel corso della sua navigazione.




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