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Anton Giulio Barrili Capitan Dodero IntraText CT - Lettura del testo |
III.
Lascio pensare a voi con che animo risalutammo il giorno, dopo quella notte di malaugurio. Si lavorava istintivamente, senza una parola che ci incuorasse a vicenda, senz'uno di que' sorrisi che rallegrano la fatica; e se non fosse occorso di accennare ora questa, ora quella manovra, per la direzione dello schifo, certo saremmo rimasti mutoli affatto.
Le nostre provvigioni erano finite; non ci restava che una razione di biscotto un po' d'acqua e qualche goccia d'acquavite, la quale io aveva distribuita con molta parsimonia, ben sapendo che sarebbe stata il nostro ultimo sollievo, quando l'acqua e il biscotto fossero mancati. E di tal guisa, veduto il fondo del barile, ritardammo il nostro misero pasto fino alla sera, perchè quello scarso nutrimento avesse a servirci anche pel giorno di poi, nel quale non si poteva mangiare più nulla.
Toccarono ad ognuno tre oncia di biscotto inzuppato dall'acqua salsa, e quando fu ora di mangiare, lo si fece così lentamente che si sarebbe detto pensassimo tutti, dentro di noi medesimi, a farlo durare di più. Quella invero era la nostra ultima razione di pane, e mandata giù quella, non c'era più altro per noi.
Ad onore di tutti i miei compagni, dirò che, fino a tanto ci fu acqua e biscotto, la più larga porzione fu quella del povero Apollo. Costoro sentivano certamente nel profondo del cuore il gusto ineffabile che c'è ad essere buoni, anche a danno di noi medesimi. Il barbone, dal canto suo, sentiva la gratitudine, e ce la dimostrava con certe guardate malinconiche le quali facevano proprio tenerezza.
Intanto il vento, quasi per deriderci della nostra impotenza a tirarla innanzi più oltre, s'era un tal po' rabbonito; di guisa che, sempre di bolina e andando verso ponente, si faceva un po' di strada senza troppa fatica. Ma che giovava allora quel miglioramento di cose? Ci liberava forse dai patimenti del giorno di poi? Noi avevamo in corpo l'orribile certezza di non trovar terra innanzi di morir di fame; ora, il pensiero della fame del domani, posto insieme collo scarso nutrimento di quel giorno, ci toglieva addirittura le forze.
Per me, ve lo giuro, affrettai co' voti il domani, e un altro giorno ancora, purchè fosse finita da senno. Se colui che può tutto mi avesse detto: «vuoi essere in un batter d'occhio a posdomani, anche a patto di essere affogato?» avrei risposto: qua la mano, e negozio fatto!
La quinta notte passò, e dopo la quinta notte spuntò l'alba del sesto giorno di quella navigazione disperata. Il canotto faceva lungo cammino, ma il nostro stomaco era vuoto. I primi raggi dell'aurora rischiararono otto volti che si guardavano scambievolmente, e si leggevano a vicenda un orribile pensiero negli occhi. Io vi giuro che in quel momento non tremai per me, sibbene per Apollo; tanto vero che le mani mi corsero sotto la panca, dov'ero seduto, per accarezzarlo; ed egli mi lambì la mano mandando un guaito.
Ma in quel momento, proprio in quel momento, il nostromo che stava specolando il mare, si volse a me con piglio e gesti da spiritato e gridò:
— Capitano! capitano! Guardate un poco laggiù verso ponente-libeccio.
— Orbene?... — chiesi io, e i marinai tutti con me.
— Non vedete qualche cosa?
— Sì, vedo una nuvola allungata sull'ultimo lembo dell'orizzonte.
— Che! La è troppo bassa, per essere, come voi dite, una nuvola. Se fosse una nuvola, il cielo non sarebbe così limpido sopra di lei.
— Che vorreste voi dunque che fosse?
E così dicendo, mi tremava il cuore. I marinai si erano tutti alzati in piedi, e guardavano ansiosamente là dove accennava il dito del vigile nostromo.
— Io non voglio nulla; — rispose egli. — Io dico soltanto che quella laggiù è terra!
— Sì, perdiana! — gridò un marinaio — non può essere altro che terra.
— Amici, — dissi io — l'altra sera abbiamo veduto, o abbiamo creduto di vedere, un bastimento sulla nostra diritta. Oggi crediamo di veder terra sulla nostra sinistra.
— No, no, la è terra da senno! ripiccò il nostromo. — Guardate che lista azzurra ella segna sull'orizzonte, e poi dite se può essere una nuvola. —
I marinai si messero a batter le palme, come tanti bambini; ma io, lo confesso, non potei partecipare alla loro allegrezza. Nella mia carta, che sollecitamente apersi, non vidi segno d'isole in quei paraggi, e quella lista azzurra, che si scorgeva a ponente-libeccio, mi aveva l'aria di quella famosa isola di San Brandano che gli abitanti delle Canarie vedevano, per effetto di miraggio, spuntare sull'estremo confine dall'orizzonte, dai flutti dell'Atlantico.
Ma non potei più dubitare de' miei occhi; sibbene ebbi a dubitare, e fortemente, della mia carta di navigazione, allorquando fu giorno chiaro. La lista azzurra si andava facendo, più ricisa, man mano che si dileguavano i vapori del mattino, e due ore più tardi non c'era più dubbio; si vedeva proprio un'isola, sormontata da un picco, quasi uguale a quello di Teneriffa.
Non parendomi che la vela bastasse, feci adattare i remi sugli scalmi e a voga arrancata ci volgemmo sull'isola benedetta. In quel momento di furia non si curavano più i marosi, che pure ci entravano a bordo frequenti, nè la fame, nè la sete. Io, dopo alcune ore di quel lavoro affannoso, distribuii l'ultima razione d'acquavite, che mi parve giungesse molto opportuna.
L'isola bella (così invero ci sembrò allora) parea venirci incontro sulle acque, e crescere man mano, di forme. Già il suo picco e le sue creste dentate risaltavano nel sereno del cielo, e le digradanti colline apparivano vestite di un bel verde, segno di larga vegetazione tropicale.
Ma ohimè, quanto l'aspetto era bello, altrettanto era difficile l'approdo. Giunto il canotto nel pomeriggio a poca distanza da quella che, a prima giunta, ci pareva una spiaggia, ci avvedemmo che la era una lunga fila di punte di scogli, quali a fior d'acqua, quali sporgenti; dove il mare andava con impeto a frangersi, e dove il nostro povero schifo sarebbe stato certamente sbalestrato dai marosi, se andavamo più innanzi.
Ma come fare? A girare i frangenti non c'era nemmanco da pensare, poichè le punte loro, e i larghi sprazzi di spuma che saltavano in aria, segnavano una lunga striscia, la quale non potevamo scorgere dove andasse a finire. Fu dunque deliberato di accostarci prudentemente, ammainando la vela, e stando attenti a dare indietro coi remi quando fosse il bisogno.
Avevamo fatto i conti senza la corrente, che era fortissima in quel luogo. Anche il vento si metteva di balla; di guisa che la vigoria della braccia, artifizialmente sostenuta un tratto da poche goccie d'acquavite, si logorò a breve andare, e il canotto andò con rapido abbrivo dove l'onda voleva.
I marosi si arricciavano in bianche spire e rompevano con orribile frastuono nella scogliera, a poche braccia discosta da noi. Gridai alla mia gente di stare all'erta; agguantai il povero Apollo pel collare, e lo trassi di sotto alla panca; quindi gettai il mio sestante e gli altri arnesi nautici nel barile del biscotto, che pensavo d'afferrare per tenerlo fuor d'acqua. Ma non ebbi tempo a quest'ultimo negozio. Una larga e poderosa ondata sollevava il canotto e lo mandava a rompere sulla scogliera, dove s'arrovesciò, con mezza prora fuor d'acqua.
Qui, fosse il caso che m'aiutasse, fosse il mio Apollo che avesse cura di me, fatto si è che io non diedi pascolo ai pesci colle mie povere carni, e quando rinvenni dal tramortimento dello sbalzo, mi trovai mezzo seduto, mezzo disteso nella cavità formata da due scogli, sui quali il flutto veniva assiduo ad inaffiare certe erbe verdognole, che li rendevano sdruccioli ed assai poco piacevoli a toccarsi. Questa considerazione io non feci allora, per fermo; che anzi il mio primo pensiero, appena riaperti gli occhi alla luce, fu quello di aggrapparmi più forte agli irti bracciuoli del mio inusitato sedile.
Il cane mi stava daccanto, ed abbaiava fortemente per tutti i versi, non ismettendo i latrati che per chinare il muso su me e mugolare affettuosamente e lambirmi le scalfiture sanguinanti delle braccia e del petto, attraverso la camicia fatta in brandelli.
Il mio primo pensiero fu un atto d'immensa gratitudine a quel povero cane, che mi ricambiava così largamente del benefizio fatto a lui pochi giorni innanzi. Poscia provai ad alzarmi, e mi accorsi con gran piacere che il mio scafo non aveva patito danni nell'ossatura, e nel fasciame esterno le non erano state che ammaccature.
Ma ohimè, lo alzarmi in piedi mi ricondusse col pensiero ai miei compagni di sventura, e mi fe' scorgere in un batter d'occhi come fosse grave la perdita. Dei sette marinai che erano con me nel canotto, soli due, stavano indolenziti e pesti a riposare sulla scogliera; un terzo lottava coi marosi che lo avvicinavano ad ogni tratto ai frangenti, e sempre lo respingevano indietro. A costui volsi le mie cure, ed ebbi la ventura di afferrarlo per un braccio, e trarlo in salvo con me. Ma gli altri quattro? Essi erano scomparsi, quei pazienti compagni delle nostre fatiche, dei nostri pericoli, e tra essi era scomparso il nostromo, quello del De profundis e dei tristi pronostici, cavati dal vascello fantasma.
La trista fine di capitan Fantasia e degli uomini che erano con esso lui nella lancia, mi aveva già inumidito le ciglia; ma avevo dovuto rattenermi, per dare esempio di fortezza ai marinai. Laggiù sulla scogliera, colpito da quella nuova disgrazia, piansi amaramente, piansi ad un tempo per gli ultimi e poi primi inabissati nel mare; piansi finalmente pei sopravvissuti. Del forte equipaggio della Stella del mare non rimanevano che quattro corpi affraliti, stremati dalla fame, perduti su d'uno scoglio del grande Oceano. Chi era più da compiangere in quel momento? i morti o noi?
Il sole era presso al tramonto. Pensando che non era da mettere indugio, mi feci a guardare attentamente la scogliera sulla quale eravamo appollaiati, e notai com'ella corresse parallela alla spiaggia dell'isola, da cui era forse un miglio lontana. Il lido che io scorgeva, e le colline dell'isola, mi offrivano sembianza di un'oasi, di un paradiso terrestre; laddove la scogliera, che in molti punti era interrotta dal mare, appariva brulla come la palma della mano. Pensai allora che non era prudente consiglio rimanere colà, dove non c'era luogo da riposarci la notte, dove non potevamo essere scorti da nessuno, dato il caso che l'isola fosse popolata, e dove finalmente non c'era nè acqua, nè cibo. Andarcene dunque a terra; questo fu il mio disegno, e poichè l'ebbi formato, pensai che bisognava mandarlo subito ad affetto. Stremati eravamo, non morti; e meglio, assai meglio valeva, anzichè sulla scogliera, andare a morire su quella bella spiaggia, sul margine di qualche fontana, che certo avremmo trovata nel fitto di quegli alberi che vedevamo da lunge.
Piacque il divisamento ai miei compagni di naufragio; laonde, mettendo i fatti di costa alle parole, ci spogliammo alla lesta, e fatto un batuffolo delle nostre vestimenta, che del resto s'erano assottigliate di molto in quella marittima odissea, ci buttammo a nuoto verso la costa. Io aveva raccapezzato il barile che galleggiava sotto i miei occhi, portando nel grembo il mio sestante, il compasso, la bussola e la mia carta nautica; e quel tesoro era passato con me dall'altra parte dei frangenti.
Vedutomi in balia delle onde, Apollo non fu lento a seguirmi, ed anzi fu il primo a giungere sulla spiaggia deserta, dove si fermò ad accoglierci con manifesti segni di gioia impaziente. Colà ci sdraiammo subito sull'arena, non so se lieti o mesti, ma intenti a guardare con occhi smarriti quel brutto mare che ci aveva così malmenati, e ridotti a quel numero che sapete.
L'isola sulla quale il destino ci aveva condotti a battere il capo, era bella davvero. Rivestita d'un bel verde nella zona più bassa, ella si ristringeva ad un cono altissimo, che andava a nascondere nelle nubi il suo vertice, cratere di un vulcano estinto, com'era agevole immaginare. Tutti i capricci della natura si notavano in quell'isola; dal brullo della vetta scoscesa si scendeva per gradi sino al folto della più sfoggiata vegetazione.
Dove noi eravamo capitati si apriva appunto una valle, poco spaziosa ma leggiadra, e tutta coperta di piante, tra le quali notammo una specie di giunco molto appariscente, la palma segovia, il cavolo palmista e l'albero del cocco. Fu questo che ci diede il nutrimento, del quale avevamo tanto bisogno, e fu questo che ci fece trovare una bella sorgente d'acqua, dove ci lavammo per bene e ci dissetammo a nostro bell'agio, comodamente sdraiati sull'erba. Le anime nostre non avevano per fermo ragioni di contentezza; ma quello non era momento da pensare all'anima. Il corpo era felice, bestialmente felice, e ce n'era d'avanzo.
Per non essere costretto a rompere il filo del mio racconto più tardi, vi dirò che quest'isola è a 40 gradi di latitudine australe, e 116 di longitudine occidentale dal meridiano di Parigi; misura che io non ardisco asserire esattissima, essendo essa il frutto delle mie osservazioni fatte, a dir vero, senza quella tranquillità d'animo che è necessaria in simili casi. Quest'isola poi è la più orientale di sette, le quali formano un gruppo a cui posi il nome dei sette peccati mortali. Essa è chiamata dai selvaggi Ocuenacati; ed io non ho badato a metterle un nome più cristiano, perchè non mi sembrò che lo meritasse punto. Neppure ho voluto prenderne possesso in nome di S. M. il re d'Italia, a que' tempi re di Sardegna, per non tirare il mio governo in un brutto negozio, dove avrebbe avuto a piatire cogli inglesi, e Dio sa con quanti altri popoli che comandano più di noi sulla faccia della terra. Sono sette isole senza padrone; se le pigli chi vuole.
Ora torno al racconto lasciato interrotto sotto l'albero di cocco, sul margine della sorgente. Quella doppia trovata era proprio una benedizione del cielo. Noi mangiammo, bevemmo, ci stringemmo affettuosamente le mani, come uomini che erano scampati da morte e quasi non ardivano credere alla loro buona ventura; poscia, pensando che l'isola era deserta e che non saremmo stati turbati da anima viva, appoggiammo le braccia sul prato, e il viso sulle braccia, per pigliarci qualche oretta di sonno.
Dopo tanti giorni di inquietezza e di sciagure, ne avevamo proprio bisogno. E invero non passarono dieci minuti che già dormivamo della grossa. Io, per la mia parte, sognai che, l'isola essendo deserta, noi quattro avevamo dovuto popolarla, con donne pigliate non so dove, nè come; ma c'era una tale, che ora non mette conto nominarvi, e la felicità del sogno non mi consentiva di chiedere in che modo l'avessi tratta colà, e fatta regina della colonia, a malgrado di tutti gli impedimenti canonici e di tutte le leggi maledette d'Europa.
Bel sogno che io vorrei fare anche adesso, ma che non vorrei mi fosse interrotto, come allora, dai latrati di un cane, il quale, desto coll'alba, vedeva le circostanti colline popolarsi di orribili ceffi color di rame, che stavano spiando il nostro sonno, per calarci addosso improvvisi.