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Anton Giulio Barrili
Capitan Dodero

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IV.

 

Capirete che fu un brutto risveglio per tutti. Era giorno chiaro; segno, per chi avesse avuto agio di notarlo, che avevamo dormito come ghiri. I ceffi color di rame, appena ci videro in piedi e niente affatto rallegrati dalla loro presenza, sbucarono dal fitto delle piante, mettendo grida confuse. Egli mi parve che volessero in tal modo aizzarsi alla pugna, e già me li sentivo addosso con una gragnuola di mazzate; ma in quella vece, usciti sul confine del bosco, si fermarono da capo, come se facessero consiglio intorno al comandante.

Erano forse un centinaio; alti della persona, di membra proporzionate e robuste, di colore traente al rame, e dipinti in strane guise di rosso e di turchiniccio, nel viso, nel petto e lunghesso le coscia. Le loro armi erano lancie di legno, e certe mazze grossolanamente intagliate. Vesti ed ornamenti non avevano, salvo quattro o cinque penne variopinte, raccomandate a un legaccio, nel ciuffo che formavano i capegli al sommo del cranio.

Uno solo di costoro portava intorno alle reni una scampolo di tessuto a colori, e due braccialetti d'oro nella parte superiore delle braccia. Certi segni turchini che volevano raffigurare un volto umano contornato da molti raggi, gli ornavano il largo torace. Era quella l'immagine del sole, e l'uomo così dipinto era il re.

Capite mo'? Un re che si scomodava per noi scalzacani, ignota gente venuta dal mare. Qui da noi, per accogliere vagabondi siffatti, i re manderebbero i loro ministri; i ministri darebbero l'incarico ad un prefetto, e questi, la mercè di comandi passati per tutte le filiere della gerarchia, spedirebbe in ricognizione un maresciallo di carabinieri. Laggiù a Ocuenacati non c'era tanta complicazione di uffizi; il re comandava l'esercito e la pattuglia, amministrava la giustizia e guardava i passaporti, apriva le Camere e chiudeva le prigioni lavorava come un bue ed aveva ben ragione a mangiar come sedici.

Noi quattro eravamo rimasti inchiodati al nostro posto, senza nemmanco sapere dove avessimo le braccia. Siamo spacciati! pensai tra me; questa gente fa di noi cento bocconi!

Essi intanto avevano incominciato ad urlare una certa canzone, che aveva ad essere la loro Marsigliese; ma io non venni a capo d'intenderne la melodia. I contorcimenti degli occhi e delle labbra dimostravano che il metodo di canto rassomigliava al nostro; ma voi potete credere agevolmente che in quel brutto momento io non badassi a raffronti. Soltanto notai che, più si facevano innanzi a cantare, più inferocivano, scuotendo in aria le mazze e palleggiando le lancie contro di noi.

Capitano! — mi susurrò tremante uno de' miei; — Che cosa si fa? Ci faremo ammazzare senza dire una parola?

— No, no! aspettate; mi viene un pensiero... —

E così dicendo mi mossi, andando verso i selvaggi, che si fecero a guardarmi con aria curiosa. I miei atti ebbero certamente a parer loro così degni d'attenzione, che, per mettercela tutta quanta, tralasciarono perfino di cantare.

Giunto a mezza strada, feci un profondo inchino; quindi voltai a diritta verso un palmizio, dal quale strappai un ramo, che innalzai quanto più mi venne fatto sopra la testa, in quella che ripigliavo la strada incontro ai nemici.

Eglino intesero l'atto, pacifico, e tra le crespe dei loro volti dipinti mi parve di cogliere un sorriso. L'uomo del sole fiammeggiante e dei braccialetti d'oro, si fece allora otto o dieci passi innanzi, e appoggiatosi sulla lancia, di cui piantò fieramente il calcio in terra, incominciò a parlarmi.

Io a quel tempo conoscevo tre lingue d'Europa, vo' dire l'italiano, il francese e l'inglese, e non avevo ancora al tutto disimparato il latino delle scuole; ma la lingua del re che m'interrogava non era nessuna di quelle. Io cionondimeno giunsi a capire che egli mi domandava i passaporti.

Ma sì, pigliali! Io non trovavo parole da rispondere, le quali potessero essere capite da lui. Nella pantomima non ero e non sono mai stato maestro; quel po' ch'io ne vedo nei teatri mi fa pigliar sonno. Tuttavia mi provai a gestire, peggio d'un antico telegrafo, e a narrargli co' miei segni che venivamo da Genova, una bellissima città del Mediterraneo dove i bastimenti nascono dalle spiaggie; che il nostro legno s'era sprofondato nelle onde, e i nostri compagni del pari; che domandavamo ospitalità, pagando il vitto e l'alloggiamento col lavoro delle nostre braccia, imperciocchè si stava male a quattrini. Insomma, che vi dirò? raccontai un mondo di cose, ma feci mala prova col mio augusto ascoltatore, il quale mi rispose con frequenti atti d'impazienza, ripetendo da ultimo parecchie volte, con accento di sdegno, la parola tucrà.

Tucrà! tucrà! Nella lingua di Ocuenacati questo vocabolo, come seppi di poi, è sinonimo d'imbecille.

Io, per altro, non ebbi mestieri d'aspettare, per intendere che questa parola ripetuta stizzosamente dal re, voleva dire alcunchè di consimile.

Per andargli a' versi, chiamai i compagni, sperando che i loro gesti lo contentassero di vantaggio; ma fu la medesima storia. Il terribile tucrà risuonava più forte, più frequente che mai, e i signori selvaggi facevano le più grasse risa del mondo. Io mi andavo pettinando la barba colle dita, come per cercarvi dentro una nuova pensata, uno spediente da cavarci d'impaccio, ma non trovavo un bel nulla.

Qualcosa invece trovarono i selvaggi. La mia barba stuzzicò la curiosità loro e quella del re in modo particolare. Avevo la barba lunga come ora, ma a quei tempi era d'un biondo chiaro che pareva di lino non ancora filato; e que' naturali, che avevano il mento ignudo, o pochi peli neri e stecchiti, facevano le meraviglie della mia caila lapi, o barba di sole, com'essi la chiamarono. Il re mi onorò grandemente, tirandola più volte, e sollevandone i lunghi peli, per guardar fino alla radice se fosse vera o posticcia, e come si fu persuaso che la era saldata al viso, si volse con un lungo discorso, a chiarire questo negozio ai suoi amatissimi sudditi.

Anche il cane ebbe la sua parte nell'ammirazione della brigata. Punnunqui! esclamavano, il che vuol dire bestia bianca; ma Apollo, a sentirsi chiamare punnunqui, ringhiava; laonde io mi feci a chetarlo, chiamandolo pel suo vero nome; e il re, veduto come la mia parola rabbonisse il barbone, si degnò di pronunziare più volte quel mitologico nome. Quindi, dati i suoi comandi al drappello, accennò a noi di seguirlo verso la montagna. Egli andava solo innanzi, e noi dietro, a rispettosa distanza; i suoi guerrieri chiudevano il corteggio.

Così c'innoltravamo a capo chino, ricambiandoci sommessamente i nostri pensieri, che, non erano punto lieti. «Dove andiamo noi? Che vita, o che morte sarà la nostra? Andremo a far da pietanza a questi ceffi di rame, o saremo costretti ad invecchiare in questa isola, e perpetuarvi una nuova stirpe di uomini, bianchi, bruni? E le nostre case, i congiunti, gli amiciImmaginate voi il brutto quadro che avevamo davanti agli occhi! Se ci davano la vita, come saremmo usciti di la? Qual Cook, qual Bougainville, sarebbe venuto a scoprire l'arcipelago dei Sette peccati mortali?

Baie! pensai io finalmente, a guisa d'epilogo. Avvenga che può: intanto non ci si rimedia cogli struggimenti del cuore. E mi diedi a contemplare il re, che andava speditamente su per la stradicciuola a mala pena segnata tra grandi alberi d'ogni generazione. Egli era assai prestante di membra, e di portamento leggiero. Un altro sole sul dorso gli rispondeva a quello che già gli avevo veduto sul petto, e guardandolo per bene mi accorsi che non era dipinto, sibbene trapuntato nella pelle, come i selvaggi adoperano la mercè di quella operazione che si chiama tatuaggio.

Dopo due ore di strada, faticosa anzi che no, si giunse ad un altipiano, donde si poteva scorgere un'ampia distesa di terra, solcata per lo mezzo da un bel fiume, il quale se n'andava al mare per una via quasi opposta a quella che noi facevamo! Certo, se ventiquattr'ore prima il nostro canotto fosse andato più verso ponente, avremmo cansato i frangenti, e approdato alla foce di quel fiume, senza perdita d'uomini. Ma del senno di poi son piene le fosse!

Con tutto che i nostri pensieri non fossero lieti, e l'umore anche meno, noi ci formammo un tratto a contemplare quella bellissima scena. La valle era grande, e il fiume segnava una tortuosa striscia d'argento in mezzo a quell'ampio tappeto di verzura. Sulla sinistra riva del fiume, troppo lunge da noi, si scorgeva un ammasso di edifizii in forma d'alveari, che erano, già lo avrete indovinato, le abitazioni dei nostri compagni di viaggio.

Caila lapi! — gridò il re volgendosi a me.

Erano quelle le parole adoperate per accennare la mia barba, e il selvaggio monarca mi battezzava addirittura per Barba di sole; cosa che io intesi più tardi, quando seppi il significato dei vocaboli.

Comandi, Vostra Maestà! — risposi sollecito, affrettando il passo fino a lui.

Capituta!

Capi... — esclamai io trasognato.

Capituta! — e così dicendo il re mi additava quell'ammasso di case fatte a cupola.

— Ah, Capituta! ora capisco; — e feci il gesto del mangiare e del dormire.

Fu il primo tentativo mimico che m'andasse bene. Il re, com'io in quel punto, non vedeva altro ufficio, altro cómpito nella città, che il mangiare e il dormire; però non gli venne in mente di gridarmi tucrà.

Un'ora dopo, eravamo alle porte, o per dire più chiaramente, alle prime capanne di Capituta, accolti da frotte di ragazzi che gridavano, e di donne d'ogni età; tutta gente vestita come i guerrieri che ci scortavano. Non vadano sartori a Capituta; e' fallirebbero in otto giorni.

Le signore donne ci guardavano con molta curiosità: altra prova che vengono tutte da una stessa madre. io seppi tenermi dallo sbirciarle passando, imperocchè erano belle, in fede mia, così per le forme, come per la carnagione, a gran pezza più bianca di quella dei loro uomini. Un segno manifesto che sapevano d'esser belle mi parve questo, che elleno non avevano le membra tatuate, altrimenti punzecchiate, si sformavano il corpo colle dipinture. Notai solo un po' di rosso, del quale talune si imbellettavano le guancie ma questa usanza trova riscontro e scusa in Europa. Poche tra esse (ed erano le donne d'alto affare) portavano ai fianchi una sciarpa, fatta coi filamenti del lino setoso, tinta di azzurro o di vermiglio; ma la più parte non avevano, per coprire la loro innocente nudità, che una filza di denti di pesce cane, attorcigliata al collo e superbamente portata come un vezzo di perle.

La moltitudine ci seguitò fino in mezzo al villaggio, dov'era un aggregato di capanne più alte, ricinte da un largo fosso, nel quale entrava una derivazione del fiume. Quella fortezza, che da lunge pareva confondersi con tutte le altre case di Capituta, era la dimora del re e della sua corte; vero paradiso terrestre, consolato di verde e di frescura, così per gli alberi d'ogni specie che innalzavano i loro ombrelli sulle case, come per le acque che gorgogliavano tutto intorno a quell'isola artefatta e facevano crescere rigogliosi sul margine i più bei fiori che mai sognasse perfetto giardiniere nelle sue notti più liete.

Passammo, dietro al re, su due rozze tavole che la facevano da ponte levatoio, e fummo fatti entrare in una vasta camera, che doveva esser quella del consiglio, poichè non aveva altri arredi fuorchè una dozzina di stuoie disposte in giro presso le pareti. Sul più sfoggiato di questi arnesi andò a sedersi, o, per dir meglio, a sdraiarsi il re, mentre una frotta di flautisti invisibili faceva dietro il graticciato della capanna un orribile strazio delle nostre povere orecchie.

Due selvaggi, che erano i più ragguardevoli personaggi dopo quell'unto dal Signore (unto con olio di cocco, s'intende), andarono a sederglisi accanto; poi, man mano, ne vennero altri e fecero lo stesso per ordine di gerarchia. E noi ritti come pali, dinanzi al trono; ma il re ebbe compassione delle nostre gambe, e ci fe' segno di sedere. Apollo, democratica bestia, s'era già accovacciato senza tante cerimonie, e credo anzi prima del monarca.

Che facciamo ora? pensai tra me. Ah, ecco! Il re parla al suo ministro e il ministro si alza e va a far l'imbasciata, senza bisogno d'uscire. Ma che diamine sarà ella, questa imbasciata?

Passarono forse quindici minuti; già il re si spazientava, e già era per mandar fuori il suo secondo ministro, allorquando il primo si fece vedere, presentando al cospetto di Sua Maestà il più bizzarro personaggio del mondo.

Figuratevi un coso mingherlino, che pareva andasse sui trampoli e che portava le braccia inarcate a mo' di manichi d'anfora; che faceva pompa di una gran zazzera anticamente bionda e diventata rossiccia a furia di manteche, colle quali voleva dissimulare gli insulti degli anni; che aveva le guancie mal coperte da due smilze vèntole del medesimo colore, e faceva continuamente il bocchino, come uno di quei bellimbusti che sono dipinti sui ventagli delle dame. Era bianco di carnagione; insomma un europeo, come era anche dimostrato da un paio di stivali, ch'erano stati di pelle inverniciata vent'anni prima, da una giubba di panno turchino, coi bottoni dorati, e da un cappello a cilindro, spelacchiato e sfondato per giunta. Quello era tutto il vestimento del bizzarro uomo, a cui mancavano camicia e calzoni; difetto che egli correggeva con un pezzo di quel tessuto che vi ho già accennato parlando del re e di certe dame di Capituta.

Costui fece tre profondi inchini; diede una guardata da protettore a noi altri; quindi si fece a bestemmiare, in quella lingua che sapete, col capo dello Stato. Noi non potevamo capirne un'acca, epperciò spendemmo il nostro tempo a contemplare quel ridevole personaggio. Chi poteva esser egli? Forse un naufrago come noi, ma di molti anni addietro, imperocchè la camicia e i calzoni avevano avuto il tempo di logorarsi, e gli altri capi del suo vestimento testimoniavano una foggia da parecchi lustri andata in disuso.

Il dialogo in lingua selvaggia, come a Dio piacque, finì e quel bizzarro uomo, voltosi a me con una giravolta che avrebbe fatto onore ad un primo ballerino, mi fe' udire una frase in lingua francese.

Respirai, sebbene la pronunzia del compare, essendo un tal po' gutturale, siccome d'uomo che da lunga pezza s'era guasto a parlare l'idioma di Ocuenacati, non mi consentisse di capire distesamente il suo discorso a prima giunta; ma a questo difetto, come a certe costruzioni alquanto inselvatichite, rimediai aguzzando gli orecchi, e mettendovi, come suol dirsi, tutto me stesso.

Ora eccovi il suo discorso:

Urutucte, ossia Rumore del tuono, possente re dell'isola bella di Ocuenacati, vincitore del fiero Tomanicanul, ossia il Gran serpente che si svolge lentamente, al quale egli fece l'altissimo onore di mangiare il cuore, il fegato e l'altre parti più gustose co' suoi denti reali, domanda a voi, Caila lapi, ossia Barba di sole (com'egli si è degnato chiamarvi per cagione della vostra barba bionda), chi siete e che cosa siete venuto a fare nella sua giurisdizione.

— Sono, risposi io, Mauro Dodero, genovese, capitano di lungo corso, come potrebbero dimostrare le mie patenti, se l'Oceano me le avesse lasciate portar via; il quale mi imbarcai come secondo sulla Stella del mare, magnifica nave di cinquecento tonnellate, che si è sommersa nel Pacifico, dopo aver superato con qualche avaria, il capo Horn. Noi quattro siamo i superstiti, e chiediamo ospitalità al potentissimo Rumore del tuono. Ma levatemi, di grazia, una curiosità; chi siete voi che parlate e vestite europeo?

— Ah! vi piace il mio abito! — disse l'interprete, rimpicciolendo le labbra, per farne balzar fuori un sorriso. — Non è vero che gli è bellino? È un capo lavoro di Humann, il primo sartore di Parigi... venti anni fa. Io poi mi chiamo, Labsolu, profumiere e maestro di ballo. Andavo a Lima per ingentilire quei popoli colle grazie della danza e con una manteca di mia fattura, la quale fa crescere i capegli e rinfresca il cervello, rendendolo più adatto a concepire le grandes idées; ma il destino ha voluto ritardare a quelle genti i benefizi della civiltà. Sono qui da diciott'anni, vostro predecessore di disgrazia, e questo governo mi ha apprecié à ma juste valeur, perchè ho dato un concetto delle mode di Parigi alla regina madre, la graziosa Nube del tramonto, e sono ora il parrucchiere, il maestro di lingue, di ballo e di buone creanze, alla sorella del re, la leggiadra, la divina principessa Rugiada del mattino, della quale vorrei dirvi il nome dolcissimo nella lingua del paese, se non temessi che il possente Rumore del tuono, udendolo pronunziare, si accorgesse che mi fermo a parlarvi di cose non pertinenti al soggetto. —

Appunto allora Urutucte cominciava a dar segni di voler uscire dai gangheri. Maître Labsolu fu pronto a chetarlo, ripetendogli in un lungo discorso tutto quello che io gli avevo detto in poche parole, e lo fece sorridere più volte; segno che il manigoldo sapeva dargli con bel garbo la soia.

— Buon augurio! — dissi a Labsolu. Il re sorride.

Egli mi rispose con un increspamento di labbra, che voleva dire com'io corressi troppo col cervello a ciabatta.

— Vi parlerò più tardi — mi aggiunse egli. — Per ora aspettiamo i comandi del grazioso sovrano. —

Labsolu aveva ragione a tenere il mio giubilo per le falde dell'abito. Il re, poco stante, ci congedò; ed io, separato da' miei compagni, fui chiuso in una capanna che era proprio sulla riva del fiume, severamente custodita da quattro selvaggi, armati di zagaglie, che passeggiavano sotto, col passo misurato delle nostre sentinelle europee.




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