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Anton Giulio Barrili
Capitan Dodero

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IX.

 

Signori, non vi addormentate, di grazia, poichè vengo alla fine, e ci ho appunto il meglio della mia storia da raccontarvi.

Barcollante per la gioia, come un ebbro pel vino, uscii dalla sala del consiglio a fianco del re, il quale incedeva maestoso tra me e la sua leggiadra sorella, tenendo lei per mano e appoggiando il braccio sul mio omero. E fu bene, io credo, per me ch'egli mi premesse in quel modo, imperocchè io avrei potuto andar sollevato in aria, tanto mi sentivo leggiero.

Tutto era luce, bellezza ed allegria dintorno a noi. Il sole pareva sorriderci, penetrando co' suoi raggi tra i rami dei grandi alberi e tra i capricciosi festoni delle liane intrecciate; i fiori, scaldati da' suoi baci, spargevano l'aria di soavi fragranze; torme spensierate d'uccelli d'ogni colore volavano da un ramo all'altro, gorgheggiando le loro svariate canzoni, e il mio cuore, di conserto colla natura, scioglieva il suo dolcissimo inno all'amore.

Io, in quel momento resi grazie, con tutto il fervore dell'anima, a Dio, che così d'improvviso e contro ogni mia speranza mi faceva giungere al sommo de' miei desiderii; e, lo credereste? tanto e' mi pareva già d'essere congiunto d'Urutucte e cittadino di Ocuenacati, che adorai Dio sotto la forma del paese, lo invocai nella mia mente col nome di Kutkù.

Come fu dato un ragionevole spazio di tempo a rimetterci tutti dalle commozioni di quella mattina, si andò al banchetto solenne, che la Dio mercè non fu contristato da ferali imbandigioni di carne umana. A me piuttosto e' fu contristato dalla presenza di Grand'orecchi, o, se più vi aggrada, Tururù, il quale ci aveva il viso scombuiato come la tempesta, e i biechi lampi dello sdegno gli uscivano dagli occhi, ogni qualvolta c'incontrassimo a guardarci.

Urutucte mandò in giro la sua tazza di cocco, propinando alla felicità delle nozze, e ognuno vi bevve, perfino il rabbioso ministro. Quindi venne la cerimonia dei madrigali, costumanza di tutti i popoli della terra, selvaggi e inciviliti. Un vecchio famigliare del re intuonò una molesta cantilena, di cui rammento ancora i primi quattro versi:

Caila Lapi

Puruguì;

Capituta

Gamusac;

i quali, se nol sapeste (e come lo sapreste?) significano in quel gentile idioma: «Barba d'oro si ammoglia; Capituta si rallegra delle nozze

Anche Labsolu volle fare la sua quartina in francese; ma non mette conto ripeterla, imperocchè, sebbene il mio ottimo amico giurasse d'averla improvvisata allora allora, io mi ricordai d'averla letta in uno di quei viglietti galanti che si ravvolgono intorno ai zuccherini.

Ho io forse a narrarvi le ore, i giorni di felicità suprema, dello sposo di Rugiada del mattino? Vi hanno gioie che non si raccontano, perchè non c'è lingua, immagini acconcie a darne un benchè lieve concetto. Io fui più felice di Adamo che svegliatosi, come narra la Bibbia, dal sonno, si trovò da lato un miracolo di donna. Io aveva conosciuta, amata, desiderata la mia; egli no. Adamo era un uomo tediato dalla solitudine, che si scorgeva dinanzi un passatempo; io era in quella vece un uomo morto che rinascevo.

Amore! amore! le sue voluttà sono fuggevoli come il fulmine, ma lasciano ricordanza del pari. Dolce cosa è l'adorare da lunge la donna de' suoi pensieri, spiare la sua comparsa al balcone da un angolo della strada, seguirla, imbattersi in lei, averne in mercede un rapido sguardo. Un fiore toccato da lei acquista un pregio che non hanno i diamanti di Golconda; un bacio, impresso sulla sua mano bianca e sottile, si pagherebbe volentieri col sangue. Ma tutte queste dolcezze, tutte queste voluttà, riescono ben poca cosa innanzi a quel divino conserto di due anime, di due cuori, di due vite, che, nate divise, con gusti o pensieri diversi, pur tuttavia si uniscono, per virtù di una elettrica scintilla, partecipano ad un medesimo senso, e direi quasi ad un medesimo soffio di vita, si compenetrano insomma, si confondono, diventano una vita e un'anima sola. Per un tratto il tempo si ferma; si rimane sospesi tra cielo e terra come una nube, se pure egli non è più acconcio il dire che si è sospesi in grembo alla nube medesima, molle strato che invita al riposo; diafano velo roseo che lascia vedere dintorno, ma togliendo la loro forma recisa e i loro aspri colori alle cose. Oh, se la nube non s'aprisse! Oh, se questo sogno d'una notte di primavera durasse! Chi, dei nati al dolore, chi vorrebbe più rinunziare alla vita e andarsene, spirito ignudo, a scrutare tutti i tenebrosi perchè dell'infinito?

Felice al pari di me era Rugiada del mattino. Il bel cielo di Ocuenacati non aveva altra nube fuor quella diafana e rosea che io v'ho detto. Anche il negro nuvolone della tempesta, Tururù, s'era dileguato; il primo ministro era sparito da Capituta il giorno dopo le nozze.

Urutucte lo fe' cercare lunga pezza dai suoi, giurò che gli avrebbe fatto mozzare le sue grandi orecchie; ma innanzi tutto bisognava coglierlo, e cotesto non venne fatto. La scomparsa di una piroga, notata parecchi giorni dopo, dimostrò che il mio disgraziato rivale aveva portato il suo sdegno a fruttificare in paese nemico. Per ventura, egli non portava seco nessun segreto di Stato, e i suoi maneggi tra gli isolani vicini non facevano punto paura ad Urutucte, il quale poco tempo innanzi il mio arrivo ad Ocuenacati, li aveva rotti per modo che non s'avessero a rimettere in gambe così presto.

È partito diss'io; buon pro' gli faccia!

Intanto io divenni senza contrasto il primo ministro del re mio cognato e il vero governatore di Capituta; si mosse più paglia senza un mio cenno. Mi diedi, in quel modo che potrete immaginare, alle cure del mio nuovo Stato, e parecchi disegni che mi girarono per la fantasia, senza essere mai mandati ad effetto, testimoniarono della mia sollecitudine pel pubblico bene.

Il popolo di Capituta e dei villaggi circonvicini passava il tempo, siccome mi pare di avervi già detto, alla pesca ed alla caccia. Fatto libero nelle mie azioni mercè il mio matrimonio e il favore del re, mi abbandonai tutto quanto a quell'ultimo esercizio, che mi era diventato più gradevole, dappoichè m'ero accorto di maneggiar l'arco con molta destrezza. I cortigiani, che sono sempre gli stessi in ogni parte del mondo e in ogni grado di civiltà, facevano le meraviglie d'ogni mio colpo; dopo Urutucte non c'era che Caila Lapi, il quale sapesse far le cose a modo, e Caila Lapi insuperbiva assai più della lode di quei selvaggi, di quello non avessero fatto Mauro Dodero per l'esame di capitano di lungo corso ottimamente sostenuto, non fo per vantarmi, al cospetto dei più accigliati professori di Genova. Un giorno, il re, io e tutti i maggiorenti di Capituta eravamo andati assai lunge per monti e valli alla caccia degli uccelli del paradiso, i quali abbondavano nell'isola. Dovevamo rimanere tutto il giorno fuori; epperò anche Rugiada del mattino era venuta con noi, mollemente adagiata su di una lettiga inventata da me per quella donna divina.

Io, quel giorno, scagliai poche freccie, e gli uccelli non ebbero a dolersi dei fatti miei, imperocchè non ne colsi pur uno. Mi sentivo fiacco, e per giunta ci avevo di brutti presentimenti nel cuore. Quella felicità somma ch'io godevo, non mi pareva avesse a durare più oltre.

— Che ha il mio signore? — mi chiese, col suo accento soave, Rugiada del mattino. — Perchè così triste quest'oggi? La presenza dell'amata sua non gli è più così cara come per lo passato? —

Non le risposi, ma la strinsi fortemente tra le mie braccia, e additandole un bel prato sotto a certi alberi, che coi larghi rami lo custodivano dai raggi del sole, la condussi laggiù.

I miei atti e gli sguardi innamorati ch'io le volgeva, rasserenarono Rugiada del mattino, che, sedutasi con giubilo fanciullesco al mio fianco, si diede a gridare:

— Oh, come è bello questo giorno!

— Sì, bello, amica mia, bello come il primo giorno ch'io t'ho veduta. —

Ella arrossì, sorrise, mi pose le braccia al collo, e seguendo il filo di una di quelle capricciose pensate che vengono solo agli amanti, mi chiese:

— M'hai tu amato subito, la prima volta, il primo momento che mi hai veduta?

— Oh, subito, subito! E tu!

— Ti ho amato fin dal momento che tu ponevi il piede nel recinto delle nostre case; ti amo, sposo mio, ti amerò sempre, fin dopo la morte. Non è egli vero che l'anima non muore, e che il grande Kutkù consente ai cuori che si amarono in vita, di amarsi eternamente ne' suoi azzurri giardini?

Così parlava la bellissima donna, e i suoi occhi del color dell'indaco erano così presso ai miei, che io poteva scorgervi la mia immagine riflessa; l'alito soave della sua bocca mi sfiorava le guancie; le sue mani stringevano le mie, destandomi in tutte le fibre un senso di arcana voluttà.

In quel punto la vidi impallidire; un freddo acuto mi colse. Ella mise un grido; io volli alzarmi per sostenerla tra le mie braccia, ma invece di sollevarmi in piedi, vacillai e ricaddi al suolo.

Tutto ciò avvenne in un attimo. Io, nel cadere, volsi gli occhi intorno, e vidi l'orrido ceffo di Grand'orecchi che sogghignava poco lunge da me, uscendo con mezza persona dal fitto d'un cespuglio, coll'arco nel pugno, ma senza freccia sulla corda. La freccia io la vidi allora, che mi stava infissa nel petto, sotto la mammella sinistra.

Altro non vidi: mi si offuscarono gli occhi; sentii le braccia di Rugiada del mattino che mi strinse convulsivamente al seno; udii l'accento disperato con cui ella chiamava per nome il suo povero sposo; feci uno sforzo per rattenere la vita fuggente, ma fu inutile; la morte, l'orrida morte mi giunse nel cuore, in quella che io mormorava un addio a colei che mi aveva tanto amato, e che io non dovevo rivedere mai più.




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