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Anton Giulio Barrili Capitan Dodero IntraText CT - Lettura del testo |
Perchè mai l'Italia è, fra le culte nazioni di Europa, quella che piglia la parte minore in quel tutto moderno, e così caratteristico movimento della vivente letteratura, che si manifesta sotto la forma del Romanzo? - Mentre la Germania, l'Inghilterra, la Francia veggono ogni settimana uscire dalle loro tipografie a dozzine, a centinaia i volumi di novelle, di racconti, di leggende, perchè mai l'Italia conta a stento due o tre pubblicazioni di questa fatta nel giro di più anni, ed è costretta a contentarsi di millantare, forse un tantino più del dovuto, i tre o quattro lavori comparsi in sul cominciare della presente generazione? - E quando nei romanzi delle altre nazioni noi veggiamo riprodursi, come in fedele specchio, il loro speciale carattere, talchè la storia, i costumi, le tendenze, i vizi, la civiltà della Francia, della Gran Bretagna, della Germania appariscono sovente assai meglio dai libri dei Dumas e dei Sue, dei Thackeray e dei Dickens, degli Tschokke e degli Auerbach, che non dalle voluminose biblioteche dei loro eruditi e dei loro statisti, come mai non esiste una scuola romantica veramente italiana e quel tanto che ci ammaniscono i nostri romanzieri non è, con poche, pochissime eccezioni, fuorchè una magra, sbiadita ripetizione, una fredda e povera rimaneggiatura di forme e di tipi d'oltremonte e d'oltremare?.....
Lungo discorso si vorrebbe per adeguatamente rispondere a tali quesiti, e non ad una soltanto ma a molte diverse cause converrebbe domandarne la soluzione. Sarebbe mestieri indagare quanto, a produrre il lamentato difetto, concorra l'antica e di gran lunga non cancellata ancora divisione politica dell'Italia, che ci tolse ognora il beneficio di una vita veramente nazionale. Altra cagione intimamente collegata alla prima, dovrebbe riguardarsi la quasi totale mancanza di una lingua famigliare, atta a riprodurre con la necessaria flessibilità le vicende, gli affetti, il consueto conversare della vita comune. Vi contribuisce pure un falso sistema di studi, per lunghe generazioni vincolato alle forme convenzionali di un meschino e sterilissimo pseudoclassicismo, mercè di cui gli ingegni d'ordinario si educano a considerare siccome volgare troppo per loro un aringo, nel quale non possono sfoggiare le pompe maestose della loro erudizione greca e latina.
Più, di una volta ho io riflettuto alla singolare analogia che corre tra i nostri letterati e i nostri pittori. Per un valente ed impareggiabile Induno, che ne' suoi meravigliosi quadretti possiede il segreto di farci assistere trepidanti alle scene, ora liete, ora luttuose, della privata e quotidiana vita, noi abbiamo cento artisti, i quali crederebbero sinceramente di avvilire il loro pennello e di prostituire l'arte, se, rinunziando agli eroi, agli elmi, alle corazze, ai campi di battaglia ed alle tetre congiure, scendessero al grado di pittori di genere. Interrogati sul ramo dell'arte che coltivano, costoro vi risponderanno con un sorriso eccessivamente superbo e solenne: «Signore, io sono pittore di storia!» volendo significare ch'essi non consentono a trarre i loro soggetti fuorchè da Tito Livio, dal Botta o da altri classici, sul conto dei quali, del resto, sanno poco o nulla. Così del pari, fra cento giovani che, usciti dalle nostre Università, siano disposti a fare l'enorme sbaglio di preferire la libera ma povera carriera delle lettere a quelle del foro, della diplomazia, degli impieghi, ne troverete forse uno il quale non si vergognerà di provarsi a dipingere con piana e semplice prosa un episodio della eterna tragicommedia della vita, mentre gli altri novantanove non crederanno di potere acquistare diritto di cittadinanza nella repubblica letteraria, se non a patto di commettere la loro brava tragedia in versi, e di perpetrare il loro poema epico in trenta canti ed in ottava rima; o se pure vorranno consentire a farsi romanzieri, sarà soltanto sotto le ibride, stentate forme di un romanzo storico, col suo obbligato codazzo di note e di citazioni.
A queste cagioni le quali spiegano, secondo me, la povertà che sotto questo rispetto deplora la nostra letteratura, una se ne aggiunge, che di tutte è la più tristamente efficace e possente. È assioma degli economisti che il consumo determina la produzione, che la domanda provoca l'offerta. Quando Dickens fa un romanzo, sa che i suoi dieci o quindici mesi di fatica gli frutteranno, prima di tutto, quattro o cinque mila sterline, raccolte alla porta degli anfiteatri nei quali l'autore andrà di città in città, sulle due rive dell'Atlantico, leggendo la sua novella; e poi altrettanto, o più, allorchè, esaurito lo stadio delle Letture, la novella comparirà nelle vetrine dei librai. Con una prospettiva siffatta, è agevole invero il capire come i romanzieri gareggino in folla per soddisfare le richieste di un pubblico così generoso, e come i nostri Ruffini, Petruccelli e Fiorentino scrivano in inglese ed in francese idioma i loro applauditi romanzi. In Francia ed in America accade lo stesso che in Inghilterra, perchè presso que' popoli (cui i beati credenti nel nostro primato morale e civile chiamano barbari) non è ancor penetrata la stupenda e tutta italiana dottrina «che l'ingegno si abbassa pensando al lucro,» e che «il genio è la fame.» I professori di questa sapiente dottrina sprezzano la ricchezza che Dickens ha raccolto dai milioni di lettori, e rimpiangono poscia i Mecenati, che condivano di umiliazioni e di lagrime al Tasso ed all'Ariosto un tozzo di pane. In Italia ci sono sì pochi autori di buoni romanzi, perchè di buoni romanzi non ci sono in Italia lettori e compratori; perchè la gran maggioranza si inebbria nelle pessime traduzioni di cattivi romanzi illustrati francesi o nei Paradisi di Venere e nei Templi della Voluttà, e ignora forse persino il titolo del Tito Vezio di Rivalta, della Spettatrice di Sara o della S. Cecilia di Barrili.
Il lettore che vorrà un tantino riflettere alla gravità delle morali magagne alle quali ho qui fatto allusione, mi perdonerà, spero, la lunghezza dell'esordio, dal quale io passo difilato alla perorazione.
A me, che ho la buona ventura di essere amico del signor Barrili, a me che ho di rado incontrato, nella mia ormai pur troppo lunga esperienza, un giovine più degno di essere stimato ed amato di questo, che sa essere ad un tempo terso e forbito scrittore, poeta ispirato ed elegante, soldato valoroso, pubblicista coraggioso e perseverante, a me (dico) è difficile serbarmi giudice imparziale delle sue opere. Ma alla vantata imparzialità di taluni, attinta in un gran fondo di gelida indifferenza, io ho sempre preferito l'appassionata foga, che mi trae irresistibilmente ad amare certi libri e certi autori, e che con pari energia da certi altri mi respinge.
Io conosco quattro novelle del Barrili: Capitan Dodero, l'Olmo e l'Edera, il Libro Nero, e Santa Cecilia.
Le avventure di un naufrago in un'isola di selvaggi e i suoi amori colla figlia del re antropofago, costituiscono la trama su cui è tessuto il racconto del Capitano Dodero, uno di quei bei tipi d'uomini di mare che sono così frequenti nella mia amata Liguria, racconto cui il lettore segue con infinito interesse fino all'ultima pagina, dov'è improvvisamente avvisato che non ha assistito fuorchè ad un fantastico sogno. Io non rammento che un solo esempio di romanzo, in cui l'animo sia così a lungo e così abilmente tenuto in sospeso; ed è il Paol Feroll, di autore Americano di cui ora non ricordo il nome, e che meriterebbe di essere tradotto più di tante sconciature francesi. Il minimo dei pregi (ed è ai miei occhi grandissimo, e bastò in altri idiomi a fare la celebrità e la ricchezza del capitano Marryat e di E. Sue) di questo libro del Barrili, consiste nella perizia, più unica che rara, con la quale egli vi adopera il linguaggio tecnico marinaresco.
Due nobili anime, l'una del giovine Guido Laurenti, studioso e modesto pensatore, caldo ed entusiasta amatore dei fiori e d'ogni altra bellezza della natura, l'altra della signora Luisa Argelloni, bella e solitaria inferma, cui l'amore più che il sapere del giovine medico guarisce; gli ostacoli che queste due anime incontrano, prima di potersi comprendere o rapire in un'estasi di comune felicità; la sublime devozione di Giacomo il giardiniere, che nei tesori del suo ottimo cuore trova il segreto di rompere quelli ostacoli e di riunire le due anime sulla tolda dell'Amerigo Vespucci, sul quale Guido erasi imbarcato per recarsi a cercare l'obblio de' suoi mali sino sulle profumate rive e tra i perpetui roseti del Bengala; tali sono i capi-saldi, sui quali il nostro Autore ha rannodato le commoventi peripezie del suo romanzo l'Olmo e l'Edera. Ma tra questi capi-saldi, quanti graziosi episodi! Quanta perizia di sottili studi psicologici! Quale maestrevole anatomia delle umane passioni! A chi ha senso d'artista io raccomando specialmente una ammirabile scena, nella quale gli interlocutori sono una rosa, un garofano ed un geranio.
Il Libro Nero è un racconto fantastico, sul fare di quelli di Hoffmann, o meglio, di Edgardo Poe. Badate però, signor lettore, che quando io mi servo di questi paragoni, gli è solo per chiarire con maggior brevità il mio concetto. Chè il nuovo romanzo del Barrili (come tutte le opere sue) è veramente nuovo di zecca ed originalissimo, e non vi ha in esso pur l'ombra del plagio o della imitazione. L'indole stessa però di quel libro, che si rifiuta ad ogni tentativo di compendio, mi fa rinunziare a tracciarne altra idea, fuorchè quella che ne dà esso Autore nella Dedica, chiamandolo il libro del dubbio. Le menti elette, cui natura invincibilmente inclina a quella maniera di dubbi ai quali le chiama Aporema, il vero eroe del Libro Nero, non deporranno il volumetto del Barrili, finchè non lo abbiano letto da capo a fondo.
Ma fra tutti i lavori del mio caro concittadino, nessuno mi sembra toccare l'apice di ogni perfezione come la Santa Cecilia, vero gioiello, a rispetto del quale io non so meglio esprimere il giudizio che ne porto, se non paragonandolo ad uno di quei rari cammei, o ad uno di quei nielli maravigliosi, nei quali è difficile il dire se l'antico artista abbia recato maggior felicità di concetto, o più squisita grazia e finitezza di esecuzione. Eppure nulla di più semplice, ma al tempo stesso nulla di più nuovo e di più originale, della idea madre di questo racconto.
Descrivere la singolare allucinazione di un povero pazzo, il quale idealizzando le passate e già lontane e pur troppo reali vicende della sua infelicissima vita, trasporta in una remota epoca ed attribuisce a personaggi in parte storicamente famosi, in parte fantasticamente immaginari, i fatti dei quali fu attore, spettatore e vittima; seguitare in tutti i capricciosi meandri della sua logica incoerenza il lavoro mentale di questo sventurato; corredare il drammatico e compassionevole racconto con una ricchezza di vera e soda erudizione, non di quella erudizione incongrua ed indigesta che affastella a catafascio date e citazioni, ma di quella vivente e robusta erudizione che alita nei fatti delle età che furono lo spirito che le animava; condire il tutto con una lingua altrettanto semplice e venusta quanto pura ed elegante, fusa nel crogiuolo di uno stile terso e scorrevole sempre e spesso eloquente, tutto ciò era per fermo un compito arduo assai per qualunque provetto scrittore; e tutto ciò ha stupendamente condotto a fine in giovanissima età, nella sua Santa Cecilia, Anton Giulio Barrili.
A me duole che la speciale consuetudine dei miei studi, e la poca o niuna dimestichezza che questi mi diedero agio di prendere con le cose attinenti alla immaginazione ed alle lettere pure, m'impediscano di entrare con maggiori particolarità nell'analisi dei pregi dei lavori del Barrili. Avrò pur tuttavia raggiunto il mio scopo e recato senza dubbio un grande beneficio ai miei lettori, se queste mie parole avranno avuto virtù di far nascere, in quelli fra loro che ancora non conoscessero gli scritti di questo mio egregio compaesano, il desiderio di leggerli e di ammirarli.
GEROLAMO BOCCARDO.
(Nota degli Editori).