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Anton Giulio Barrili
Capitan Dodero

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VIII.

 

Io non vo' tenervi a bada colle mie ciarle, perchè la notte è alta, ed una rugiada assai manco graziosa di quella che consolò la mia giovinezza raminga, ci viene bel bello inzuppando il giubbone.

Che vi dirò? Quasi ogni mattina ero da lei con Labsolu, e mercè sua facevo in mezz'ora più rapido cammino nello studio della lingua d'Ocuenacati, che non tutto il rimanente della giornata a conversare col parigino. Imparate le lingue dalle donne, amici miei; che elleno ve le insegneranno assai più agevolmente, e direi quasi più presto che non facesse lo Spirito Santo agli Apostoli. A me poi il divino spirito passava veloce per gli occhi e nelle strette di mano: che suggellavano timidamente le mie visite. Chi teneva vivo il discorso era Labsolu. Costui chiaccherava, faceva la ruota come i polli d'India, e noi si sorrideva senza udirlo, si stava come estatici a guardarci in viso, senza badare all'amico.

Andando oltre di questo passo, non mi bastarono più le visite mattutine; le quali del resto dovevano esser rade, per non dar negli occhi a nessuno. Io dunque soletto senza farne motto al mio Mentore, cominciai ad alzarmi dalla cuccia, e uscire di chetichella dalla nostra capanna, per andarmene a ronzare nei pressi del paradiso vietato. Così giungevo fino al giardino della principessa, scavalcavo la siepe, e me ne stavo, per ore intiere seduto nell'ombra degli alberi, guardando la casa dove s'era rinchiusa la bellissima donna, e desiderando il raggio di luna che penetrava nella sua camera e le baciava, senza romperle il sonno, le lunghe ciglia socchiuse.

Una notte, fatto più audace dalla consuetudine, andai a sedermi proprio sui gradini dell'uscio. La luna, mezzo nascosta tra le nuvole, mandava poca luce colà, dov'io, dimentico d'ogni cosa, fantasticavo a mia posta, volando sull'ali del desiderio fino alla stanza della regina de' miei pensieri. Ora, in quella che io la contemplavo dormente, co' suoi neri capegli disciolti e le stupende braccia abbandonate sul lettuccio, distese verso di me, ella era al mio fianco, non dormente, ma desta; non sognata ma vera. Chi l'aveva fatta accorta delle mie visite notturne? O forse anche ella non potendo chiudere gli occhi al sonno, veniva a fantasticare al chiaro della luna? Questo non so; ma comunque fosse, la mia presenza non ebbe a parerle strana colà, imperocchè ella non fe' parola, nè atto di meraviglia. La mano si posò tranquillamente sulla mia spalla; e a quel tocco leggiero io mi sentii ardere tutto dal capo alle piante.

Alzai la fronte a guardare quel suo viso sorridente. Ella taceva, ma i suoi occhi azzurri e profondi come il mare parlavano al mio cuore una lingua divina. Io presi allora la sua mano tra le mie, e me la recai alle labbra. Fu il primo bacio, ma fu lungo, nè altro le dissi fuorchè in quella muta favella, e la sua mano restando, non inerte nè fredda, sotto le mie labbra, proseguì il più concitato dialogo che mai fosse fatto tra due anime innamorate.

Che arcani struggimenti son quelli delle due punte combustibili che sprigionano la luce elettrica? Che cosa si dicono esse in quella risultante di splendori? A che si persuadono scambievolmente, che giuramenti fanno nel confondersi, due correnti di quel fluido che è la miglior parte di due creature umane, poste a contatto in una stretta di mani? Spiegatemi ciò, ed io vi ripeterò per filo e per segno tutto quanto fu detto da quella mano sulle mie labbra e dalle mie labbra su quella mano.

Rugiada del mattino non conduceva nè il mio nè il suo amore per gradi. L'Eva di Ocuenacati non conosceva ancora, o disdegnava, il sapiente ma non pietoso magistero delle cento filiere, per le quali una donna europea, anco se innamorata al pari di voi, fa passare, assottigliarsi, innalzarsi la vostra passione fino alla quarta potenza. Ella mi amò, e non volle tenermelo celato; il primo momento che fu sola daccanto a me, i suoi occhi mi significarono l'affetto immenso del cuore, e le sue labbra non furono lente a suggellarlo con quella frase che suona così dolce in tutte le lingue del mondo.

Sapete come si dice «ti amo» nell'idioma di Ocuenacati? «O cuen sini.» «Ocuenacati» vuol dire l'isola amabile; «O cuen sini» ti amo. Ora una simil frase è dolce e cara ad udirsi in tutte le lingue, piuttosto per quello che esprime, che pel suono che ha; ma nella lingua di Ocuenacati è dolcissima per l'una cosa e per l'altra. Io posso parlarvene ex professo, avendola imparata a pronunziare, se non sempre a scrivere correttamente, in ogni dioma. L'inglese vi dice: J love you; il tedesco: ich liebe dich; il russo: ja ti beliublú; il polacco: coham ce; l'ungherese: szeretlet; l'arabo: bahebec; lo spagnuolo: yo te quiero; il francese: je t'aime; ma con licenza di tutti costoro e d'altri eziandio, il vecchio capitan Dodero si atterrà con animo divoto alla dolcezza di quell'insuperabile, «o cuen sini» che gli mormorò Rugiada del mattino, la divina Rugiada del mattino, in quella che lo congedava, posandogli leggiadramente la guancia sul petto e le braccia sugli omeri.

Amici, io potrei vivere mill'anni; ma a ricordare quel momento, quella parola, l'avviticchiarsi di quelle braccia al mio collo, tremerei tutto, come tremai allora; il sangue mi correrebbe impetuoso alle tempie, come allora, al tocco de' suoi morbidi capegli, scompigliati dalla brezza notturna.

Intanto il giorno del Kutkù si avvicinava con una spaventevole rapidità. Tutti i più ragguardevoli cannibali di Ocuenacati mi guardavano di buon occhio, ma chi mi assicurava che in quelli sguardi benevoli non c'entrasse la sua parte di curiosità gastronomica? Il sentirmi a bestemmiare la loro lingua li faceva ridere a crepapelle; senonchè ridendo, e' mostravano certi denti incisivi che mi mettevano i brividi.

Queste cose m'avevano persuaso a non addormentarmi sugli allori del tramaglio inventato per la pesca. Tra gli avanzi del naufragio avevo conservato un coltello, dapprima dimenticato in tasca come un arnese inutile, poscia gelosamente custodito dagli sguardi profani, come quello che m'avrebbe servito ad usi parecchi. Notate sulle spiaggie dell'isola alcune bellissime specie di conchiglie, maturai tosto il disegno di darmi alla fabbricazione di graziose minuterie, le quali potessero abbellir le capanne de' miei signori cannibali, e mostrar loro com'io valessi assai più di una pietanza per venti o trenta convitati.

Il primo parto del mio ingegno fu una scatoletta tutta incrostata di conchiglie e pietruzze di svariati colori, col coperchio lavorato a fiorami, con foglie di telline e petali di nicchi perlati; tutta roba che io saldavo insieme, la mercè di una resina trovata nelle vicine boscaglie.

Si fecero le gran meraviglie della mia scatola, e il re si degnò di tenersela. Il suo ministro Tururù ne volle una anch'egli, ed io in due giorni lo contentai, portandogli una nuova scatoletta che, non fo per dire, era proprio un capolavoro.

Briccone d'un Tururù! Egli m'aveva chiesto quel gingillo per farne un presente a Rugiada del mattino; e ben me ne addiedi il giorno di poi, vedendo la mia scatola nelle stanze dalla principessa.

— Io l'ho accettata — mi disse candidamente la divina selvaggia — perchè immaginavo fosse opera di Caila Lapi. —

Animato dai primi trionfi, mulinai nuove cose; volli ferire un gran colpo. Epperciò me ne andai a girandolare pei boschi, cercando un pezzo di legno, che presto mi venne fatto trovare, bianco, tenero e maneggevole, come io lo voleva. Mi ridussi quindi nella mia capanna, e là, tanto feci colla punta e col taglio del mio coltello da tasca, che ne venne fuori un simulacro del dio Kutkù, alto un palmo, senza mettere in conto le piume di pappagallo che gli piantai al sommo del cranio. La era una statuetta che il nostro Maragliano non avrebbe certamente lasciata passare sotto il suo nome; ma i selvaggi di Ocuenacati non ci guardavano tanto pel sottile. La forma d'uomo c'era; c'erano le piume, il mantello fatto con uno scampolo di quel tessuto rosso che sapete, e una lancia formidabile in pugno del Dio, al quale avevo orgogliosamente regalato alcuni peli della mia barba bionda, tanto per aggiungere dignità alla sua rozza figura.

Giunse il dì della festa, e il mio lavoro era finito. Tutti i cortigiani di Urutucte erano radunati intorno a lui nella sala del Consiglio, allorquando io mi presentai al cospetto del re, in compagnia di Labsolu, e scopersi il simulacro della divinità di Ocuenacati.

E' fu dapprima un lungo atto di stupore; e come ebbi pronunziato il nome Kutkù, gli astanti tutti caddero ginocchioni, per adorare l'opera delle mie mani. Quindi incominciarono le attente disamine, le minute considerazioni per ogni verso, e gli atti molteplici, gli scoppi repentini di una ammirazione direi quasi fanciullesca. Urutucte era rimasto estatico; Rugiada del mattino, la quale non soleva mai venire nella compagnia tumultuosa dei cortigiani di suo fratello, fallì per quel giorno alle sue consuetudini e venne insieme colle sue ancelle a salutare il Kutkù, della cui discesa in terra, per opera di Caila Lapi, s'era subito sparsa la voce in tutte le capanne della reggia.

La presenza della donna amata e le sue congratulazioni, mi facevano giungere al colmo della felicità. Una sola cosa mi recava un tantino di molestia, ed era la vista del primo ministro che s'era posto al fianco di lei e parea volesse divorarla co' suoi occhiacci da spiritato.

Ma in quella che io pensava a quel fastidioso personaggio, il possente Urutucte così prese a parlarmi:

— Caila Lapi, quest'oggi appunto, stando al convegno fatto, tu dovresti morire. La mia leggiadra sorella non sa ancora qual dolce sapore abbia la carne dell'uomo, e tu sei certamente il boccone più ghiotto, più delicato, che possa sperarsi in questi paesi. —

Son cotto! pensai tra me; se pure non mi mangiano crudo. E stetti immobile ad aspettare la continuazione di quel poco lieto discorso. Urutucte, dopo una breve pausa, nella quale parve tutto intento a mandar giù l'acquolina, proseguì:

— Ma sapete, voi altri Europei, che siete buoni? —

Io m'inchinai profondamente. Che cosa avreste risposto voi, udendo un complimento di quella fatta?

— Sì, molto buoni! incalzò Rumore del tuono. — Io ho passato un ottimo quarto d'ora con uno spicchio d'arrosto dei compagni di Caila Lapi. Siete buoni, molto buoni; io lo giuro per Kutkù! La vostra carne è dolce, più dolce a gran pezza del frutto del cocco, ed ha un gradevolissimo odore: laddove quella dei nostri vicini è dura, tigliosa, e mi sa sempre di qualche cosa che non saprei dire, ma che non mi va punto a sangue. Ah, come dovete essere felici nei vostri paesi, dove potete mangiarvi a vostro talento!

— Maestà, non ci mangiamo in Europa....

—    Che? Come? non vi mangiate?

— Cioè.... qualche volta sì, ma non coi denti....

— Male! male! La carne dell'uomo è un cibo che sta in natura. Si mangia la bestia e si acquista la sua agilità, la sua fierezza nel combattimento, ma si imbestialisce del pari; laddove, a mangiar l'uomo s'accresce l'anima nostra. Io per me credo che se mangiassi Caila Lapi, imparerei subito a fare taluna di quelle belle cose che egli ci ha regalato. —

Ma all'udire quella nuova teorica sui pregi della carne umana e sull'anima trasmissibile nel fiero pasto, cominciai ad essere sbigottito. Dice egli da senno? Certo la teorica non regge, ma egli ci ragiona su con troppo fervore, questo antropofago re!

Con simili pensieri in mente, e già più morto che vivo, sebbene cercassi di sorridere, mi provai a rispondergli.

— Sarà forse vero; ma allora, perchè il possente Rumore del tuono non ha egli mangiato il mio amico Labsolu? Egli appartiene ad una nazione più colta, più azzimata della nostra, i cui cittadini insegnano la loro lingua, dettano ogni loro voglia, ogni loro capriccio, alle cinque parti del globo; donde ne viene che la sua carne ha da essere più fina e più saporita a gran pezza della mia. Se il possente Urutucte avesse dunque mangiato Labsolu, avrebbe fatto un pasto migliore, si sarebbe messo in corpo un maggior numero di virtù e di pregi personali...

— Alto là, mon garçon! — gridò il vecchio parigino, sbucando, col cappello sfondato in mano e il suo vestito coi bottoni dorati, fuor da un crocchio di donne che erano dietro la principessa. — Quelle lubie vous prend, de me faire servire en gigot à Sa Majesté le Bruit-du-tonnerre? Io sono molto più duro, cartilaginoso e coriaceo di voi, mio bel genovese! —

Io non sapevo già più a che santo votarmi, allorquando una sonora risata del re Urutucte venne in buon punto a dimostrarmi che gli era stato uno scherzo il suo, un orribile scherzo da selvaggio, se vogliamo, ma che non giungeva alla pelle. Il cuore mi si allargò tutto in un attimo, e così rasserenato potei proseguire parlando al re nella lingua del paese:

— Sia pure; ammettiamo che la mia carne sia migliore di quella di Labsolu, quantunque nessuno ne abbia assaggiato finora. La mia vita ora è tua, possente Urutucte.

— No, — rispose il re, accompagnando le parole con un gesto grazioso — essa appartiene alla leggiadra figlia di mia madre, a Rugiada del mattino. Chiedila a lei, ed io ho fede che non vorrà niegartela. Anzi, poichè tu hai condotta in terra l'immagine di Kutkù, e meriti d'essere rispettato come uno dei primi di Ocuenacati chiedile ancora tutto ciò che vorrai.... foss'anco la sua mano; se ella te la concede, io non mi oppongo, e ti abbraccio come fratello. —

Un fulmine che fosse caduto in mezzo a noi, non avrebbe fatto più colpo di quello che fecero le ultime parole del re.

Io ero rimasto sbalordito. Guardai Urutucte, e a vederlo sorridere mi parea di sognare; guardai l'assemblea, e le fronti rispettosamente chine verso di me, mi mettevano in cosiffatte dubbiezze da non sapere se dovessi credere a me stesso; guardai finalmente Tururù.... e qui mi riebbi per fermo. Il pallore che gli aveva cosparso le guancie, le torve occhiate che mi vibrò, quasi volesse avvelenarmi collo sguardo, mi fecero finalmente persuaso che non avevo sognato.

Distolsi gli occhi da lui, per guardare Rugiada del mattino. La bellissima donna era svenuta. Le sue ancelle l'avevano accolta nelle loro braccia; Labsolu, il protomedico del reame, era andato sollecito a pigliare una brocca d'acqua, e le ne spruzzava il viso, perchè ella ricuperasse i sensi smarriti.

— Dove sono? — chiese con un fil di voce la principessa, in quella che riapriva gli occhi alla luce. — Ah, è egli vero? Caila Lapi....

— Principessa, — gridai, chinandomi verso di lei — che posso sperare? La vita...

— Sì, la vita a Caila Lapi... e se egli accetta.... anche la mano! —

Così dicendo la giovinetta si fe' rossa come una brace, e con atto leggiadro nascose il volto nel seno ad una delle sue donne.

Io, come potete argomentar di leggieri, mi buttai ginocchioni a' suoi piedi; presi una delle sue manine, me la recai alle labbra, bevendo le stille di sudore dolcissimo che la commozione dell'inaspettato caso ne aveva spremute, e rimasi in quella postura, dimenticando ogni cosa dintorno a noi due. Urutucte, il suo ministro, i selvaggi, Labsolu, l'isola, tutto era sparito dalla mia mente; nulla più esisteva per me, salvo Rugiada del mattino, la perla d'Ocuenacati, la regina delle donne.




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