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Anton Giulio Barrili La notte del commendatore IntraText CT - Lettura del testo |
CAPITOLO X.
Dove i nodi vengono al pettine.
Era una splendida giornata della fine di maggio quando il giovane baccelliere fece ritorno a Dogliani; una giornata tutta tepori e fragranze, come avviene per solito nei trapassi dalla primavera all'estate. Ma il nostro eroe badava assai poco alla bella giornata; l'animo suo era sordo alle liete voci della natura; invano la gran madre, a dirvela con una frase audacissima, si era infronzolita per lui. Il signor baccelliere si mostrava pensieroso, anzi peggio, stizzoso, di mala voglia; insomma, per usare una parola moderna, che risponde ad una moderna infermità, maledettamente nervoso.
Con chi l'aveva? Con se stesso e cogli altri, col mondo interno e col mondo esteriore; due mondi che l'uomo incomincia ad avere in uggia, quando ha varcato la fatale trentina. Ma il nostro Ariberti, ragazzo precoce, faceva tutto in anticipazione.
Le accoglienze della signora Caterina furono materne, e con questo aggettivo mi pare di avervi detto ogni cosa. Quelle del signor Amedeo, per contro, furon fredde anzi che no. Le belle imprese dello studente, avevano avuto un'eco fino a Dogliani. E qui, facciamo ad intenderci. Al signor Amedeo non dispiaceva punto che il figliuol suo si facesse un uomo e si mostrasse tale anche prima della età voluta dalle statistiche. I babbi son tutti così; hanno fretta; non per niente son nati prima di noi. Perciò il duello del figlio, che, ancora in fieri, gli avrebbe dato sui nervi come una solenne ragazzata, degna di una tiratina d'orecchi, non doveva dispiacergli, a cose fatte, poi tanto. Anche i versi, pomposamente stampati, non gli parevano un delitto imperdonabile. Alla fin fine, erano belli; e se ne nascevano in casa Ariberti, c'era piuttosto da tenersene, che da fargliene una ramanzina. Neanco gli avrebbe dato ombra qualche ripesco amoroso. Suo figlio era un bel giovinetto; che diamine! e se piaceva alle donne, non c'era mica da condannare... le donne. Ecco qua per l'appunto il nodo della quistione. Rispetto agli altri, e considerate ad una ad una, quelle imprese gli parevano naturali e fino ad un certo segno condonabili; ma tutte insieme, e rispetto al figlio, gli apparivano malefatte, da non meritare indulgenza. E ciò segnatamente per gli studi, che ne avrebbero sofferto. Il ragazzo si svia, pensava egli, il ragazzo si svia, e bisognerà rimetterlo in carreggiata. Principiis obsta; sero medicina paratur.
Per altro, il signor Amedeo si rabbonì, quando vide il certificato degli esami, che portava segnati, a giustificazione del figlio, tutti i punti e la lode. La lode! che vi pare? Va bene che in legge, secondo i maligni, è abbastanza facile buscarla; ma per contro è altrettanto facile di non buscarla affatto; dunque... La conseguenza viene da sè. E il signor padre si rabbonì; non già ad occhi veggenti, perchè l'autorità sua ne avrebbe scapitato; ma bene lo intese la signora Caterina, che vide il marito star meno sostenuto con lei.
Del nostro baccelliere furono invece assai meno contente le sue vecchie conoscenze di Dogliani. Le ragazze lo trovarono più bello, più elegante di prima, e pensarono a lui per una settimana, con gran dispetto degli Adoni di mandamento; ma finirono col giudicarlo freddo, contegnoso, aristocratico. Si è sempre aristocratici per qualcheduno; e nel suo paesello natale, dov'era conosciuto lui, dove era conosciuta la famiglia, il giovane Ariberti doveva parere superbo senza ragione. Ci fu, tra l'altre, una figlia di droghiere che ebbe da lui un saluto di tanta degnazione, da piangerne per una notte intiera. Una conservatrice d'ipoteche, perduta la speranza di registrarlo fra i frequentatori delle sue veglie, lo definì, tra due giuochi innocenti, uno sciocco.
Il giovane dava appicco a tutti questi giudizi, a tutti questi malumori, fuggendo le conversazioni e le compagnie d'ogni sorta. Poverino! pensava ai suoi debiti, segnatamente a quello del tipografo, che presto gli aveva a cascare tra capo e collo, e almanaccava più di un ministro di finanze, quando cerca il pareggio tra la entrata e l'uscita.
La mattina, per almanaccare a suo agio, si alzava da letto per tempo e se n'andava lontano pei campi, ma senza dare l'occhiata del presidente ai coltivati, nè quella del poeta ai salvatici. Invano le colline s'indoravano per lui al primo raggio del sole; invano i rosolacci disposti a gruppi, a manipoli, a file serrate, agitavano i calici scarlatti sui ciglioni dei prati; invano le monacucce facevano pompa degli steli diritti e dei fiori incarnatini in mezzo alle spighe biondeggianti del grano. Il signor baccelliere andava diritto per la sua strada, senza pure avvedersi delle api, che gli gironzavano a sciami intorno alle ginocchia, andando in busca di cera e di miele nella varia fioritura dei pingui maggesi. La bella natura, le albe, i tramonti, i rivoli solitarii tra due file d'ontani o di frassini, i buoi aggiogati che trascinavano lentamente la loro gran mole di fieno odoroso sulla nota carraia, tutte queste cose sane, che intendiamo così bene quando ci manca il tempo a goderle, non avevano voce per lui.
Si guardava dentro, il poverino, e ci vedeva buio, gran buio. Per altro, a furia di guardare, ci trovò il soggetto e la materia d'un dramma. Era il secondo che perpetrava; ma stavolta il delitto era in prosa, e d'indole acconcia alla scena; si allontanava ad un tempo da quel vero che non ha fortuna in teatro e da quel falso che spesso è frutto di larghe vedute estetiche; ma seguitava la via di mezzo, che piace tanto alla comune degli uomini, poichè rappresenta in arte quell'aurea mediocrità che regna in tutte le cose della vita, e agli uni tempera i desiderii, agli altri smorza le invidie, a tutti conferisce come un'aria di famiglia e li consola d'esser figli d'Adamo.
Lo tirò giù venti giorni, che per un'opera simigliante erano forse già troppi, e gli parve che andasse bene. Spese altri cinque giorni per tirarlo a pulimento e per farne una copia presentabile; poi lo accartocciò, lo rinvolse in un bel foglio di carta turchina da bottegai, che suggellò bravamente sul margine, e si dispose a scrivere su l'indirizzo.
Ma a chi mandarlo? Questo era il busilli. Per fortuna l'Euterpe veniva ogni settimana a salutarlo in Dogliani, e sull'Euterpe c'erano indicazioni di compagnie drammatiche a bizzeffe. Trovò in questa guisa il capocomico di suo gusto, che recitava in quel torno a Genova, e gli spedì il manoscritto dicendogli nella lettera, che glielo avrebbe potuto dare per ottocento lire, nè più, nè meno; o prendere, o lasciare.
Così contava di pagare il tipografo e di avere per giunta un po' di danaro in serbo per altri debitucci che lo aspettavano a Torino. Per quattro o cinque giorni attese risposta, ma invano. Già, bisognava dare al capocomico il tempo di leggere; cosa difficile, come tutti sanno. All'ottavo giorno gli scappò la pazienza, e riscrisse, sollecitando quella benedetta risposta. Il suo uomo non si fece vivo. Allora ne pensò una da furbo di tre cotte; mandò all'amico dell'Euterpe una notarella agrodolce in cui si pregava il gran capocomico Tizio (è qui c'era il nome scritto a mezzo, colla, promessa del resto) a rispondere alle lettere, o rimandare i manoscritti che si sottoponevano al suo riputato giudizio. La noterella comparve stampata, e tre giorni dopo, il nostro Ariberti riceveva per la posta il suo scartafaccio.
Altro che ottocento lire! Il degno pronipote di Roscio, in una sua letterina mandata quel medesimo giorno, gli diceva d'aver letto attentamente il suo dramma. Belle scene; stile classico; passione.... oh, passione, poi, quanta ce ne poteva essere in un dramma di Shakespeare; ma il lavoro era troppo serio, oh sì, troppo serio, e il pubblico, per allora, domandava di ridere. Inoltre era un po' lungo. Va bene, che si sarebbe potuto scorciare, ma sarebbe stato un vero peccato. Tanti bei pensieri! Scene così belle! Infine era un lavoro da stampare; oh sì, da stamparsi senz'altro, e i lettori avrebbero reso giustizia, ecc. ecc., gustato, ammirato; e qui mettete a dirittura una dozzina di eccetera.
Che c'era di vero in tutte quelle considerazioni del pronipote di Roscio? Ariberti diede un'occhiata al suo povero manoscritto. Oh rabbia! Era rivolto ancora nella sua fascia turchina e coi medesimi suggelli di ceralacca che ci aveva messo lui a Dogliani.
Il signor capocomico aveva dimenticato di salvar le apparenze.
Oh capicomici! Il mio eroe vi mise tutti in un mazzo, v'involse tutti in una sola maledizione. E aveva il torto marcio, come lo si ha sempre, quando si giudica in modo assoluto. Almeno almeno, avrebbe dovuto fare una eccezione pel suo uomo, che gli diceva ben del suo dramma senza averlo letto, e non gli prometteva di pagargli tremila lire quando i suoi poveri cinque atti avessero ottenuto il trionfo di quattro repliche alla fila; trionfo per sè stesso impossibile ad un autore novellino, e che dopo tutto c'era sempre modo di mandare a vuoto, in ogni teatro d'Italia, dove gli abbonati comandano a bacchetta, e non ammettono repliche!
Intanto la fatale scadenza si avvicinava a grandi giornate. Ahimè! Il cielo aveva un bel mettersi a festa, coi drappelloni più azzurri; i grilli canterini avevano un bel trillare alla luna, e le lucciole un bel far la ridda notturna fra i pioppi regalandogli senza spesa la gran scena del monastero nel Roberto il Diavolo. Il signor baccelliere aveva la mente a tutt'altro. Provò a chiedere notizie della vendita ai librai di Torino, ma ebbe a rimetterci le spese di posta. Pur troppo, dopo quelle quattro copie che sapete non si era più spacciata una delle sue povere Foglie.
La notte che precedeva il gran termine, Ariberto Ariberti non potè chiuder occhio. Soltanto un condannato a morte mi servirebbe per far riscontro al suo caso. Ad ogni ora, ad ogni momento, il cuore gli dava un sobbalzo, chè gli pareva di veder comparire il cancelliere colla sentenza; intendi il postino con una lettera del tipografo. Passò la mattina, e passò anche il giorno, senza l'apparizione del molesto messaggio. Ed era naturale: il tipografo abitava a Torino, e non a Dogliani. Ma il giorno dopo?
Ed anche quell'altro giorno trascorse, e fu seguito da parecchi, tutti pieni di angosce ineffabili. Al settimo, incominciò a respirare. Che il suo creditore fosse ammalato? Dio di misericordia, fosse andato fra i più? Egli veramente non avrebbe desiderato tanto dalla infinita bontà; ma infine, se una disgrazia simile avesse proprio chiamato a sè quel degno collega dei Fontana, e dei Pomba, per chiedergli conto de' suoi errori di stampa, Ariberti non avrebbe dato altro conforto alle sue ceneri che quello di una lagrima, di una lagrima, sola.
Senonchè, muoiono forse i creditori, come tutti gli altri nati dalla creta? Muoiono essi davvero innanzi la scadenza dei crediti loro? A questo problema Ariberti non ci aveva pensato mai. E pensandoci allora gli parve impossibile che il destino rinunziasse in tal guisa ad uno de' suoi più sicuri strumenti di tortura. Epperò il suo cuore durava sempre in sospetto e in ansietà; quel silenzio non gli prometteva niente di buono.
Un giorno, mentre egli stava leggiucchiando a tavolino, aspettando l'ora del desinare, suo padre entrò nella camera. Il signor Amedeo non metteva mai piede colà, argomentate dunque lo stupore del figlio e il tremito che lo assalse quando lo vide avvicinarsi a lui e gittargli sullo scrittoio un foglio, che aveva cavato allora, e molto gravemente, di tasca.
Il povero baccelliere diede una sbirciata a quel foglio. Era una carta bollata. L'aperse colle mani tremanti e vide.... quel che doveva aspettarsi, il suo contratto col tipografo di Torino.
- È pagato; - disse allora il signor Amedeo. - Vedete, c'è la quietanza a piè di pagina. Ma d'ora innanzi, se studieremo la natura dei contratti, in cambio di sottoscriverne per conto nostro, faremo certamente assai meglio.
- Padre mio! - gridò lo studente, dando in uno scoppio di pianto.
- Orbene, che c'è? - gridò il signor Amedeo con un accento di burbero benefico. - I versi alla perfine non erano dei peggiori che si stampino in Italia. Ma non prendete impegni che non possiate poi soddisfare. -
Il giovane promise, come potete argomentare, che non ci sarebbe cascato mai più. Ma in vita sua doveva farne dell'altre; e questo si dovrà argomentare del pari.
Intanto, colla mente al suo libro invenduto, al suo dramma pulitamente rifiutato, alle contrarietà del presente e alle incertezze del futuro, il nostro Ariberti ci aveva da fare un processo in formis alla sorte tiranna. Egli pensava ciò che molti avevano pensato prima, e che molti dovevano pensare dopo di lui; esser difficile, lo entrare nel mondo, come in un teatro alla cui porta si faccia la coda. Ecco qua; dar di gomiti, guizzare a destra, esser respinto a mancina, dire una parolina a questo, dare un urtone a quell'altro, grazioso coi forti, inurbano coi deboli, e tutto ciò per guadagnare una spanna di terreno, per trovare, egoista tra tanti egoisti suoi pari, il filo della corrente che dovesse portarlo alla meta! Ariberti non doveva avvezzar l'animo ad un così miserabile uffizio; capacitarsi che la vita è una sconcia battaglia cogli uomini, con sè stesso, colla necessità, infine, con tutto; persuadersi che, per andare avanti da sè, bisognava non solo aver fortuna, ma costanza e pazienza, farsi piccini ad ogni buco, conquistare a forza le prime cinque lire, contarci su, menare una vita da formiche, non perdere un'ora nè un minuto, non dormire all'occorrenza e non mangiare, rispettar molto e disprezzare altrettanto, essere o parere non curanti d'ogni grandezza, come d'ogni disgrazia, far poco assegnamento sugli altri, e spenderli tutti quando ne venga il destro, andar oltre tenendosi al muro e saper poi girar largo ai canti, ottenere a stento la sua parte di strada e lì subito farsi d'ogni cosa schermo alla testa, sempre per paura di un embrice che caschi. Vergognosa esistenza! E quando non si è tristi del tutto, quando si ha un briciolo di cuore, una scintilla di poesia, di fede e di amore nell'anima, trovare anche il tempo di non odiare il nostro simile e di perdonargli il suo egoismo, sperando che egli lo perdoni a noi pure, secondo la massima del paternostro, vecchia preghiera, di cui tanti divoti pappagalli hanno smarrito il senso, a furia di recitarla in latino.
Eppure, tanta è nell'uomo la possanza del mal abito, così forte il gusto del pessimo (informino tutti i veleni e le pestifere sostanze, a cui il nostro palato si avvezza con mitridatica cura), che il signor baccelliere, dopo aver tanto meditato e tanto maledetto, non sentiva altro desiderio, altra impazienza, che di tornare alla sua vita di prima. E ci tornò col novembre, fornito la borsa dei materni risparmi e foderato il cervello di buone intenzioni. Gli uni e le altre quanto avevano a durare? Vedremo in processo di tempo. Frattanto, bisognerà dire che cominciò l'anno scolastico frequentando assiduamente l'Università e tenendosi lontano dai cavalieri di Malta. Ma dove e con chi aveva egli a passare le ore bruciate del giorno, se coi signori della Dora ci aveva l'astio e con Filippo Bertone era senz'altro alle rotte?
Fu un lungo battibecco tra il suo diavolo buono, e il cattivo; finalmente la diedero nel mezzo, e il nostro eroe si riaccostò più strettamente all'Euterpe, colla scusa che non ci aveva a rimettere, ed anzi ci guadagnava i danari delle male spese. Inoltre, e non ci aveva sempre il suo dramma da far recitare? E non era quella la strada per trovare un capocomico? Infine, che serve? c'è sempre nei ripostigli della coscienza una buona ragione, per indurci a fare quello che più ci talenta. E siccome poi in tutte le strade per cui un uomo si mette, egli ci na sempre a trovare qualcosa che dia nuovo indirizzo al suo vivere, sentite che nuovo caso intervenne al nostro signor baccelliere, ridiventato giornalista teatrale.