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Anton Giulio Barrili La notte del commendatore IntraText CT - Lettura del testo |
CAPITOLO XIV.
Che incomincia colle viole mammole e finisce coi chiodi.
Ristorato con sette ore di sonno e fatte sparire dal volto (cosa facile alla sua età) le traccie della notte vegliata, andato dall'amico Tristano e intascate cinquecento lire, che erano le prime da lui possedute in un gruzzolo, il nostro Ariberti, ilare e franco, a guisa d'uomo che non ha sopraccapi pel futuro, e, quanto al presente, domanderebbe volentieri se il mondo è da vendere, se ne andò difilato all'università d'amore.
Ci sono state le corti d'amore; perchè non ci sarebbero le università? Ne propongo l'impianto al ministero della pubblica istruzione, che può già fare assegnamento sul voto mio e su quello dell'onorevole Morelli. E come sarebbero frequentate! E come si pagherebbero volentieri le tasse d'entratura! E come si trarrebbe profitto dalle lezioni, con professori che non portassero occhiali e non pigliassero tabacco!
Il professore di Ariberti non era in casa. Stavo quasi per dire in iscuola. Lo studente abbandonato n'ebbe una stretta al cuore, e chiuse forte le labbra per non iscoppiare, mentre la donna di servizio gli stava dicendo che la signora Szeleny era uscita per far qualche compera, e che sarebbe tornata quanto prima.
- Aspetterò; - diss'egli, rabbonendosi un pochino a quelle ultime parole della fantesca.
Ed entrò in quel salotto che egli conosceva già a menadito, e che perciò non gli poteva più offrir nulla da ingannare il tempo. Era la seconda volta che stava là ad aspettare; ma questa seconda volta com'era più noiosa della prima! Allora almeno egli sapeva che Giselda stava poco lunge, nella camera attigua, facendosi bella nello specchio, e la cagione di tutto quel lavoro muliebre era lui, persona prima. Stavolta, invece, la signora non era più là; gli avea promesso di trovarsi in casa, e aveva creduto ben fatto di andarsene attorno. Chi sa, proprio in quell'ora, alcuno di tutti quei farfalloni che erano stati la sera addietro al concerto, le si accompagnava sotto i portici di Po, per farsi vedere al suo fianco da tutti gli scioperati del caffè Florio, e per recitarle un'altra serqua di svenevolezze. E forse, non era ella uscita appunto di casa per compiacere taluno di loro? Si sa, un'occasione è presto trovata; accompagnarla a cercar della musica; a, vedere l'armeria del palazzo reale, il santo sudario, il ponte sulla Dora... Infatti; da quanto tempo era uscita? Egli aveva dimenticato di chiederlo alla fantesca, e non poteva decentemente richiamarla per fare una simile domanda. Maledetta premura! maledetta sbadataggine! Già, a questo mondo, c'è sempre da imparare qualcosa.
E i minuti passavano, intanto; ed anche le decine di minuti. L'albo dei manoscritti non poteva aver più attrattive per lui. C'era là dentro il nome di quel Paolo, che gli dava molestia. Al diavolo l'albo! Il nostro eroe fece un pezzo le volte del leone in quella gabbia elegante; finalmente non potendone più, perchè oramai era trascorsa mezz'ora prese il cappello (nel senso proprio, s'intende, perchè nel senso figurato lo aveva già preso) e uscì nell'anticamera, dopo, aver lasciato sul tavolino della signora il suo mazzolino di viole mammole e la sua carta di visita.
- Avvertite la signora che sono stato.... - diss'egli asciutto alla donna di servizio.
- Ma la signora non può tardar molto. Ha detto che torna subito.
- Sta bene, sta bene; - rispose l'Ariberti, che oramai non poteva più dare indietro, - ho qualche faccenda da sbrigare; passerò domani.... o più tardi, - soggiunse egli, a mo' di correttivo.
Scese le scale sbuffando, maledicendo le donne che non ci avevano colpa, e le prime donne, che non dovevano esser tenute pagatrici per una sola di loro. Era già nel portico, quando s'imbattè in lei, che tornava a casa in compagnia della madre.
- Cattivo! dove correte? e con quella cera, poi?
- Ma.... signora.... - balbettò egli confuso e senza aver tempo di dare al suo volto un'espressione più serena. - Vi ho aspettata un po'... sarei tornato più tardi... avevo qualcosa da fare...
- Sì, sì, le grandi faccende che dovete aver voi! - - interruppe ella ridendo. - Venite qua, uomo di poca pazienza, e di nessuna fede. Ho da parlarvi, a lungo; - aggiunse, stringendogli fortemente la mano.
A quella stretta sarebbe stato colto anche un orso. Ed Ariberti era un uomo. Dunque potete argomentare che l'ira gli sbollisse ad un tratto e che tornasse mansueto come un agnellino seguendo, anzi accompagnando la diva su per le scale, e temendo quanto più gli venne fatto quella leggiadra manina prigioniera. Chi poi fosse davvero il prigione ditelo voi.
- Purchè non capiti gente a far visita; - rispondeva egli frattanto, mettendo il piede sul primo gradino.
- Non ci sarò per nessuno; siete contento?
- Ah, voi siete un....
- Zitto! Non ho le ali. Se le avessi, sarei tornata prima d'ora. Figuratevi; ho dovuto andare fin quasi in fondo di via Doragrossa, per trovare una certa stoffa... A proposito, siete così buono da tenermi questo involtino?
- Oh povere mani! - esclamò egli sollevandola prontamente di quelle poche once che poteva pesare l'involto. - E così, rinunzierete per un'ora alle vostre visite? Ma potranno credere i Proci che Penelope non è in casa?
- Mi hanno veduto fuori, e lo crederanno; - diss'ella ridendo; - li ho incontrati quasi tutti, il vostro amico dell'Euterpe, l'avvocato Germani, il cavaliere Roberti e via discorrendo. Ma io volavo.....
- Ah vedete? Le avevate, le ali!
- -Voglio dire che correvo in fretta e che non sono stata ad accogliere i loro omaggi.
- Se sono discreti, si contenteranno di avervi veduta; - ripigliò Ariberti, che era in vena di galanteria. - Il sole non risplende mica tutti i giorni, a Torino!
- Pazzo! - esclamò Giselda. - Poc'anzi eravate così imbronciato, ed ora...
- Ed ora, di che vi meravigliate? Il sole, che rasserena il cielo, ha rasserenato il mio cuore.
- Questa è graziosa; - disse Giselda, arrossendo per modestia e insieme per contentezza; - e sebbene sia un complimento, lo accetto. Perchè infine, signor orso mio riverito, poc'anzi facevate muso, ed ora siete diventato galante come un cavaliere di Francia. -
La mamma seguitava su per le scale quella coppia di chiacchierini. Italiano, come ho detto, non ne masticava; però, ogni qual volta gli occhi dei due giovani s'incontravano ne' suoi, la vecchia signora si contentava di sorridere. Il sorriso, si sa, è la difesa degli ignoranti e dei sordi, che non vogliono parer tali. E qualche volta ne vengono a capo. Io conosco uno, della prima categoria accennata, che, sorridendo sempre, ha scroccato la sua riputazione di cervello sottile.
Con questi lieti discorsi giunsero in casa, e la signora Szeleny andò speditamente dal salotto alla sua camera, per deporre il cappellino e la mantiglia.
- Oh il soave profumo! - gridò ella passando. - Che cos'è? Mi avete portato dei fiori? -
E scomparve senza aspettar la risposta. Ma poco stante fu di ritorno, per levar di pena la madre, che teneva viva la conversazione con Ariberti continuando a sorridere, non senza una certa noia pei suoi muscoli facciali.
Il primo passo di Giselda fu pel suo tavolincino, dove stavano le viole mammole di Ariberti. Ma come fu giunta dinanzi all'ara delle offerte, vide la carta di visita, fu questa che ebbe da lei le primizie della attenzione.
- Bel nome! - diss'ella. - Come siete armoniosi, voi altri italiani! Ma cattivi; - soggiunse poscia, con piglio di fanciullesco dispetto. - Ecco qua una piegolina sull'angolo della carta, che vorrebbe dirmi «signora Giselda, sono venuto, non c'eravate, a rivederci un altro giorno, la mia visita è fatta, mi son levato un peso dal cuore».
- Quante cose in una piegolina! - notò sarcasticamente Ariberti. - Io non ce le ho messe davvero.
- Ma sì, ma sì, che ce le avete messe; - replicò essa battendo il piedino sul pavimento, con atto di amabile sdegno. - Perchè avete piegato quest'angolo?
- Perchè si usa, mi pare; - rispose egli timidamente.
- No che non si usa, almeno con me, quando si può aspettare un pochino, o quando si vuol dire: tornerò tra mezz'ora. Ecco qua, non meritereste nemmeno che io accettassi i vostri fiori. -
Così dicendo, accostava il mazzolino alla faccia, per respirarne le fragranze. Indi, spiccati alcuni fiori dal colmo, li riponeva diligentemente nella sparato della veste, sotto le crespe di una gala di trina; gentil custodia del seno, che avrebbe inspirato un sonetto al Petrarca, e un'ottava all'Ariosto.
Il giovine innamorato guardava e taceva, assaporando la sua gioia, come la madre di Diana, quando contemplava la sua bella figliuola.
- Latonae tacitum pertentat gaudia pectus.
- Ne volete? - disse alla perfine Giselda, sollevando lo sguardo verso il taciturno gaudente. - Ve ne metto due all'occhiello.
- No grazie; - rispose egli tra umile e malcontento. - Ne vorrei una di quelle. -
E accennava le mammole che avevano già trovato il luogo migliore.
- Ah! - esclamò Giselda, alzando il dito in atto di difesa. - Queste poi no.
- Perchè queste son vostre, e le debbo tener io.
- Ma anche quest'altre son mie, mi sembra, o, per meglio dire, vi vengono da me.
- Sì, ma non posso già inalberare tutto il vostro mazzolino. Ne ho preso la mostra e la serberò gelosamente; mi avete capito? Or dunque, signor mio, queste violette che vedete sul tavolino, son mie, e ve ne offro; queste altre - e accennava così dicendo i fiori nascosti sotto la gala, - son vostre e me le tengo io. Vi piace così?
- È una cattiveria! - -rispose egli imbronciato.
- Ah sì, cominciamo da capo! - diss'ella, con piglio di padronanza. - Venite qua e lasciatemi fare. -
Ariberti dovette contentarsi di quella cortesia fatta a mezzo e fiutare le violette più fortunate da lunge. La signora Szeleny aggiustava ogni cosa a sua posta e passava alla svelta su tutto quello che non le andava a genio di fare e di dire.
- Ecco fatto; - ripigliò essa, com'ebbe raffermati i fiori all'occhiello del soprabito. - Ora, sedete un po' qua ed aiutatemi a dipanare questo matassino di seta. Vedete? Ho da disfare e ricucire una veste. Le vostre sarte torinesi non mi finiscono. Così; tenete a modo, colle mani più alte. E adesso?....
- Vi pare?
- Oh, se mi pare! Io credo anzi....
- Che arrufferemo la matassa, se mi lasciate cascare i giri a questo modo.
- Avete ragione; non mi accadrà più. Dunque, io dicevo....
- A proposito, dove siete stato iersera?
- A teatro, lo sapete. Dicevo che il vostro profilo...
- A teatro, sì, è vero, e mi dovete raccontare l'intreccio. Animo, dunque; atto primo, scena prima!
- Signora, a cominciare di qui, si andrebbe un po' troppo per le lunghe.
- Non sbadiglierò, ve lo assicuro. Amo le storie lunghe, io.
- Come intendete voi? Amereste le storie che non finiscono più?
- Ah, queste sarebbero eterne. E di eterno, pur troppo, non c'è nulla nel mondo.
- Errore, signora mia! Io so d'una cosa che potrebbe esserlo, purchè voi la vedeste di buon occhio.
- Sì, sì, vi capisco; voi continuate la vostra frase, - interruppe ella ridendo; - poc'anzi rasserenavo i cuori; adesso ci fo nascere la sempreviva. È ancora l'ufficio del sole.
- Eh, perchè no? Ridete liberamente e schiudetemi i tesori dell'Eritreo; purchè ammettiate la possibilità della cosa.
- Ah, non ho detto questo; anzi, la nego. Nella mia qualità di sole, conosco gli uomini quanto bisogna, per non conceder loro una così grande virtù. -
Una stoccata al cuore non avrebbe, io credo, fatto più senso al nostro giovinotto, di quel che facesse quella semplicissima frase, quantunque, accartocciata in uno scherzo, potesse fino ad un certo segno interpretarsi anch'essa per uno scherzo e nulla più.
Ella conosceva gli uomini! Bella notizia! Poteva adunque parlarne ex professo? E il povero ragazzo se li vedeva sfilare davanti, processione noiosa tra tutte, cominciando da quel signor Paolo ungherese, che aveva vergato la prima pagina dell'albo, e venendo giù. giù, fino.... a proposito, fino a chi? Probabilmente a quel temerario d'un cavaliere Roberti, o ad un altro, conte o duca, conosciuto in Milano, dove la signora Szeleny aveva il suo domicilio artistico. Infine, che c'era egli di strano? Una donna giovane, bellissima, elegante, abbandonata (perchè l'artista è sempre una specie di Didone, senza l'amminicolo del rogo), che cos'altro ha da fare, se non lasciarsi corteggiare un tantino? Il mondo è una selva, e dietro ad ogni tronco d'albero, dietro ad ogni cespuglio, c'è un cacciatore appostato. Se ne cansa uno, se ne cansano due; il terzo vi crivella un'ala, o vi fracassa uno stinco.
E la processione s'inoltrava, cresceva, sfilava a dilungo; tutti quei cavalieri, vagheggini, damerini, cascamorti, zerbinotti, pezzi grossi, Alcibiadi antiquati e rimessi a nuovo, passavano daccanto a lei, le bisbigliavano una parolina all'orecchio; ed ella si faceva rossa in volto, ma sorrideva, sorrideva sempre e con tutti. Ahimè, così vuole la civiltà, ma così porta anche l'inverecondia.
E tutta questa visione per una frase? Sicuro; mi pare d'averlo già detto, e, se non l'ho detto, voi già ve ne siete accorti, o lettori; il mio Ariberti era un tipo di delicatezza che quasi potrebbe chiamarsi morbosa. Siffatti caratteri son più frequenti che non si creda nel tempo nostro, che è pure il tempo del mal di nervi. Saremo forse meno disgraziati di prima, può darsi, ma è un fatto che soffriamo di più; la raffinatezza del sentimento ci ha recato i suoi mali inseparabili, la diffidenza e lo struggicuore. Non siamo mai stati tanto sospettosi, tanto sottili, tanto tiranni per noi e per gli altri, come ora. È un bene? è un male? Potrei dirvelo, ragionandoci su; ma, figlio del mio tempo anzitutto, dubito anch'io e vi rispondo: non so.
Comunque, e lasciando le sottigliezze da banda, quella frase di Giselda potea dirsi un errore. Che bisogno c'era egli di dirla? Ma già, la signora Szeleny non era migliore nè peggiore di tante e tante altre. Era una bella zingara, piena d'ingegno ed anche di cuore; ma nella vita randagia dell'arte aveva forse perduto tutte quelle velature e delicatezze di sentire, che accrescono il pregio della bellezza e perfino della severità di costume.
Ricordate l'involucro velloso che rende più gradito nella sua medesima ruvidità il calice d'una rosa non ancora brancicata? Orbene, intenderete dunque che cosa mancasse alla signora Giselda, a questa leggiadra farfalla, che, aliando qua e là, aveva lasciato contro le siepi dell'orto, o sotto una scossa di pioggia primaverile, il suo polviscolo d'oro.
Ora la storia di quella graziosa farfalla, Ariberti doveva industriarsi a conoscerla, ed ella doveva sollevare un lembo della cortina che nascondeva il suo passato, senza pensar più che tanto alle nuove ferite che poteva arrecargli. Che egli l'amasse, Giselda doveva pure vederlo; ma probabilmente essa aveva quelle sue tenerezze in conto di una galanteria mascolina, o almeno di un impeto giovanile. E mostrava di corrispondergli, sì, certamente, perchè Ariberti non era e non poteva riuscirle antipatico. La donna apprezza sempre chi l'ama; al poi ci ha da pensare il destino. Non ce ne avvediamo, ma facciamo qualche volta lo stesso. Non siamo noi prepotenti la parte nostra? Non pretendiamo che le donne si mettano ad ogni risico per noi? Or bene, anche le donne hanno la loro ragione di operare, che non è punto la nostra, o non somiglia alla nostra; e quella fusione di pensieri e di gusti, che noi domandiamo, è una fisima del nostro cervello. Quando per avventura ella s'incarna, quando da una parte e dall'altra c'è quel delicato riguardo, quel desiderio di piacere, di interpretare, di indovinare scambievolmente i gusti e i pensieri, i filosofi dicono che da una delle due parti c'è sacrifizio manifesto; gli scettici del mondo elegante asseriscono che l'una e l'altra si smarriscono nelle sottigliezze e non intendono la vita.
Torniamo al fatto. La storia di Giselda era semplice e poteva compendiarsi in poche parole. Figlia ad un colonnello dell'esercito austriaco, non ricco, e morto da molti anni, la giovinetta era stata educata signorilmente. Era piaciuta ad un giovine di Pest, figlio del padrone della casa in cui la fanciulla e la madre abitavano. Quell'amore, cresciuto nella dimestichezza del vicinato, dispiacque ai parenti del giovane, e la ruggine che ne seguì tra le due famiglie portò per conseguenza uno sgombero, che era anche consigliato alla vecchia signora Szeleny da ragioni di economia domestica.
Intanto, il giovinetto era mandato a cambiar aria; quanto a lei, che sapeva abbastanza di musica e aveva una graziosa vocina di mezzo soprano, la madre pensò di condurla a Milano, terra del canto, e semenzaio di artisti.
La famiglia del giovane aveva aiutato a render possibile questo disegno delle signore Szeleny? Questo punto non fu mai potuto chiarire; rimanga adunque con altri punti oscuri, o controversi della storia, che sono del resto moltissimi, e uno di più non aggraverà sensibilmente il fardello della umana ignoranza. Piuttosto sarebbe da indagare come il signor Paolo (chiamiamolo così perchè a conti fatti dovrebbe esser lui lo scrittore della prima pagina d'albo) comportasse la sua disgrazia amorosa. Ma questo possiamo argomentarlo da noi, pensando che il signor Paolo aveva ventidue anni, età dei grandi dolori e delle grandi consolazioni. La qual cosa ci potrà far intendere altresì che l'innamorato, ardente da prima e disperato peggio di Werther, aveva dovuto consolarsi, e lasciar le pistole nella vetrina dell'armaiuolo. Che diamine! Vienna non era poi l'ultima Tule, e nemmanco Ovidio, quel gran maestro e schiavo d'amore che sappiamo, aveva creduto di uccidersi, nel suo confino del Ponto. Pensiamo dunque per la migliore che il signor Paolo non è stato guari senza trovare il suo Boezio nella cerchia della Ringstrasse, che ha vissuto lietamente da scapolo un paio di anni tanto per fare il lutto conveniente al suo amore infelice, che ha preso moglie, viaggiato l'Italia e fors'anco rasentato l'uscio di casa della cantante, a Milano, senza che il suo cuore dèsse una battuta più rapida delle altre. Hélas, ha detto la signora di Solms, tout passe, tout lasse, tout casse.
Quanto a Giselda, si può credere facilmente che ella avesse trovato nella dignità offesa un possente rimedio ai rammarichi della fanciulla abbandonata, perchè senza dote. E poichè il destino aveva voluto così, poichè i pretendenti accettabili si sarebbero presentati tutti, qual più, qual meno, nelle condizioni del signor Paolo, poichè infine la vita signorile a cui l'aveva assuefatta la sua educazione bisognava pure continuarla, avvenne che la signorina Giselda lasciasse l'Ungheria senza rimpianto e vedesse anche con una certa compiacenza l'occasione di andare in Italia per dare l'ultima pulitura alle sue corde vocali. L'ombra del Duomo di Milano coperse il segreto de' suoi sogni delusi.
Al tempo in cui la mia storia la incontra, tutti quei dolori erano passati, non lasciando altro che la traccia naturale dell'esperienza nel cuore di lei. È anche probabile che questa esperienza si fosse accresciuta, mercè nuovi studi dal vero. Gli uomini le erano sfilati dinanzi a diecine, con tutte le loro dorate prepotenze e le loro squattrinate follìe. Ed essa, perdendo la freschezza e il profumo delle illusioni, era tornata ilare e franca; ma venendo sul capitolo dei signori uomini, di cui pure gradiva gli omaggi nella sua duplice natura di donna e di artista, diceva che non avrebbe creduto mai alle loro proteste di amore e di fede.
E questo piaceva grandemente alla signora Mary (debbo dir signorina? no, ho detto signora, e forse è già troppo), alla signora Mary, inglese di Nizza, o nizzarda d'Inghilterra che dir si voglia, e amica sviscerata da venti giorni, della signora Giselda. Arcades ambo, cioè a dire, artiste tutt'e due, nubili tutt'e due, diseredate tutt'e due dalla sorte, e risolute, ognuna secondo il poter suo e le sue vie particolari, a conquistare un posto nelle prime file, dovevano fare insieme una lega, che sarebbe poi durata come tutte le leghe in generale, e come quella delle donne in particolare, quanto avrebbe potuto.
Una parte della storia di Giselda, e la men facile a raccontarsi in persona prima, l'aveva lasciata trapelare per l'appunto ad Ariberti la signora Maria, un giorno che egli, più cotto che mai, pieno di speranze, di dolori e di debiti, era andato nella casa di via d'Angennes, senza trovare Giselda, che era alle prove in teatro, e incontrandoci in quella vece la grande demoiselle (così aveva preso egli a chiamarla), che egli fece umanamente gli onori di casa. Mary custodiva l'amica, come il famoso drago dell'antichità vigilava l'albero dello melarance nell'orto delle Esperidi. Era burlona in apparenza e maligna dentro come una scimmia; però le sue celie sapevano sempre d'amaro. Son esprit a des griffes, avrebbe detto il Candioli. Punzecchiava sempre il povero Ariberti, lo canzonava intorno alle sue vane speranze e lavorava con un gusto matto a stringerlo tra l'uscio e il muro.
Un giorno, che erano andati tutti insieme a vedere il castello di Moncalieri, la signora Maria notò con piglio dispettoso la fanciullaggine di Ariberti che aveva fatto per Giselda una raccolta di fiori selvatici e pretendeva di farle portare tutto quel fascio di sterpi.
- -Non sapete regalare che del verde! - gli disse, con aria di superbo dispregio.
- Signorina, - rispose Ariberti, toccato sul vivo, - nel verde c'entrano anche gli smeraldi.
- Bene, offrite dunque smeraldi, - replicò la stizzosa osservatrice, - et que cela finisse. -
Giselda fu pronta ad intromettersi; domandò a Maria, abbracciandola, che idea balzana le fosse girata pel capo; pregò Ariberti a non far caso di quello scherzo; aggiunse che portava volentieri quei fiori dei boschi, che le ricordavano i begli anni d'infanzia; insomma, tanto disse e fece che la nube fu dissipata e il temporale si chetò alle prime gocce di pioggia.
Ma il nostro innamorato aveva ricevuto la botta e non poteva dissimularla a sè stesso. Sicuro, i suoi erano doni da fanciullo; un diamante, bellamente incastonato, gli avrebbe fatto più onore.
E lui subito a cercarlo. Sarebbe andato di grand'animo a razzolare nelle miniere del Capo di Buona Speranza, se fossero state un po' più alla mano e non gli avessero fatto perdere cinque mesi di tempo, tra l'andata e il ritorno.
Peraltro le difficoltà che doveva superare per impadronirsi di un pezzettino di carbonio cristallizzato, non erano minori a Torino, sebbene quei graziosi nonnulla scintillassero a centinaia nelle vetrine de' gioiellieri. Ci erano infatti quelle maledette lastre di cristallo, che lasciavano vedere e non toccare, c'era per giunta la necessità preliminare di metter fuori quella merce di scambio che è l'oro, o l'argento, vecchio ingrediente di ogni contratto, che la civiltà, con tutti i suoi progressi non ha ancora inventato il modo di lasciare da banda.
Ora il nostro eroe, lì per lì, di quella merce preziosa non si trovava ad averne. Il Priore aveva già snocciolato un cinquecento di lire, e non poteva rendergli un nuovo servizio. Lo mandò per conseguenza da Bonisconti; ma Bonisconti ne aveva meno di lui, e lo mandò da Valerga.
Da Valerga, il poeta? Sissignori, e non era una celia. Valerga poteva aiutare in quel bisogno Ariberti. Apollo s'era messo nei panni di Mercurio: e voglio dire con questo che Luciano si mise l'ali ai piedi per correre in traccia dell'araba fenice dei banchieri e far trovare al suo giovine amico il denaro corrente, coll'interesse ragionevole del seicento per cento. Così almeno mi sembra che debba andare la proporzione, perchè Ariberti sottoscrisse per sei mila, non ricavando dalla merce acquistata che mille.
Il sacrifizio parrà troppo forte a chi va comodamente per la via piana; ma a ciò si risponde che il traffico bene inteso non deve, con un soverchio d'agevolezze nello sconto, lusingare le menti dei giovani e promuovere la manìa scialacquatrice dei figli di famiglia. Va bene che il nostro eroe non domandava la somma per scialarla in bagordi, bensì per fare un grazioso regalo alla sua diva; ma anche su questo capitolo il Ghetto era assai rigoroso, e alla fin fine non ci aveva nulla a vedere nelle ragioni degli innamorati.
- Volete danaro? Eccone; in mercatanzia, ci s'intende, per rivenderla e farne commercio, come dice la frase d'obbligo, e come consiglia il bisogno di non dare nell'occhio ai nemici dell'usura. La merce è danaro; pigliatela per quel che fa la piazza; un compare la ricomprerà, e, nel prezzo che farete, io non c'entro. Del resto, siamo filosofi; l'importanza del danaro va misurata al fine che l'uomo si propone di raggiungere. Si vuole una soddisfazione? Bisogna pagare anche quella. La domanda rincara la merce; è legge economica. E poi, con che diritto vi lagnate dell'usuraio? Voi giovani comperate con mille, mettendo di costa la gioventù e la fortuna, quello che altri non otterrebbe al prezzo di ventimila. Dunque, ecco subito diciannove mila di differenza, che io posso mettere in coscienza a mio profitto. Questa è giustizia distributiva e null'altro. -
Così doveva ragionare il vecchio Aronne (Arunel-Rascid, come lo chiamava Luciano Valerga) che imprestò ad Ariberti il danaro, o gli vendette la sua merce in guanti e calze di seta, che tornava lo stesso. La merce valeva poco in confronto della somma, direte; ma, e la firma dello studente valeva forse di più? L'onesto Aronne non doveva essere compensato in qualche modo del risico?
La ricerca del capitalista, i negoziati, la sottoscrizione delle cambiali, la consegna della merce, la commedia del sensale per far parer manna ad Ariberti le mille lire, in cambio di seimila che doveva valere tutta quella roba di scarto, tirarono maledettamente in lungo il negozio. I moccoli attaccati dallo studente non furono pochi, anche perchè sul più bello si venne a conoscere (e il sensale mostrava di non vederci più lume) che metà dei guanti venduti dal giudeo erano tutti della mano sinistra, e che probabilmente un così gran numero di monchi della mano destra non si sarebbe trovato a Torino. Finalmente, il nostro Ariberti, che già non sapeva più con chi farsela tra i santi del paradiso, avendoli invocati tutti a suo modo, intascò le mille lire e gli parve ancora una grazia particolare del cielo, che, per dire la verità, egli aveva assai poco meritata.
Intascò le mille lire, ho detto, ma gli si dimezzarono pochi minuti dopo nella borsa, per la compera di un elegantissimo medaglioncino, tempestato di brillanti e corredato del suo monile, affinchè Giselda potesse cingerne il collo.
La signora Szeleny vide il gioiello, ne rimase grandemente ammirata e lo fece anche vedere a Maria, che promise ad Ariberti di ritrattare la sua frase di Moncalieri, al secondo presente d'uguale valore che egli avrebbe fatto a Giselda. Ma questa le diede sulla voce, anzi non accettò il dono del giovane, e non ci fu verso di farglielo tenere.
- Alla mia serata, - gli disse da ultimo, temperando nelle preoccupazioni dell'artista gli scrupoli della donna, - alla mia serata, non dico di no; farà spicco, e qualche altra regina del palcoscenico, morrà per cagion vostra, dalla rabbia. -
Di fatti, la stagione teatrale al Regio era già abbastanza inoltrata e Giselda aveva cantato in due opere di ripiego, per dirla anche noi nel gergo di palcoscenico. Disgraziatamente la cantatrice non era piaciuta che per la sua bellezza, o piuttosto la sua bellezza aveva fatto passar sopra alla povertà della voce e dell'azione drammatica. Cantava bello, come suol dirsi con vecchia arguzia dagli Aristofani delle platee. Ora, perchè la bellezza frutti applausi da sola e faccia andare in visibilio i dolci di sale, è mestieri che questa bellezza si mostri umana, e lusinghi, coi sorrisi dalla ribalta e colle presentazioni in casa, l'amor proprio ai semidei del proscenio, e agli eroi delle sedie chiuse. E questo non era il caso della signora Giselda, che aveva fatto poche conoscenze tra gli onnipotenti del giorno, quantunque ad Ariberti paressero già troppe; e quelle poche, poi, non sapevano acconciarsi di buon grado alla eterna presenza di quello sbarbatello, geloso in vista e permaloso, secondo i casi, peggio di un antico cavaliere spagnuolo.
Dunque, visibilio no, e gli applausi erano pochi. La freddezza del pubblico recava per contraccolpo una nuova e più grande molestia allo studente, costretto a farsi in quattro, in otto, in dodici, per procacciare un'ombra di partito, che le dicesse brava nei punti topici e sostenesse i battimani, o per dettare su questo giornale e su quello articoli laudatorii, che dovevano andare, diligentemente ritagliati dalla pezza, a rimpinzar le colonne dei giornali teatrali delle altre città, come testimonianza credibile dei trionfi di Torino.
Giselda lo ringraziava, ma senza andare in visibilio neppur lei, come lo avrebbe ringraziato per un mazzolino di viole mammole, o per una scatola di confetti. Forse tutti quegli atti di servitù le parevano naturali, anzi obbligatorii in ognuno che l'avvicinasse: fors'anco vedeva di non avere incontrato il favore del pubblico e la sua dignità non le consentiva di riconoscerlo apertamente, con dimostrazioni di gratitudine a quel povero ragazzo. Certo, ella si dava molto pensiero del suo avviamento artistico, e per naturalissima conseguenza le si era infiltrato nell'amena un miccino di vanità, d'amor proprio, di gelosia, in faccia alle altre sue compagne di palcoscenico. Quello delle quinte è un altro mondo nel mondo; ha una lingua sua, passioni sue, allegrezze, dolori, trionfi e vergogne
Che intender non le può chi non ci vive.
Cittadina di questo piccolo mondo e partecipe a tutte le sue debolezze, la signora Szeleny ringraziava facilmente, ma leggermente altresì, il giovine innamorato dei suoi quotidiani servigi, e metteva in quella vece tutto l'ardore a desiderare, usava tutti i più sottili accorgimenti a procurarsi la parola amica di chi avesse taciuto fino a quel giorno, o il favore e l'applauso di chi, tra i semidei che ho detto più sopra, le si fosse mostrato restìo. Il sorriso confidenziale, o la protezione grossolana di un impresario, la mandava a casa più allegra di quel che facesse un sì di petto, venuto fuori senza stento soverchio; una risposta ritardata d'agente teatrale la faceva stare di cattivo umore per due giorni alla fila. S'intende che per ogni visitatore ella sapea ritrovare la sua giocondità di prima e sciorinare le sue grazie più elette. Erano conoscenti e sarebbero andati a teatro; bisognava dunque far loro buon viso. La vittima era sempre Ariberti, Ariberti che tutti credevano felice, o almeno molto innanzi nel favore della diva, ma che pur troppo avrebbe potuto cedere i suoi profitti al portinaio, senza dar nulla di sicuro, o giuocarseli col suggeritore, con cui erano pari quanto a sostanza di felicità, cioè a dire molto vicini per soliti, ma unicamente da' piedi.
Unico guadagno era per lui quella sapiente mistura di dolce e di amaro che Giselda sapeva ministrargli ogni giorno; verbigrazia, la stretta di mano serbata a lui ultimo nell'ora di commiato, l'occhiatina furtiva negl'intervalli d'una conversazione che lo avesse condotto ad un pelo di prendere il cappello e di andarsene, o un bacio lasciato deporre su quelle sue dita affusolate, in un momento d'oblìo, mentre il discorso era rivolto a tutt'altro. Così viveva il nostro povero eroe, cangiando d'umore più volte al giorno, che non faccia di colori il cielo in un tramonto d'autunno.
Ho detto degli articoli che scriveva egli solo su parecchi giornali, ma non ho detto quanto gli costassero, d'inchini, di sotterfugii e d'altro. Figuratevi che per ficcarne uno di poche linee nella cronaca d'un giornalone politico, aveva... Ma no, non lo dirò, perchè non mi si accusi di aver disvelato i misteri d'Eleusi ai profani.