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Anton Giulio Barrili
La notte del commendatore

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CAPITOLO XV.

 

In cui è dimostrato, contrariamente al proverbio, che chi non cerca trova.

 

La serata a benefizio di Giselda Szeleny venne finalmente, per accrescer le cure e l'ansietà dell'innamorato che ormai si era fatto più molesto di un padre di ballerina, o d'un marito di prima donna poco assoluta. Già, di studii universitari non si parlava da un pezzo; anche il suo dramma, finito a Dogliani, che doveva essere posto in scena in quel medesimo inverno per grazia profumata di un capo-comico di terz'ordine, era lasciato affatto in balìa degli attori. Ariberti non vedeva più altro fuorchè le faccende di Giselda, non si curava più d'altro fuorchè delle sorti d'una serata, a cui mancava il più sicuro fondamento, cioè l'entusiasmo del pubblico. Non avrebbe fatto quel mestiere di galoppino per tutto l'oro del mondo; e lo faceva in cambio per nulla. Ma chi nol sa? L'amore come la fame, piega gli uomini ad ogni sorte d'uffizi.

Per far numero in teatro, aveva preso in affitto quella sera un palco di seconda fila, e si era invitata presso di lui la signora Maria, coll'amminicolo della zia e d'un vecchio parente, o amico di casa che fosse, della categoria dei personaggi che non parlano. Questo onore sulle prime non gli andava molto a' versi, ed era rimasto perplesso mettendo fuori il dubbio che probabilmente non avrebbe trovato un palco degno di ospitare la grande demoiselle; ma Giselda aveva mostrato piacere che la cosa andasse per l'appunto così, ed egli, che il palco se lo era già accaparrato, aveva finito col dirle: et cum spiritu tuo o qualche cosa di simile.

Eccolo dunque colla signorina Mary (ho detto signorina? orbene lasciamola andare), che faceva uno sfoggio meraviglioso di trine, di svolazzi, e d'altri fronzoli donneschi, nel suo palchetto di seconda fila. Era bella, più bella del solito in quella sera, l'inglesina di Nizza. Ho già detto che la sua era una bellezza un po' dura; ma debbo soggiungere che lo sfarzo delle vesti, la luce del teatro e la soddisfazione di stare in vista come una regina seduta sul trono, l'avevano trasfigurata senz'altro.

Una cosa notò Ariberti, che doveva notarne tante in sua vita; vo' dire la disinvoltura con cui certe donne accolgono i servigi di un uomo, che pare gli facciano grazia, e lo contano nulla, per , o poco meno di nulla, salvo a contarlo assai da un momento all'altro, senza una ragione sufficiente di quel cambiamento d'umore. Infatti, per allora, il cavaliere della bella nizzarda non contava niente più del personaggio muto che aveva accompagnato la zia. In quel palchetto si pigiavano e si succedevano le visite, e lui, l'accompagnatore e l'ospite, doveva rimanere per necessità della carica, ma risospinto ad ogni nuovo arrivo e dimenticato a dirittura in un angolo.

Inoltre, tutti quei farfalloni facevano un chiasso del diavolo non permettendo nemmanco di mettere un po' d'attenzione allo spettacolo. Mary qualche volta si provava a dar loro sulla voce ma con un tono che dava ansa a far peggio.

- Signori, sentiamo la cavatina, vi prego; è così bella!

- Sì, se fosse bene cantata.

- Non ne sapete ancor nulla. Stiamo dunque un po' cheti.

E gli altri a sorridere maliziosamente, a far boccacce, fino a quel segno che consentivano le buone creanze, ed anche ad esprimere più apertamente i loro riveriti dubbi intorno al merito della cantante. Non avevano poi tutti i torti; ma infine, perchè scegliere appunto quel palco per loro tribunale? Ariberti, non potendo rimbeccarli senza mancar di rispetto alle dame, fremeva in silenzio e si mordeva le labbra. E vedete combinazione: anche Maria difendeva fiaccamente l'amica; anzi peggio, la difendeva in modo, da farlo schiattar lui dalla rabbia.

- Signori, - diceva l'inglesina, assumendo un'aria d'autorità, che rasentava la celia, - vi proibisco di trovar difetti nella signora Szeleny. È la mia migliore amica, ed io non posso ascoltarvi. -

Venne finalmente la grand'aria di Giselda, e qualche applauso della platea, aiutato coi gesti dal palco di Mary, che aveva voluto dai suoi visitatori quell'atto di compiacenza, permise ai servi di scena di farsi avanti coi mazzi di fiori e col vassoio d'argento, su cui era posato quel tale astuccio di gioielli che i lettori conoscono. I mazzi erano quattro, e tutti del povero Ariberti, che si era proprio spartito in quattro, per far comparita in quella solenne occasione.

- Quattro mazzi! Di chi saranno? - si domandava nel palco.

- Ecco, - rispose l'inglesina, - uno è mio. -

Non era vero, come Ariberti sapeva per prova; ma un'occhiata che gli diede, o per dir meglio, che gli gittò in fondo al palco la giovane, lo fece complice di quella audace bugia. Quell'occhiata pareva dirgli: vedete, dico così per non farvi sfigurare; ringraziatemi.

- Il secondo, - soggiunse Mary, - è del mio gentil cavaliere, che partecipa alla mia ammirazione pei meriti di Giselda. Il terzo dev'essere dell'avvocato Germani, compitissimo gentiluomo, come saprete...

- Non c'è che dire; ma il quarto?

- Il quarto... non saprei. Aspettate; potrebbe essere del cavaliere Roberti.

Lo studente sorrise, nascosto nell'ombra, che sbattevano i festoni di seta sul fondo del palco.

- Con una piccola variante nel nome, - disse egli tra , - la notizia potrebbe esser vera. -

E pensò con piacere che il cavalier Roberti non aveva mandato nulla a Giselda; segno evidente che era messo fuori di speranza e avea preso il broncio con lei.

Intanto i curiosi continuavano ad almanaccare.

- E quell'astuccio di velluto, che cosa conterrà?

- Scommetto che è un finimento di filigrana genovese.

- No, è troppo piccolo; ci ha da essere un dono più prezioso.

- Diamanti?

- Eh! piccolini, s'intende.

- Chi lo avrà regalato?

- Altro mistero!

- Qualche volta sono astucci vuoti, per far restare di stucco i compagni del palcoscenico.

- Eh via! Come se i compagni di palcoscenico non domandassero di vederci dentro!

- È, vero; correggo la frase. Si tratta invece di un solo ed unico monile, che figura su tutte le piazze. È il dono di un primo protettore, e non fa che andare e tornare dalle valigie della signora alla ribalta, e dalla ribalta alle valigie.

- Che supposizione! - esclamò la signora Mary. - Non vi vergognate? Qui poi non è il caso.

- Signora, parlavo sui generali; - rispose il Don Marzio che aveva sofisticato a quel modo. - Del resto, l'astuccio regalato alla vostra amica non può venire che dal più ricco de' suoi conoscenti.

- Chi lo sa? che cosa intendete per ricco?

- Non già un milionario; - disse di rimando il maligno; - mi basta assai meno; supponiamo un cavaliere Roberti.

- V'ingannate; so io chi ha mandato l'astuccio, e non è il cavaliere Roberti; - replicò l'inglesina troncando il filo alle supposizioni dei suoi cavalieri.

Un'altra occhiata in fondo al palchetto diceva intanto ad Ariberti; vi servo bene? Non era molto, per verità, quel che aveva fatto la signora Mary; cionondimeno il giovinotto gliene fu grato.

Così la complicità era assicurata; una bugia da una parte, un servizio dall'altra, e Ariberti era in trappola. La signora Mary pose il colmo alla sua bontà, applaudendo nell'ultimo atto e facendo applaudire Giselda a tutta forza dai cavalieri che erano in visita presso di lei.

Ma ohimè, il teatro era vasto, e non c'erano in molti a sostener l'onore delle armi della signora Giselda. La platea si scaldava poco, e il chiasso degli assoldati, dei compiacenti e dei matti, le tre categorie di entusiasti a freddo nei teatri italiani, presentava molte lacune, lasciava sentire lo scalpiccìo, i colpi di mazza nelle panche, i boati; tutti rumori che aiutano in un pieno d'orchestra, ma che, uditi da soli, o quasi, vi danno il medesimo gusto d'un concerto di contrabbassi.

Come Dio volle, la tortura morale a cui era stato sottoposto per quasi tre ore il nostro eroe, giunse al suo termine. Giselda ebbe tre chiamate al proscenio; molto contrastate, è vero, ma le ebbe, e tutti giornalisti teatrali potevano oramai registrarle per sei nel libro della gloria, tenuto da essi accanto a quello degli abbonamenti. I visitatori ad un per uno se n'erano andati, rispettando i diritti dei cavalieri serventi, e dopo di loro uscivano Ariberti e il personaggio muto dando il braccio alle dame, o pedine che fossero; perchè io non ci ho predilezione per un vocabolo sopra l'altro, e lascio libera la scelta ai lettori.

Ariberti avrebbe desiderato di poter rimanere nell'atrio del teatro, per aspettare Giselda all'uscita. Ma come fare? Aveva ordinate signorilmente le cose, e una vettura di piazza, attendeva le dame, che per tal modo avrebbero potuto andare a casa da sole, o tutt'al più accompagnate dal personaggio di cui sopra. Ma ecco che all'ultimo momento, e proprio sul montatoio, un'idea stravagante saltò in testa all'inglesina.

- Andiamo a piedi? - chiese ella, ricusando l'aiuto che Ariberti le offriva per farla salire in carrozza. - il tempo è così bello!

- Ma freddo; - disse la zia, che già era comodamente seduta sul cuscino.

- Bene; allora va tu, cara zia; il signor Arnaudi avrà la bontà di tenerti compagnia. Noi proseguiremo a piedi. Io sento proprio il bisogno di fare due passi; l'école buissonière, - soggiunse ella in francese a bassa voce volgendosi ad Ariberti, che era rimasto impacciato come un pulcino nella stoppa.

La zia doveva esser avvezza a questi capricci della nipote, perchè non si provò nemmeno a far contro, con uno dei soliti ma delle zie.

Quanto al signor Arnaudi, egli non venne meno alla sua fama, e, muto come un pesce, salì in cocchio, felice in cuor suo di aver guadagnato il posto buono.

La carrozza si allontanò, e la signorina Mary chiudendosi nella sua mantellina, si strinse al fianco del suo cavaliere, prima ancora che egli avesse pensato ad offrirle il suo braccio.

Andarono un tratto, silenziosi; ella aspettando che Ariberti parlasse, egli non sapendo che dirle. Finalmente, veduto che egli non avrebbe aperto bocca, ella si pose a rompere il ghiaccio.

- Ho voluto tornare a piedi, - gli disse, - perchè ho da parlarvi.

- A me? - domandò egli, dando involontariamente un sobbalzo.

- -A voi, sì; e a chi altri, di grazia? - ripigliò essa con accento tra stizzoso ed ironico.

- Ma, scusate, volevo dire... di che?

- -Eccone un'altra che vale la prima! Avreste forse paura?

- Io... No, signora; e perchè dovrei aver paura, con voi?

- Ma! che ne so io? Voi altri uomini siete così originali, alle volte! Del resto, per farvi vedere che non c'è da tremare in compagnia della grande demoiselle,

- Come? sapete?....

- So il nome che mi avete dato parlando con Giselda, e mi piace. È il soprannome d'una principessa di Francia, ed io mi sento principessa la parte mia; anzi, starei per dire che lo sono tutta quanta. Ma torniamo al fatto; non dovete temere nulla da questo colloquio, perchè si parlerà di Giselda. Ella vi preme tanto, che io spero... -

La reticenza di Mary non fu colta a volo, e nemmeno a passo ordinario, dal giovine Ariberti, che stette muto a sentirla, come se non fosse affar suo. Era un principio di transazione della sua coscienza colla cortesia naturale in un cavalier servente? Se noi possiamo interpretare in questo modo il silenzio di Ariberti dovremo anche aggiungere che quella transazione doveva portarne dell'altre con . Queste cose son come le ciliege, che una tira l'altra, e a poco per volta vi corre anche l'albero.

- Non rispondete? - esclamò l'inglesina, scuotendogli dispettosamente il braccio. - Ma che razza di uomo siete voi mai?

- Io signorina? - chiese egli, coll'aria di un uomo che fosse cascato allora allora dalle nuvole.

- Voi, sì, voi. Ma sapete, signor mio, che c'è da disperarsi davvero per una donna che vi ha fatto l'onore di accettare la vostra compagnia?

- Oh signorina, non mi giudicate male, vi prego. Intendo l'onore che mi fate, e non dimenticherò mai la prova di fiducia che mi avete dato.

- Bene! che c'entra adesso la fiducia? Io non sono mica una donna fragile, che abbia bisogno di fare assegnamento sul rispetto di un uomo, e all'uopo saprei difendermi da per me contro un tentativo di rapimento. Non mi fate dunque un merito d'una debolezza che non ho. Nei casi dubbi, - soggiunse ella ridendo, - io non riporrei mai la mia fiducia fuori di me. Non sono già come voi, che vi buttate sempre ad occhi chiusi...

- In che cosa? e come potete voi asserirlo? - chiese stupito Ariberti.

- Eh, per quel poco che vi conosco. Siete così giovane!

- Orbene, l'esser giovane è forse un difetto?

- In stesso, no; ma alla vostra età si hanno i difetti... dell'età. E bisogna trovare gli amici, che vi aiutino coi loro consigli a correggerli.

- Se potessi sperare di aver trovato quest'amico...

- Donna, non è vero?

- Ci s'intende. Da un labbro di donna, consiglio, o rimprovero, non torna mai dispiacevole.

- Bene, non siete permaloso. Io vedrò dunque di darvi il consiglio. Del resto, è appunto per ciò che ho voluto parlarvi a quattr'occhi.... Voi siete giovane, l'ho detto; avete ingegno; la vostra famiglia è ricca... Non molto ma infine, vi fa vivere nell'agiatezza e voi non avete a lagnarvi della sorte. Siete avviato ad una professione indipendente; non siete antipatico...

- Grazie!

- Oh, non lo dico perchè abbiate ad insuperbirne, o a pensare Dio sa cosa di me. Io, del resto, sono senza pericolo per voi, che siete innamorato...

- Signorina, e chi vi dice?... -

Per intendere questa domanda di Ariberti, bisognerà vedergli un po' dentro. Egli non aveva parlato con nessuno del suo amore per la signora Szeleny, e poteva, fin ad un certo punto doveva nasconderlo, o almeno incocciarsi a non ammetterlo per vero. Ma questo sarebbe stato naturale in lui se avesse avuto dieci anni di più, con tutta l'esperienza e la gravita che portano quei due lustri benedetti nella vita di un uomo. La sua domanda muoveva da un altro pensiero, indicava anch'essa una di quelle piccole transazioni che si fanno con una donna, per quanto poco c'importi di lei. È istintivo nell'uomo di non confessar mai ad una donna, l'amore che si porta ad un'altra. C'è egli in fondo del cuore un secondo fine, un «non si sa mai» appiattato? Ecco un'altra delle cento mila cose che non so. Ordinerei volentieri un plebiscito, per sapere a questo proposito l'opinione dei miei riveriti lettori.

E notate; se quel «non si sa mai», si appiattava in una piegolina del cuore di Ariberti, egli non ne sapeva un bel niente. La domanda gli era venuta spontanea, senza dirgli, o lasciargli intendere, qual sentimento gliel'avesse sospinta alle labbra.

- Signorina, e chi vi dice?...

- Ma tutto il vostro modo di procedere; - rispose la sdegnosa inglesina. - Del resto, si capisce; Giselda è bella, non è vero?

- Sì.

- Intelligente.

- Sicuro.

- Buona.

- Sì, buona davvero!

- -Eppure, vedete, quella donna non è fatta per voi, o, per esprimermi più veramente, non siete fatti l'uno per l'altro.

- E la ragione? - balbettò egli confuso.

- La ragione? Ce ne sono parecchie. Anzitutto, la disparità degli anni; poi quella delle condizioni. Parliamoci chiaro e non abbiamo paura delle frasi; voi non siete così ricco per lei, da poter essere un protettore, o un marito. Ne convenite?

- Sì; - mormorò il giovine chinando umilmente la fronte.

- E... per amante, - proseguì l'implacabile inglesina - per amante, poi, credo che le sareste più assai di impaccio che d'aiuto, nella carriera artistica ch'essa è costretta a percorrere. -

Ariberti rimase ad un tratto in silenzio. Indi alzando la faccia e volgendosi a lei come spinto da un pensiero improvviso le disse:

- Vi ha ella incaricato di parlarmi in tal guisa?

- Che dite voi ora? Io non porto imbasciate per conto di nessuno; - rispose ella con piglio severo, e scotendo la sua testolina per modo che il cappuccio della mantellina le si arrovesciò sulle spalle.

- Scusate, vi prego! - ripigliò Ariberti con aria contrita, mentre si faceva a ravviarle il cappuccio sulla testa, ma senza riuscire nella impresa, e brancicando involontariamente i classici avorii del collo. - Ho detto una sciocchezza e me ne pento. Ma perchè, diamine, la m'è venuta alle labbra? Amo io, dopo tutto, la signora Giselda? È bella, ne convengo, è cortese con me come lo è con tutti coloro che frequentano la sua casa; ed è per questo che si sta tanto volentieri presso di lei. Ma se io fossi innamorato, mi sembra che a quest'ora sarei felice, o sarei morto senz'altro. Sì, proprio deve essere così; aggiunge Ariberti riscaldandosi in quel pensiero che gli era venuto per nella mente; questo è il mio modo di sentire e non potrei mutarlo per nessuna donna del mondo, foss'anco cento volte più bella e più amabile di lei.

- Badate di non ingannarvi! - notò argutamente la inglesina. - L'ardore che mettete a negare una cosa, che non sarebbe poi un delitto una sciocchezza, potrebbe dimostrare che avete ancora bisogno di persuader voi medesimo, anche prima di farlo credere agli altri.

- No, no, sono intimamente persuaso di quello che affermo. Se fosse diverso, il cuore me ne avrebbe avvertito. Non vi pare? - chiese egli, appoggiando la sua interrogazione con una stretta al braccio di Mary. - Del resto, voi stessa, che in tutta questa vicenda sareste neutrale e per conseguenza imparziale, avete sentenziato giustamente sul caso nostro. Io, come amante, sarei per la signora Giselda un impaccio. Ora, io vi domando un po' di giustizia. Mi credete tal uomo da non intendere queste cose? Un impaccio! lo credo bene. Ma io ho cercato sempre di non esserlo per nessuno; figuriamoci poi per una donna, mentre appunto colle donne bisogna trattare da pari a pari e colla massima delicatezza. Io l'ho sempre intesa così e questo è il mio carattere. Aut Caesar, aut nihil.

- Il vostro carattere vi anche di parlar latino colle signore? - esclamò la bella inglesina, ridendo, e mostrandogli, al chiarore di un lampione, due file di candidissimi denti. - Badate; io sono vendicativa; vi parlerò a mia volta in inglese, e faremo a chi ne capisce meno dei due.

- Faccio le mie scuse umilissime; volevo dire: o tutto o niente. È questa la mia divisa.

- Essa è anche la mia; - ripigliò la signora Mary, tornando sul grave. - L'uomo che io amerò avrà forse da piangere meno di un altro, ma io non patirò mai nemmeno l'ombra, il sospetto di una rivale.

- E, - disse timidamente Ariberti, - quest'uomo non è forse già trovato?

- No; - rispose ella con accento sicuro.

- Come? con tanti cavalieri pronti a buttarvisi ai piedi?...

- Che volete? Non ho gittato ancora il mio fazzoletto a nessuno. Sono tutti vanagloriosi, e, con tutta la loro apparenza di serietà, discretamente ridicoli. L'uomo che io amerò dev'essere modesto quanto appassionato, prudente quanto fedele; insomma, un mondo di cose.

- Io non so se troverete tutte queste virtù riunite in uno solo; - disse Ariberti; - so bene che ogni uomo dovrà augurarsele; poichè sarà un uomo felice. -

Quella frase giulebbata era il meno che egli potesse dire ad una bella ragazza che gli faceva le sue confidenze. Il lettore adunque non ci veda, di grazia, un secondo fine. Ariberti aveva parlato per cortesia, o se volete, per quella natural simpatia che nasce tra un uomo e una donna, nella tranquilla libertà di un colloquio amichevole. Fa così bene esser gentili! E un complimento ne tira così facilmente un altro! Infine, che vi dirò? Il nostro eroe non mirava a far colpo; tirava in arcata, faceva gazzarra, era in ballo, e ballava.

Tanto è vero cotesto, che come furono nella strada in cui abitava la sua compagna, egli si dispose con molta disinvoltura al commiato.

- Eccovi a casa vostra; - le disse. - Mi toccherà augurarvi la buona notte, senza avere udito tutti i buoni consigli che vi eravate proposta di darmi.

- Vi premono davvero? - chiese ella fermandosi incontanente, e guardandolo in volto con occhio scrutatore.

- Se mi premono! Dovete esservene accorta.

- Bene! - ripigliò l'inglesina; - passeggiamo ancora.

- Ma con questo freddo? E vostra zia che dirà? -

Maria sorrise, probabilmente dal candore che traspariva da quelle parole del suo cavalier novellino.

- Non ho freddo; - rispose ella poscia. - Quanto a mia zia, non sa ella che sono con voi?

- Ah, ella si fida dunque di qualcheduno? Non è dunque come voi?

- No, non è come me; - diss'ella, con un accento da cui traspariva il dispetto d'essere colta in contraddizione; - del resto, volevo rispondervi che mia zia conosce me quanto occorre per vivere tranquilla; ma mi è parsa una risposta troppo superba, ed ho amato meglio dare un po' di merito a voi. Ho fatto male?

- No, vi ringrazio. Andiamo dunque. Ma dove?

- La vostra strada, per andare a casa, qual'è?

- Io abito in piazza Vittorio.

- Benissimo; andiamo dunque verso la piazza Vittorio. Mi farete vedere le vostre finestre, e poi torneremo a volo. Guardate un po' che degnazione è la mia.

- Ma sì, davvero; - disse Ariberti inchinandosi di molto e alzando in pari tempo il gomito, per modo che la mano della signora Mary si trovò quasi a tiro di un bacio; - -nessuna donna ha mai fatto tanto pel vostro umilissimo servo.

- S'ha a credere?

- Ve lo giuro.

- -Neanche Giselda?

- Neanche Giselda. Ma perchè lei più di un'altra? Io non l'ho mai avvicinata nel suo salotto.

- Strano! - mormorò ella tra i denti, quasi volesse parlare da .

- Strano, che cosa? - domandò il giovine, a cui quella parola schiudeva un mondo di vaghi sospetti.

- Nulla, nulla! - rispose ella schermendosi. - Ho io detto veramente strano?

- Sì, lo avete detto. E in che modo è da intendersi? Parlate, via, non mi tenete sulle spine.

- Ah, ah, la vi preme dunque un pochino, molto moltissimo.

- Aggiungete niente affatto, e il giuoco è finito. Io domandavo la spiegazione di una parola oscura; ecco tutto.

- Orbene, ecco qua il senso vero della parola, poichè non voglio lasciarvi colla impressione di aver tenuta a braccetto la Sibilla Cumana. Mi è parso strano che Giselda, a cui siete tanto divoto, Giselda che è così spesso in volta per le vie di Torino, non vi abbia mai dato questa prova di fiducia.

- Che volete? Sarà come voi.

- Mutiamo i termini; - soggiunse Mary, dando una scossa dispettosa al braccio di Ariberti; - dirò invece che non abbia fatto questa prova di confidenza nelle sue proprie forze.

- Ah, e voi vi sentireste di farla?

- Sicuro che mi sentirei... Che specie d'irresistibile vi argomentate voi di essere?

- Io, signorina? Io non mi argomento d'esser nulla. Si ciarla ed io fo la mia parte. Venite dunque ora, e date questa prova di fiducia a me, a voi, a chi volete insomma.

- -No, no, ho scherzato; - disse la bella inglesina, troncando il discorso; - contentatevi che io veda le vostre finestre, per sapere dove augurarvi la buona notte, quando mi avrete ricondotta all'uscio di casa mia.

- Come volete. Dicevamo dunque... Che cosa dicevamo?

- Che siete un capo ameno, e molto innanzi, troppo innanzi per la vostra età.

- Or ora dicevate il contrario.

- Eh, mi sarò ingannata. Poi, chi sa? gli uomini son così stravaganti! Timidi con questa, audaci con quella: chi li capisce? -

Ariberti sentì, argomentando dal caso suo, che l'inglesina toccava giusto. Infatti, timido con Giselda, perchè innamorato, egli si sentiva più libero, più disinvolto con Mary, che pure incominciava maledettamente a piacergli, ma in un modo tutto diverso dall'altra. Sì, lettori umanissimi, debbo confessarvelo. E voi, del resto, lo avrete già capito a quella alzata di gomito, che fu come il batter d'ali dell'uccellino che si addestra al volo; il mio giovane eroe non sentiva impunemente la vicinanza di una bella ed elegante creatura, circondata di tutte le fragranze della gioventù e della profumeria. Alle corte, l'adoratore della altera marchesana di San Ginesio non avea bruciato i suoi incensi sull'ara domestica della signora Giuseppina Giumella? L'adoratore di Giselda faceva assai meno grave caduta, sdrucciolando ai piedi della signorina Mary.

Dopo tutto, non esageriamo. Ariberti era in una condizione nuova e difficile, come a dire sulla corda tesa, e non senza una certa voluttà mista di timore, perchè la fortuna era , scherzevole e lusinghiera, davanti a lui, ma c'era anche il pericolo di sentirsi mandare al diavolo nel qual caso tutto gli andava a rovescio, e la lusinghiera ingannatrice non avrebbe tralasciato di fare le sue confidenze a Giselda.

Tutte queste probabilità, più o meno lontane, più o meno paurose, passarono per la mente ad Ariberti in quella che si faceva a seguire il fuoco fatuo sull'orlo dei precipizio. E perchè egli non era ancora risoluto di andare innanzi o di tornare indietro, accettò senza sforzo il cambiamento di discorso che ella mostrava di volere.

- Audace! - ripigliò il giovane per conto suo. - Non lo sono. La vostra grazia m'incanta e meritate bene che anch'io vi faccia rispettosamente un pochino di corte. Dite sinceramente che cosa pensereste voi di un uomo il quale vi conducesse sospesa al suo braccio e non vi dimostrasse colle parole e cogli atti di far differenza tra voi e... la prima venuta?

- Ah, se fosse così! - esclamò la signora Mary sospirando. - Ma gli è che io temo per l'appunto di esser come la prima venuta ai vostri occhi. Chi sa, poi? Siamo quasi al buio, e potreste immaginarvi di essere accanto a Giselda. -

Questa volta fu Ariberti che non potè reprimere un movimento di stizza.

- E sempre Giselda! - gridò egli, alzando dispettosamente le spalle. - Che cosa c'entra Giselda?

- C'entra sicuro. Nessuno mi leverà dal capo che voi l'amate.

- Vi ho già detto due volte che non è vero.

- Lo diceste anche mille, quell'astuccio, da solo, basterebbe a provare il contrario.

- Quell'astuccio!... Ah sì, parliamone! Un dono che mi avete costretto a fare voi stessa!

- Io?

- Sì, col vostro discorso di Moncalieri.

- Davvero? - diss'ella, con accento impresso d'ironia, - Proprio vi siete deciso a far quella spesa per me?

- Certamente. Io non sono ricco... Lo avete detto voi. Mi contentavo di regalare dei fiori, come avrei fatto per ogni altra dama a cui fossi stato presentato e che avesse mostrato di gradirli. Ma voi, signorina, mi avete posto in canzone, vi siete beffata de' miei doni pastorali, mi avete messo al punto...

- Ah, gli è dunque per un semplice puntiglio che voi regalate gioielli alle dame?

- Ma sì, per un semplice puntiglio. Capirete che a nessuno piace di esser tenuto in quel conto che voi mostravate di tener me, quasi fossi un pezzente.

- Ammettiamo dunque che la colpa sia mia; - ripigliò l'inglesina, cedendo un po' di terreno al suo avversario. - Ma se si fosse trattato di un'altra donna che non fosse l'amica mia, avreste voi fatto lo stesso? Per esempio, avrei voluto vedere se lo avreste fatto per me.

- Anche per voi; - rispose Ariberti gittandosi a capo fitto nel ginepreto, da cui tanto e tanto non poteva più distrigarsi; - dirò meglio; a voi più che ad un'altra.

E il pensiero gli correva frattanto all'altra metà della somma ottenuta da Arun-el Rascid, che minacciava di non volergli rimanere in tasca più a lungo.

- Vi ringrazio; - disse la signora Mary, con voce così soave che più non sarebbe stata una carezza. - Badate che ho scherzato. Io non accetterò mai un dono simile se non dall'uomo che amerò.

- E dàlli, coll'uomo che amerà! - pensò Ariberti, stizzito contro questo personaggio mistico che incominciava a dargli noia prima di esistere.

Il giovinetto provava, rispetto a quel Tizio di da venire, quel medesimo senso che molti provano in una sala pubblica, mirabilmente ornata di marmi e dorature, ma dove ci sia nella parete una nicchia vuota, che fa venire la voglia di gridare via, metteteci un grand'uomo, anche da dozzina, e facciamola finita una volta.

Così ragionando, e alternando i soliloqui col dialogo, Ariberti andava speditamente lunghesso i portici di Po, colla bella inglesina aggrappata al suo braccio. La gente che li vedeva passare così leggeri e contenti sotto le arcate, stretti l'uno contro l'altra come i due gemelli appiccicati di Siam, pensava: ecco due sposi novelli che han fretta di giungere a casa. E tutti, poichè a quell'ora non c'erano donne in volta, tutti invidiavano lo sposo, non lei.

Ma l'essere così vicini e il sostenere tutte quelle occhiate e giaculatorie dei viandanti, non li custodiva mica dal freddo. Certi buffi gelati scendevano tratto tratto dalla collina di Superga, che non erano punto piacevoli, e la bella inglesina incominciava a tremare.

- Avete freddo? - chiesele Ariberti.

- Un pochino.

- Torniamo indietro, se vi pare.

- No, no, ho promesso di venire a vedere le vostre finestre, e non sarà mai detto che un po' di freddo mi abbia fatto mancar di parola. -

Intanto affrettavano il passo.

- Ci siamo; - disse il giovine, come furono alla svolta di un angolo. - Se volete uscire di sotto ai portici, vedrete queste meravigliose finestre. Vi avverto che non sono di buon stile. Vedete, son quelle due , nel mezzo.

- Ah, non è mica troppo alto.

- No; come vedete, è un secondo piano.

- Dovrete starci bene.

- Ma sì, abbastanza.

- C'è buio; non ci avete nessuno?

- Nessuno.

- Eh via! Volete darmela ad intendere.

- Nessuno, vi ripeto. Chi ci ha da essere? Del resto, venite su e potrete sincerarvene.

- No, grazie; andiamo fin a vedere il fiume. Sarà gelato.

- Che dite? gelato il Po?

- Gelo ben io! - disse ella, ridendo e rabbrividendo ad un tempo.

- Ah, vedete? E perchè non confessarmelo subito?

- Perchè il freddo mi pareva più sopportabile. Il più forte mi ha preso or ora.

- -Venite, torniamo indietro.

- Si; - rispose ella con un filo di voce.

E voltarono indietro; ma il freddo pungente le dava assai noia, ed ella batteva i denti per tal modo che il suo cavaliere incominciò a temere non fosse per accaderle di peggio.

- Chiudete bene la vostra mantellina; - le disse; - intanto sarà meglio che entriamo sotto i portici. Ma che avete, Dio mio? Vi sentireste male?

- Qui, qui; - rispose ella stringendo la mano al petto e arrovesciando gli occhi con moto convulso: - mi manca quasi il respiro. -

Ariberti si spaventò davvero, come tutti coloro che si trovino in simili casi la prima volta, e via, mettiamo anche la seconda e la terza, poichè la vista di una donna che soffre, o mostra di soffrire, fa sempre pena ad un'anima bennata.

Per fortuna, la sua abitazione era a pochi passi, ed il nostro giovinetto potè condurre sollecitamente la sua donna al coperto. Ella si lasciò trascinare, portar quasi sulle braccia, e non aperse più bocca, direi quasi che non trasse più il respiro, fino a tanto non si trovò nei quartierino di Ariberti. Egli, lesto come uno scoiattolo, mise mano a quante carte inutili stavano nel canestro accanto al camino, e le ficcò sotto la stipa, che, sentito il fuoco, levò prontamente gran fiamma e scoppiettò allegramente, mandando per la camera sprazzi di luce rossastra e di caldo.

Fornita questa prima parte del debito suo, Ariberti accostò una portoncina al camino e vi fece adagiare la sua bella compagna, che seguitava di tratto in tratto a rabbrividire. Voleva anche coprirle la persona con un ampio coltrone, strappato dal letto; ma ella non lo accettò, amando meglio scaldarsi al fuoco che divampava nel camino e già incominciava a far sentire i suoi benefici effetti.

- Ecco una scappata che mi costa cara - diss'ella poscia, forse volendo alludere a quel gran freddo che la aveva colta.

Ariberti s'inchinò su di lei con atto amorevole.

- -Mi duole davvero, - diss'egli di rimando, - che per cagion mia... Ma in fine... -

Voleva soggiungere: infine lo avete voluto voi; ma si accorse che stava per dire una solenne bestialità, e si rattenne a tempo.

- Infine, - proseguì egli allora, mutando l'indirizzo della frase, - io ci ho guadagnato il piacere di darvi ospitalità. Questa cameretta quind'innanzi mi sarà sacra, per aver dato ricetto alla vostra bellezza.

- Purchè non vi salti in capo di murarvi una lapide commemorativa! - esclamò ella, coprendo con una allegra risata la scabrosità della situazione.

- Ah bene! - gridò egli, tutto racconsolato. - Voi ridete; siamo dunque fuor di pericolo. -

C'era ella stata davvero, in pericolo? Io non ardirei di affermarlo. E forse, pensandoci su a mente fredda, non lo avrebbe creduto neanche Ariberti. Ma , a quel caldo, non bisognava guardarla tanto nel sottile. Ad altro pensava Ariberti; pensava a via d'Angennes e gli mordevano il cuore certi rimorsi! A quell'età, si capisce che ne avesse ancora. Non poteva Giselda risapere il giorno seguente quella sua scorribanda notturna? E con che coraggio si sarebbe presentato a lei? Imperocchè, delle due l'una, o l'inglesina era una donna a modo e avrebbe taciuto, ma lo avrebbe anche messo lui nel caso di dover rinunciare a Giselda; o non lo era, e per vanità, o per chiasso, avrebbe cantato senza fallo. Pregarla che stesse zitta; sicuro! La cosa sarebbe stata davvero di buon gusto, a quell'ora!

Intanto, la furba inglesina andava pigliandosi spasso de' fatti suoi.

- Dite, mio bel signorino, vi sono io sempre antipatica?

- Voi? a me? - chiese egli confuso.

- Sì, io. Non è questa l'impressione che io ho avuto la disgrazia di fare su voi?

- Ma chi ha potuto dirvi?...

- Eh, un testimonio credibile; la mia amica Giselda. -

Quel tradimento della signora Szeleny gli diede maledettamente sui nervi. Che bisogno c'era egli di andare a ripetere i suoi discorsi a Maria? Ariberti se n'ebbe a morder le labbra dalla stizza. Ma, intanto, bisognava rispondere, e la stizza contro l'una non era una risposta per l'altra.

- Sì, - disse allora, facendo di necessità virtù, - l'ho detto... per vendicarmi.

- Vendicarvi? Di che?

- -Correggo la frase; rendervi pan per focaccia. La signora Giselda mi ha raccontato che vi ero antipatico, ed io ho risposto: a buon rendere. Dite su, non le avete forse detto che io vi ero antipatico?

- Sì e no; - rispose Maria.

- Come sì e no? Questa è una sciarada. Non la capisco.

- Quando conoscerete un po' meglio le donne, - replicò l'inglesina, - capirete anche questa. -

Fu quella l'unica volta che il nome di Giselda venne fuori nella loro conversazione. Forse l'inglesina ne aveva troppo parlato in principio e non voleva tormentare più oltre il suo cavaliere. Fors'anche, e questo mi pare più probabile, ella non voleva spaventarlo di soverchio coll'ombra dell'amica lontana, e mirava a serbarsi il benefizio di parlar chiaro e di mettergli le sue condizioni più tardi. Gli faceva insomma la strada piana ed agevole ad entrar nella rete, salvo a fargli trovare gl'intoppi quando si trattasse di uscirne. È suppergiù l'artifizio delle nasse, in cui le aliguste entrano così facilmente a morder l'esca, e poi, con tutte quelle steccoline che chiudono la gola del ricettacolo, non trovano più il verso di liberarsi.

Per altro, se l'inglesina taceva, non taceva del pari la coscienza di Ariberti. L'immagine della signora Szeleny gli tornava ad ogni tratto davanti; ed egli era ancora troppo giovane per cavarsela da queste malinconie con una alzata di spalle, abbastanza padrone di (e questo lo abbiamo già visto) per rinunziare ad una fortuna così piena di rimorsi. Egli non era, per dirla con una frase volgare, carne pesce, e incominciava a portare la pena de' suoi tentennamenti.

Gli bisognava svagarsi, inebbriarsi, dimenticare. Questo era per un animo come il suo il consiglio migliore. Era giovine, e la cosa gli venne fatta più facilmente che non a me spiegarvela con queste mie ciance. Si lasciò andare agl'impeti della sua indole pronta ed esuberante; finse la più profonda passione che nascesse mai da un momento all'altro nel cuore di un uomo e credo che nella furia andasse perfino di dal segno. Alla sua età, con quell'ardore nel sangue, il nostro eroe poteva illudere a quel giuoco, non che una donna, stesso.

Così riscaldato com'era, egli non si fermò neanche a considerare che il passo della signora Mary era ardito oltre ogni ritegno di condizione ed ogni misura di convenienza. Ma in questo errore sarebbe caduto anche un uomo più maturo di lui. Tutto ciò che le signore donne fanno per noi è ben fatto; nelle loro debolezze non vediamo che la nostra potenza, e questa poi, siamo sempre disposti a condonarcela. Se si trattasse della fortuna di un altro, oh allora, giù senza misericordia sulle donne che cascano. Ma si tratta di noi.... È forse colpa di quelle poverine, se noi siamo nati irresistibili? E il giorno che si è fatta quella scoperta, come si desina di buon appetito! come ci si stropiccia allegramente le mani!

Lettori, io mi perdo in chiacchiere, e sono già le tre del mattino. Anche i miei due personaggi se ne sono accorti, per l'indiscrezione di non so quale orologio del vicinato.

- Mio Dio! - esclamò Ariberti, col suo solito candore. - Che dirà ora la zia? -

In questo caso, come in tanti altri che ha registrati la storia, da Eva in giù, la donna si mostrò più forte dell'uomo.

- Che importa? - diss'ella. - Alla fin fine non sono più una bambina. Sappiate, signor mio, che tra due mesi anch'io calcherò le scene e dovrò pure uscir di tutela.

- Ma intanto...

- Ma intanto non vi date pensiero di ciò che diranno le zie. E questo sia detto sui generali, per tutto ciò che può occorrervi nella vita. Nel caso nostro poi, non c'è da pensar molto per trovare un pretesto. Avevo freddo; sentivo lo stomaco vuoto e siamo andati da Biffo...

- A prendere un brodo; benissimo. Ci si potrebbe andar ora, per non dire una bugia tutta intera.

- No, no! - interruppe l'inglesina. - Potrebbero vederci, e ciò non mi garba... colla vostra aria da trionfatore romano.

- Cattiva! Dite piuttosto che temete d'incontrarvi in qualcheduno dei vostri eterni adoratori.

- Voi vedete a quest'ora come io mi prenda pensiero di loro.

- Venite, dunque.

- No; - replicò la signora Mary, che aveva buon senso per due; - a quest'ora da Biffo ci si può essere ancora, ma lo andarci a quest'ora...

- Ho capito; - gridò Ariberti; - ed io sono una bestia.

- Ah, manco male! -

E quel battibecco d'innamorati finì in una sonora risata.

La conseguenza del ragionamento si fu che Ariberti accompagnò a casa, senz'altre fermate, la signora Mary, giurandole sull'uscio un amore infinito e promettendo alle sue cinquecento lire che, se nessuno gliele rubava al ritorno per via, sarebbero andate il giorno vegnente dal gioielliere a ricongiungersi con certe altre, da cui erano state barbaramente divelte.

 

 

 




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