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Anton Giulio Barrili La notte del commendatore IntraText CT - Lettura del testo |
Nel quale è dimostrato che a quarant'anni non se ne hanno più venti.
Era questa la risposta che egli si meritava? Alcuni diranno di sì, altri di no; il narratore non ardisce dare un giudizio. In dubiis abstine.
Certo, era questa una brutta chiusa all'amor suo. Ariberti non aveva, come suol dirsi, un'anima di ferro; appariva anzi uno spirito debole, sempre dubbioso tra due partiti, sempre vagabondo tra mille pensieri; e questo assai più per esuberanza di fantasia, che non per vera fiacchezza d'indole. Or dunque, i suoi momenti di dignità li aveva anco lui; un po' teatrali, se volete, ma appunto per ciò maggiormente notevoli.
Si alzò, comprimendosi il petto che pareva volesse scoppiargli dalla rabbia improvvisa, e muto, guardando la marchesa con occhio in cui si dipingeva tutta la nobile tristezza di un cuore offeso che non usa vendicarsi contro una donna, fece un profondo inchino e si allontanò.
Sperava fino all'uscio, che una voce lo richiamasse; poi sperò fino all'anticamera; ma invano; Clementina lo lasciava partire, e, a giudicarne dalle parole corse tra loro, forse per sempre. Ma anche la marchesa era accasciata sotto il peso delle parole che aveva profferite in quell'impeto subitaneo di sdegno. Epperò non fece, non tentò nulla per richiamarlo; non pensò neppure, io credo, che la cosa fosse da farsi e che il non farla potesse aver conseguenze così gravi. Ed egli uscì non trattenuto, scese le scale, varcò la soglia del portone e si trovò, quasi senza saper come, in istrada.
Andava oltre, davanti a sè, ignaro di ciò che faceva, come di ciò che aveva dintorno. L'anima nostra ha qualche volta di tali offuscamenti, per cui non è più presente a sè stessa. Così giunse passo passo fino al ponte sul Po, dove il rumoreggiar dell'acqua contro le pile valse a destarlo da quel suo stordimento.
Tutto era dunque finito? Clementina aveva dunque dimenticato ogni cosa, per cogliere un pretesto, il primo che le era capitato, e liberarsi da lui? Imperocchè quello era stato un pretesto e nulla più; la donna che ama davvero, sa anche soffrire una acerba parola, e aspettare che le si renda giustizia. Egli era geloso, ma sincero amatore. Il difetto non faceva egli testimonianza della qualità? Amava molto, sentiva profondamente; questo era il suo male. Epperò, mentre a tutt'altri quell'avventura sarebbe parsa alla più trista una chiusa di capitolo di romanzo della vita, a lui pareva a dirittura la fine.
Ora, come sarebbe egli quind'innanzi vissuto? In verità, non ne sapeva nulla; ci vedeva buio, e non ardiva fermarcisi su. Andò in quella vece a piangere dall'amico, non già per consolazioni che ne aspettasse, ma per necessità d'uno sfogo.
- Tu hai parlato troppo liberamente; - gli disse Filippo, dopo che ebbe udito ogni cosa. - Per altro se hai avuto torto nella forma, hai ragione nella sostanza. Non so veramente a che ti possano servire queste mie distinzioni; ma sento il bisogno di farle. Sii uomo, alla perfine, e cerca di distrarti. Che ti pare d'un viaggetto fuori dello Stato? Se hai la forza di sottrarti all'influsso di quest'aria e di queste consuetudini, sei salvo; se no, con quella tua sensibilità soverchia, mi caschi ammalato da senno.
- Sì, dici bene; vedrò; - rispose Ariberti.
Ma non ebbe la forza di seguire il consiglio. Per due giorni intieri aspettò una lettera che non veniva mai, quantunque ad ogni tratto interrogasse ansiosamente il suo portinaio, che ebbe a pigliarlo per matto. Al terzo giorno incominciò a passeggiare nei pressi della casa di Clementina. Al quinto, salì vilmente le scale e suonò il campanello.
- E dove? - chiese Ariberti al servitore, che gli aveva data quella strana notizia.
- A Rocca Vignale; è partita ier l'altro. -
A Rocca Vignale, e in principio di primavera, lei, che ricusava di andarci nella calda stagione! Dopo tutto, - pensò Ariberti, che aveva sempre davanti agli occhi la cagione dell'alterco, - il mio tenore è servito a dovere.
- E dimmi, - -proseguì ad alta voce, - rimarrà molto laggiù?
- Non ha detto nulla; ma credo che rimarrà pochi giorni, perchè ha preso con sè solamente la Luisa e l'Aristide. -
La Luisa, come avete già indovinato, era la cameriera; quanto al secondo, che rispondeva al glorioso nome di Aristide, non era altri che lo staffiere, ed io ho il rammarico di non sapervi dire se fosse incorruttibile come il suo omonimo ateniese.
Ariberti aveva potuto ottenere quei ragguagli per la grande entratura sua in quella casa e per l'antico ossequio ond'era circondato da tutti i servitori della marchesa. Ma anche con tutti quei ragguagli, il nostro eroe non ne capiva un'acca. Gli passò per la mente il disegno di andare a Rocca Vignale; ma con qual pretesto, e con qual fronte, si sarebbe presentato laggiù? Mulinò, almanaccò tutto quel giorno, ma senza trovarci il verso, e quella sera stessa aveva la febbre, una febbre violenta che lo ridusse a letto e diede uno spavento indicibile alla sua donna di governo, che mandò tosto pel medico.
Non vi racconterò la malattia, che fu lunga, ed ebbe il suo periodo acuto, durante il quale Filippo Bertone non si tenne niente sicuro di vincerla. Ma potè finalmente la natura, poterono le cure amorevoli, potè la presenza di una fata gentile, che vegliava lunghe ore del giorno al capezzale dell'infermo.
Egli la vedeva ad intervalli, e figgeva in quel volto soave i suoi occhi smarriti, senza intendere come mai ella si trovasse là, accanto al suo letto, e credendola a volte una visione della sua giovinezza. Ma non era quella una vana apparenza, una forma fantastica richiamata dal suo cervello indebolito; era lei, proprio lei, la marchesa di San Gi... cioè, no, dico male, la contessa Bertone, poichè, nella congiuntura delle sue nozze recenti, Filippo, il gran medico, il professore insigne, era stato fatto conte, e mai titolo di nobiltà doveva essere meglio portato, in una società che crede ancora, e crederà per un pezzo, a queste anticaglie.
Le quali, del resto, non fanno male a nessuno, e accortamente svecchiate secondo il merito degli uomini, non già secondo la somma di danaro che possono spendere, potrebbero anche aiutar meglio ad uguagliare gli uomini, innalzandoli, che non abbiano fatto finora tante belle teoriche, rimaste in sospeso e soggette a revisione.
Assistito dagli angioli dell'amicizia, Ariberti risanò. La vicinanza di quella donna, che egli aveva amata tanto e odiata a' suoi tempi, per venerarla più tardi come l'esemplare delle gentildonne, bella ancora a malgrado degli anni in tanta copia cresciuti, amorevole con lui come coll'amico e fratello dell'uomo prescelto da lei, quella vicinanza, io dico, rialzò lo spirito abbattuto di Ariberti, consolò di qualche più lieta immagine i suoi giorni di convalescenza e gli riaperse il cuore alla speranza, a questo fiore gentile, ospite assiduo della casa nostra, così restìo sempre a morire sotto il rovaio e le brine, così facile a rinascere col primo raggio di sole.
Per altro, se gli tornò il sentimento della vita, gli tornarono anche le malinconie, i desiderii e gli spasimi, che fanno corteggio alla esistenza. La vista di quella coppia affettuosa gli era cara ad un tempo e molesta. Erano due felici, quelli che stavano con tanto amore al suo fianco. Non lo mostravano; anzi, in presenza di lui, si parlavano a mala pena, e quel poco era tutto rivolto all'amico sofferente. Ma il trovarsi ambedue là, quel grand'uomo e quella gran dama, intesi ad un'opera di schietta carità fraterna, non chiariva egli abbastanza la piena concordanza delle loro anime elette?
Gran forza, nel mondo, il vincolo di due cuori innamorati! E lui, solo, pur troppo, disperatamente solo! Imperocchè, oramai, la sua vita era spezzata. All'età sua non si ricominciava da capo. Clementina! Clementina! E quel nome e quella immagine gli stavano sempre dinanzi.
Nessuno l'aveva nominata. Filippo faceva ogni poter suo per non richiamarla, anche di straforo, alla mente del suo povero Ariberti. Ma nessuna cura di prudente amico bastava a dissipare quell'altra, assidua e dolorosa, che gli stava nell'anima. Avrebbe voluto chiedere di quella donna, ma la fermezza di carattere del suo amico Filippo lo metteva in suggezione. Non era egli forse un atto di debolezza il pensare a quella donna che lo aveva trattato con tanta noncuranza?
E tuttavia gira e rigira, quando finalmente il suo medico gli consigliò di mutar aria per assicurare la sua convalescenza, Ariberti sentì che non avrebbe potuto partire senza vederla. Era una viltà la sua; ma infine, chi non è stato vile almeno una volta in amore?
Gli angioli dell'amicizia non erano ad assisterlo. Egli afferrò la penna, e, pieno di speranza e di timore, di desiderio e di vergogna, scrisse un viglietto alla marchesa di Rocca Vignale
«Sono stato molto male, e ancora non ho potuto uscire di casa. Che fate voi? Mi avete perdonato? Io vi ho veduta tante volte, benigna e sorridente apparizione, attraverso i vaneggiamenti della febbre, che spero di sì. Il cuore non inganna; e il mio è tutto pieno di voi.
«ARIBERTO»
Dopo che ebbe scritto e suggellato il foglio, chiamò il servitore.
- Questa lettera alla marchesa di Rocca Vignale. Se la marchesa è in città, bene; se no riporta la lettera, che la manderò per la posta. -
Il dado era tratto. In quell'ora si decideva della sua sorte. Che cosa avrebbe pensato Clementina, ricevendo il viglietto? Gli avrebbe risposto? Lo avrebbe incoraggiato a tornare da lei? Come gli parve lungo il tempo, che dovea mettere il servo ad andare e tornare! Finalmente egli giunse. Non era stato più di mezz'ora, e ad Ariberti era parso già un secolo.
- Sì signore; ho consegnato la lettera all'Aristide, e m'ha detto che la rimetteva subito nelle mani della signora marchesa, che ancora non era uscita di casa. -
Le ansie d'Ariberti cominciavano allora. La marchesa aveva letto il foglio e ci pensava su, se forse, in un momento di collera, non lo aveva fatto a pezzi e gittato sul fuoco del suo caminetto. Ed egli andava cercando di ricomporne le frasi nella sua mente, ed ora si pentiva di non averle scritto più umilmente appassionato, ora di non avere usato uno stile più cerimonioso e tranquillo. E frattanto, nessuna risposta. Due ore, tre ore, passarono in quella aspettazione angosciosa. Forse era giorno di visite? No, era un martedì, e la marchesa non riceveva che le mattine del giovedì. Ma forse doveva andar lei in qualche luogo, per qualche obbligo da cui non avesse potuto liberarsi. Certo, era così, non poteva essere altrimenti; ma in fine, due righe erano presto mandate, e non ci voleva una gran fatica a scriverle. Insomma, il nostro convalescente era inquieto, e quando Filippo tornò da lui, lo trovò colla febbre.
- Mi rincresce, - gli disse Bertone, dopo avergli tastato il polso, - perchè volevo darti una notizia...
- Quale? che cos'è! - saltò su gridando Ariberti. - Te ne prego, non mi tener sulla corda.
- Che furia! Aspetta un pochino, e preparati a stare allegro. Ho incontrato poc'anzi una signora...
- Lei!
- Sì, lei; ma chetati! Non si piglia mica la felicità d'assalto, come un ridotto nemico. Disponiamoci all'evento, mentre io ti racconto ogni cosa in ordine. Ho veduto la sua carrozza qui sotto. Ella scendeva, mentre io stavo per infilare il portone. Mi ha chiamato, ha voluto saper tutto, ed io le ho raccontato ogni cosa appuntino. Insomma, son diventato un confidente in piena forma, e voglio mettere sull'uscio di casa mia un cartello, che dica così: «Il conte Bertone, amico patentato, dà consigli gratuiti e fa le paci tra gli innamorati alle rotte». -
Ariberti sapeva benissimo che cosa pensare dei meriti di Filippo in questa pace. La marchesa non aveva detto all'amico di aver ricevuto il viglietto, e questo gli risparmiava un po' di vergogna. Clementina aveva in quella vece raccontato che, tornata il giorno innanzi dalle Langhe, aspettava la visita del suo onorevole amico, e soltanto da un giornale aveva ricevuto la notizia della convalescenza, prima di sapere che ci fosse stata la malattia. Perciò era corsa subito, non badando neppure a quello che avrebbero potuto pensare i torinesi, vedendo la sua nota livrea all'uscio di strada dell'onorevole Ariberti.
- Donna divina! - pensò il nostro eroe, con quella medesima facilità impetuosa con cui qualche settimana prima aveva pensato e detto ben altro.
- E adesso, - ripigliò Filippo Bertone, - appòggiati al mio braccio e andiamo nel salotto, dove ella ti attende. Non ho voluto farla entrar qui, per non farti, cadere in deliquio.
- Amico mio, non mi sono mai sentito così forte come oggi.
- Ah sì? e frattanto ti tremano le gambe. Tienti al mio braccio, ti dico. -
Ariberti obbedì, perchè infatti la commozione non gli consentiva di far la strada da sè.
- Andiamo dunque; - pensava in quel mentre Filippo; - così l'aveva a finire. Il mio amico non è nato della schiatta dei forti. Al dolore non sa resistere, la gioia lo abbatte, i saldi propositi lo spaventano; segue il filo della vita come vuole la fortuna, vede il meglio e lo approva, per attenersi al peggiore partito. Conduciamolo dunque dalla marchesa Clementina, poichè non c'è altro a farne di lui, «e naufragar gli è dolce in questo mare». -
La marchesa era seduta su d'un canapè, colla testa appoggiata contro la spalliera e le braccia abbandonate sulle ginocchia, in atto di persona stanca. Al rumore dei passi di Ariberti e del suo amico Filippo, si scosse e tentò di alzarsi per muovergli incontro; ma Ariberti non le diè tempo a farlo, perchè spiccatosi dal braccio di Filippo, corse barcollando verso di lei e si lasciò cader ginocchioni a' suoi piedi, dando, com'era richiesto dalla circostanza, in uno scoppio di pianto.
- Ah, vedi? io te l'avevo pur detto, che non ti puoi reggere ancora da solo; - gridò Filippo, per attenuare le difficoltà di quella critica scena. - Signora marchesa, il mio amico ha molto sofferto; ma speriamo che andrà da oggi in poi ricuperando le forze. La bellezza e la grazia hanno più potere in cotesto, di tutti i medici dei due emisferi. -
La marchesa Clementina si fece rossa in volto come una fragola, e chinò la fronte con atto leggiadro, che poteva interpretarsi per un ringraziamento e per un moto di verecondia.
- Signor conte, - diss'ella poscia, cercando di ricondurre il discorso al convalescente; - non le parrebbe che un po' d'aria dei nostri monti...
- Ottimo pensiero! - rispose prontamente Filippo, che si era inchinato a sua volta per quella delicatissima allusione alla recente contèa.
- Gli avevo per l'appunto consigliato un viaggio; ma il buon Ariberto non si mostrava molto propenso ad obbedirmi.
- Obbedirà, non dubiti, obbedirà; - ripigliò la marchesa, colla asseveranza di una donna che sa il poter suo; - l'amicizia ha diritti incontrastabili. Dico bene, signor legislatore? -
Ariberti sorrise ed assentì con un cenno del capo.
- Benissimo; - continuò la marchesa; - sappia dunque, signor Ariberti, che tutto rifiorisce a Rocca Vignale, dove ho passato due settimane, per mettere quella bicocca in assetto. Dio mio, ce n'è voluto; ma infine, credo di averla resa abitabile, e la castellana potrà esercitarvi non indegnamente gli uffici della ospitalità verso un pellegrino come Lei. Voglio credere almeno che non mi farà il torto di posporre Rocca Vignale a Dogliani. -
L'invito non poteva non essere accettato. Non era forse Clementina la signora del suo cuore? Del resto, niente lo chiamava più alla sua casa di Dogliani. Da qualche anno il signor Amedeo aveva pagato il suo tributo alla terra e riposava accanto alla diletta compagna della sua giovinezza. Perciò Ariberti, che già aveva accettato col gesto, stava per aggiungere alcune parole di ringraziamento, molto compassate ed analoghe alla circostanza. Ma Filippo non era più là, per servirgli da uditorio, ed Ariberti lasciò la retorica e l'etichetta da banda, per afferrare la mano della marchesa e imprimervi il più ardente dei baci.
- Siete sempre un fanciullo; il mio bel fanciullo; - soggiunse Clementina, senza ritrarre la mano, ma cercando di rimetterlo a posto sul canapè, dond'egli si era mosso per cadere di bel nuovo ai suoi piedi. - Adesso, amico mio, pensate a risanare; lo voglio. E badate, vo' che risani anche lo spirito, perchè, qualche volta mi esce di riga.
- Oh, perdono... perdono... - mormorò egli, nascondendo la fronte nelle pieghe della veste di lei.
- Animo, via, - interruppe Clementina; - non parliamo più del passato. Voglio vedervi d'ora in poi ragionevole; a questi patti io sarò sempre quella di prima. -
Così, com'io ve l'ho raccontato minutamente, l'onorevole Ariberti, bambino quadragenario, rientrò nelle grazie della marchesa, e ridivenne il suo umilissimo servitore, anzi il suo schiavo negro, se mi consentite la frase. Visse a Rocca Vignale una trentina di giorni, ma senza curarsi gran fatto della bellezza dei campi e del cielo. Ogni bellezza era in lei. E laggiù, in quella solitudine, gli era sembrato di star bene, perchè quella donna doveva essere più sua che non altrove; ma, ben presto quei luoghi gli vennero in uggia, vedendo tutti gli uffici di castellana a cui la marchesa adempiva, e dovendo mandar dal profondo dell'anima a tutti i diavoli il sindaco, il parroco, il medico condotto e gli altri notabili della terra, che troppo spesso gli rubavano la sperata dolcezza degli amorosi colloqui.
Poi, si tornò alla capitale, e l'onorevole Ariberti si sorbì un altro poco di vita parlamentare. Si era per fortuna agli sgoccioli, e, poco dopo, la sessione fu chiusa. Cominciate le vacanze, nè la marchesa parlò di andare da capo nelle Langhe, nè egli si pigliò la briga di accennarvi, nemmeno alla lontana. Andarono in quella vece a certi bagni riputati di Francia, e il nostro eroe passò l'estate seguitando la signora su tutte le strade maestre di quel vicino paese, e dalla Svizzera per giunta, reggendo sul braccio uno scialle, e facendo il viso umano a tutti i segretari di legazione e addetti militari d'ambasciata, che per sua dannazione giravan in lungo ed in largo l'Europa. C'erano giorni che il poverino si credeva un marito e andava chiedendo tra sè in qual chiesa lo avessero gabellato per tale.
- Amico mio, siate ragionevole; - gli bisbigliava qualche volta Clementina, mentre si tornava in otto o in dieci da una di quelle corse, che egli avrebbe fatte assai più volentieri in due.
E bisognava esserlo; se no... Il mio onorevole eroe ci aveva ancora davanti agli occhi l'esempio salutare dei corrucci di madonna. Pensando al suo stato di cattività, qualche volta si compativa da sè; ma in di grosso, poi, si era avvezzato alla catena, e sgranocchiava i suoi giorni con quella apatica immobilità con cui un fachiro indiano avrebbe snocciolato i chicchi della sua coroncina di preghiere.
Così passarono gli anni. Come uomo, non era più giovane, ed aveva lasciato trascorrere la bella età in cui l'ingegno può dare i suoi frutti migliori. Rispetto alla politica, poi, si era contentato a rimanere in seconda linea, e tutto lasciava credere che si sarebbe poi rassegnato a passare in serrafila, anzi nella retroguardia, colle bagaglie. Qualunque cosa si faccia, bisogna amarla molto e non vedere che quella, per farla bene e derivarne un po' di gloria al suo nome. Ora il nostro eroe, che aveva cominciato coll'amar tante cose e col volerne abbracciare tante altre, non doveva riuscire eccellente in nessuna. Il cavaliere servente della marchesa di Rocca Vignale, studiava poco, e a sbalzi, che è la peggior forma di studio; accompagnava la signora a teatro, per rimanerci due o tre ore confinato in fondo al palchetto, mentre i galanti farfalloni aliavano intorno alla sua dama e si succedevano senza tregua nei posti migliori; viaggiava regolarmente quattro mesi all'anno, per vedere i soliti alberghi e le solite cravatte bianche, e far capo ai soliti magazzini di mode. Per farvela breve, la sua vita si ridusse ad essere la ombra di quella donna, non cattiva, ma vana; ambedue esemplari degnissimi di una generazione, che non ha fatto grandi cose e che non lascierà traccia di sè nella storia.
Talvolta si vergognava di quella sua vita disutile e sciocca, e borbottava una mezza protesta. - Amico mio, - gli diceva allora spietatamente la dama, - lasciate certi bollori alla gioventù; ricordatevi che avete già molti capegli bianchi. -
Ah sì, pur troppo, il guaio era quello; molti capegli bianchi. E come era egli giunto alla imbelle vecchiaia? Come aveva egli speso il suo tempo? Chiuso in un guscio, come la testuggine, foggiandosi attorno un mondo di piccole cose e di piccole consuetudini, vagando dall'una all'altra senza disegno, errando e pentendosi, vedendo il meglio ed appigliandosi al peggio, schiavo della fantasia che non aveva saputo sfruttare, indirizzandola ad una meta gloriosa e lontana, vittima del suo cuore, di cui aveva secondato la sensibilità morbosa senza saperla rinvigorire colla dignità del carattere, ricco d'ingegno e inoperoso, superbo e svogliato, uno dei centomila che partono pieni di baldanza dalla prima stazione e poi, per non aver misurate le forze, si stancano a mezza via e giacciono anelanti qua e là, su tutti i margini della strada. Insomma, non aveva saputo vivere come Filippo, che nell'amore e nello studio si era prefisso una meta e avrebbe potuto togliere ad impresa una bussola, col motto: aspicit unam; nè saputo imitare il filosofo giramondo, che sa il pregio mediocre della vita e la spende con giusta misura, viaggiando la buccia di melarancia su cui lo ha messo a vivere il fato, e rimpizzando il suo cervello di cognizioni, il suo cuore di sensazioni, il suo taccuino di note.
Vecchio! E non poter ritornare indietro! O non era dunque meglio finirla d'un tratto con una maturità disutile, e diventare decrepito a dirittura? Che cos'erano vent'anni di più, per un uomo giunto di là dai quaranta, e senza aver trovato la sua via? Il meglio lo aveva vissuto, non gli restava che il peggio.