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Anton Giulio Barrili
La notte del commendatore

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CAPITOLO XVI.

 

Che chiude l'êra delle pazzie giovanili.

 

Erano questi gli studi d'Ariberto Ariberti; così viveva egli, ciondolandosi, coll'isocronismo comune ai pendoli e agli animi deboli, dalle marchese di San Ginesio alle Giuseppine Giumelle, dalle Giselde alle Marie, dalle Dore alle Euterpi, dai Bertoni ai Ferreri e dai Candioli ai Priori.

Fatto il male, si pentiva; l'indole sua generosa portava così. Egli adunque si pentì eziandio di quel tradimento che gli pareva d'aver fatto a Giselda, e, dovendo comparirle davanti, si tenne per un uomo spacciato. Ma Giselda non gli disse nulla, non mostrò nemmeno di avvedersi del suo turbamento; la qual cosa gli fece credere che l'inglesina avesse taciuto. E infine, perchè avrebbe parlato? Non ci aveva anche lei il suo tornaconto a star zitta? Così, tra speranza e sospetto, col cuore lungamente in angoscia, tirò innanzi più giorni, proseguendo fiaccamente a farle la corte. Egli era impacciato, Giselda era tiepida; il loro affetto accennava a voler morire d'anemia. Avrebbe anche l'amore il suo periodo matrimoniale?

La signora Szeleny doveva per altro aver saputo, o indovinato qualche cosa. Ma in verità il signor Ariberti dovea premerle ben poco, perchè ella non fece gran caso di quel suo tradimento. Solo un quindici o venti giorni più tardi trovandosi ella nel suo salotto con Ariberti e con qualche altro, per modo che non c'era adito a nessuna peripezia drammatica, di punto in bianco gli chiese:

- Vi è più antipatica la mia amica Maria? -

Quella domanda improvvisa, accompagnata da uno sguardo che parve voler dire assai più dischiuse il solito abisso davanti agli occhi del giovane; il solito mondo di pensieri gli si affacciò alla mente turbata, e lì sui due piedi, come portava il bisogno, la solita deliberazione fu presa.

- No; - le rispose egli, dopo i tre minuti secondi necessarii a tutto quel lavoro mentale che ho detto.

E la conversazione non ebbe altro seguito.

Rammento ancora il brutto senso che fece in me, scolaretto di grammatica, e con tutta la maggior venerazione per l'ingegno di Vincenzo Monti, la chiusa dell'Aristodemo, con quel suo endecasillabo così povero di concetto e finito così malamente in tronco:

 

«Qual morte! Egli spirò».

 

Scommetto che ai miei lettori non riuscirò meno molesto io, quando avrò detto che con quel no, tronco, o monosillabico che dir si voglia, ma sempre maledettamente asciutto, ebbe fine il romanzo tra lui e la bella Giselda. Con quei cominciamenti maravigliosi! Sicuro; anche l'Aristodemo incomincia maestoso e fiorito:

 

«Sì, Palamede, alla regal Messene

«Di pace apportator Sparta m'invia.

«Sparta...»

 

con quel che segue e che ogni buon dilettante ricorda, senza bisogno di suggeritore alla buca.

Del resto, chi sa? Era logico che quell'amore, nato così facilmente, come i funghi tra uno scroscio di pioggia ed un raggio di sole, si disfacesse chetamente da sè, con altrettanta ragione di morte quanta era stata la sua ragione di vita.

Di Ariberti e delle sue incertezze vi ho detto, e si capisce perchè avesse lasciata intisichire la sua passione a quel modo. Ma che pensare della signora Giselda? Ecco qua una faccia del poliedro (poichè la geometria è di moda in letteratura) una faccia da poliedro teatrale. La donna, creatura debole, ha sempre mestieri di appoggio; la prima donna, che è donna alla seconda potenza (vedete? dalla geometria si passa nell'algebra), ha mestieri di appoggi. L'uomo, anzi, gli uomini, non sono un fine per lei, ma strumenti ordinati ad un fine, collocati sulla sua strada perchè essa li usi a quel fine. Perciò, amori pochi, e tutta galanteria; galanteria molta o poca, schietta od impura come le varie qualità di petrolio che sono in commercio (ahimè, qui si casca dall'algebra nell'industria!), ma sempre subordinata alla carriera.

La carriera, capite? Imperocchè, salvo i casi di fare fortuna con qualche ricco sfondolato che offra il suo cuore per la trafila del notaio e del prete (adesso bisognerà aggiungere il sindaco), il sopraccapo della carriera artistica va innanzi perfino alla cura del vile guadagno. il tornaconto è una cosa; la carriera è tutto. C'è dentro la soddisfazione dell'animo, la vanità consolata, le rivalità debellate, la notorietà, l'apparenza, insomma tutti i benefizi dell'essere in mostra. Anche il giornalista, per quanto dicono i suoi critici, è fatto un pochino così. Semel abbas semper abbas; cioè a dire che quando abbia una volta assaporate le pericolose gioie dell'essere in vista, alla ribalta del suo teatro politico, non sa più rassegnarsi a tornare fra le quinte. Come? potrebbe egli venire il giorno per lui che Minghetti, o chi per esso, non tremasse nello strappare la fascia del suo riverito giornale? che nessuno dei mendicanti di fama credesse più necessario di fargli la sua scappellata per via? Si grida contro le seccature del mestiere; ma che serve? il palcoscenico attira. Avanti dunque gl'istrioni! Anche a Nerone, buon'anima sua, dispiaceva di andarsene dalla scena del mondo, e soltanto perchè non avrebbe potuto più sostenervi la sua parte. «Qualis artifex pereo!»

Eppure la felicità è una cosa modesta nelle sue apparenze, dirò meglio, una cosa oscura, che si compiace nel silenzio e sa farsi, con pochi ma saldi affetti e con umili ma care consuetudini, il suo recesso ignorato anche in mezzo alla folla. Solo il piccolo mondo che ci siamo foggiati, per così dire, nei ritagli del grande, ha veri conforti per noi, o tanto più efficaci in quanto che sono più concentrati. Ma sì, andate a dirlo agli istrioni! Neppure Giselda era fatta per accettare di buon animo la sua parte di felicità con Ariberti, quantunque giovane, bello, e innamorato per giunta. Se egli avesse posseduto almeno cinquanta mila lire d'entrata, chi sa?.... Forse allora la bella diva avrebbe potuto rinunziare al suo piedistallo sul palcoscenico, ma per formarsene un altro nella società elegante e per avere il diritto di lagnarsi poi, di rimpiangere costantemente due volte al giorno il sacrificio fatto di tanti omaggi d'adoratori a cui era avvezzata, dei fiori, degli applausi e del nome in mostra sui cartelloni.

Quanto ad accettarlo come un amante, a dargli e ad accoglierne un tributo d'affetto immenso e fugace, la cosa sarebbe stata più facile, perchè Ariberti le era simpatico. Rammentate il modo in cui si erano conosciuti. Ma il piacere agli occhi di una donna non basta ancora; e spesso, in una società che fa tutto a mezzo e non ha gagliardia d'impulsi per la virtù nè pel vizio, val più una occasione colta a volo, che non la costanza e l'ossequio da un lato, e la passione, o la misericordia, dall'altro. Poi, il nostro innamorato non era stato abbastanza audace, o la signora Szeleny non aveva avuto bisogno abbastanza di lui. Siate audaci; un granellino d'audacia dà risalto all'amore. Rendetevi necessari, e sarete anche cercati. È il segreto di molti con molte, e se non temessi di farmi cavar gli occhi da qualche decima Musa sdegnata, vorrei dire con tutte.

Così adunque ebbe fine quell'altra passione di Ariberto Ariberti. Venne un mattino uggioso e freddo, sebbene fosse già di primavera inoltrata, che la signora Giselda Szeleny se ne andò via da Torino. Era stata cinque mesi sulle rive del Po, e mietuti quei pochi allori, pigliati a stento quei magri quartali che l'impresario giurava non aver essa guadagnati, se ne tornava alla sua residenza artistica in riva all'Olona. Spariva, insomma, portando via ad Ariberti un pezzettino di cuore e lasciandogli in ricambio qualche frase magiara pei suoi studi di lingue comparate, un guanto per la sua collezione di roba scompagnata e qualche ciocca di viole appassite, malinconici trofei d'un amore, che si era fermato alle prime avvisaglie. Ma no, dico male; gli lasciava anche la promessa di scrivergli spesso e lungamente, tanto per avere una scusa a non dirgli altro a parole e per dare una forma meno recisa e fredda all'addio.

Frattanto quel suo ripesco amoroso colla bella inglesina andava innanzi col solito metro. E i debiti pur troppo del pari, di guisa che Arun-el-Rascid già incominciava a star sul tirato e il nostro eroe si vedeva in un ronco, senza speranza di uscirne.

Il suo dramma era stato recitato ed era anche piaciuto discretamente ai popoli. Ma egli aveva lavorato per la gloria, la qual cosa vuol dire che non aveva buscato un soldo. E per giunta alla derrata, quel po' di gloria gli fruttò noie e grattacapi a bizzeffe. La Dora aveva detto corna del lavoro, e con parole di superbo dispregio, che a lui parve eccedessero i termini assegnati alla critica onesta. Si capisce che mandò subito i suoi padrini ai compilatori dell'ibrido giornale. Andarono questi e trovarono Ferrero, che rifiutò di battersi per un giudizio letterario. Povero a lui, diceva, se avesse dovuto dare soddisfazione sul terreno a tutti gli autori fischiati, o degni di esserlo! In quell'idea s'incocciò, nè ci fu verso di smuoverlo, neanche con qualche frase un po' dura. Quanto al contino Candioli, egli non poteva battersi che coi pari suoi, e Ariberto Ariberti era un plebeo. La teorica parve più codarda che superba al Priore, che, trovandosi in ballo, commise l'imprudenza di dare il suo conto giusto a quello sciocco vanaglorioso. Non lo avesse mai fatto! La sera di quel medesimo giorno, era chiamato ad audiendum verbum alla polizia, e lì, sui due piedi, mandato via da Torino. Straniero, con qualche marachella sulla coscienza, ce n'era d'avanzo per dargli lo sfratto.

Ariberti capì l'antifona. Era in un paese di prepotenti, e qualcosa poteva toccare anche a lui. Però stette zitto e divorò la sua rabbia. Intanto, la cacciata del Priore gli faceva perdere eziandio la speranza di qualche aiuto ne' suoi bisogni più urgenti. Perchè, come sapete, il Priore era generoso a' suoi giorni. Lui partito da Torino e senza timore che potesse tornare, incominciarono le chiacchiere sul conto suo e si venne a risapere che teneva il sacco ai banchieri del Ghetto e tirava in trappola i figli di famiglia; ma, dopo tutto, Tristano Falzoni non era un usuraio egli stesso, e se guadagnava male il denaro, sapeva poi spenderlo bene, rendendo anche qualche servizio ai merli spennacchiati per opera sua. C'era in lui, come si vede, il sentimento della restituzione; non lo si poteva dire in tutto, nè del tutto un malvagio... In altri tempi, e con più nobili occasioni, avrebbe potuto essere un eroe. Il tempo suo, la vita randagia, l'oziosità, l'amor dello spendere, il bisogno, ne avevano fatto un cavaliere d'industria.

L'accorta inglesina non ebbe a far molto, per avvedersi che il suo amante navigava in cattive acque. In verità, bisogna dire che ci sia proprio qualche cosa, intorno a noi e parte imponderabile di noi, la quale non si vede, come l'aureola dei santi nei quadri della vecchia scuola, ma si sente tuttavia e fa intendere l'animo nostro, indovinare gli arcani della nostra vita a cui meno vorremmo. Essa è qualche volta l'aureola della felicità e della gloria, qualche altra della miseria e dell'abbattimento. Si ha un bel nascondere questi segreti e custodirsi il volto con una maschera di bronzo; essi, quando non traspariscono, traspirano da noi. Inoltre ci sono nella vita di un uomo giorni di fortuna e giorni di disdetta; negli uni va tutto bene, anche il mal fatto; negli altri va tutto male, anche il più sapientemente architettato a fin di bene.

Ariberti era in uno di questi periodi; non gliene andava più una diritta. Però aveva perduto la serenità spensierata dell'animo; rideva ancora qualche volta, ma, in mezzo alle matte allegrezze, il suo spirito si arrestava in soprassalto, come se una voce interna lo richiamasse alle angustie, alle malinconie della sua condizione. Si aggiunga che la sua eleganza era sparita, o per meglio dire, aveva perduto ogni freschezza, ed egli faceva lo zerbinotto sugli avanzi del passato splendore; campava sui rilievi della sua propria mensa. Aveva incominciato a mettere un cordoncino di seta in luogo della catenella vistosa che gli ornava la sottoveste, venduto a mano a mano i ciondoli, le spille, i bottoni ed altri simiglianti gingilli. Un bel giorno anche l'orologio se ne andò al monte; segno (avrebbe detto qualche capo armonico dei cavalieri di Malta) che era annoiato di rimanere in pianura.

E proprio allora quell'inglesina del malanno incominciava ad aver mestieri ogni tanto di saper l'ora giusta. Per qualche giorno la tenne a bada con certe sue invenzioni; un po' era uscito senza orologio; un altro po' lo aveva dato ad aggiustare, e l'orologiaio, secondo il solito, non si faceva premura di renderlo, infine, menava il can per l'aia, o fingeva di non avere udito.

Intanto, i calabroni erano ricomparsi e le ronzavano a sciami d'attorno. Questa frequenza non si era più vista dopo la passeggiata notturna che ho raccontato più sopra; segno che l'inglesina tutta intenta ad irretire il giovinetto, aveva tenuti quei molesti invasori lontani dall'alveare. Come diamine si erano essi fidati di ritornare? Fiutavano anch'essi la chiusa del romanzetto, o rispondevano ad una chiamata? Ariberti non ne sapeva nulla, ma si adombrava di tutto. Il cattivo umore lo rendeva ancor più geloso che per sua natura non fosse.

E incominciarono i lagni, i battibbecchi, temperati in principio dalla passione, resi ancora sopportabili da un certo qual garbo capriccioso, come le gelosie dei personaggi goldoniani, ma in processo di tempo più acerbi, via via meno facili a chetarsi, e conchiusi da ultimo in una scenata coi fiocchi.

Erano volati da una parte e dall'altra i paroloni; ma quelli di Ariberti non dimostravano altro che il suo dolore; quelli di Mary andavano a ferire il punto più sensibile del cuore umano, la vanità. Una rottura era dunque inevitabile. E si piantarono scambievolmente; quella medesima facilità che aveva accese le faci d'amore, fu pronta del pari ad estinguerle.

A distogliere l'animo di Ariberti dal pensiero niente piacevole di quella catastrofe amorosa, ne sopravvenne un altro egualmente molesto, quello degli esami, che quasi gli erano usciti di mente. Ma già, questa è la storia degli esami, che hanno il torto di capitar sempre a contrattempo. Studiò in fretta, e male, o per dire più veramente, diede una scorsa di gran carriera ai trattati per vedere se gli riuscisse di ritenere almeno i titoli delle materie. La prova gli andò, com'era naturale che andasse, con quella tintura superficiale e con quella confusione di Digesto e d'indigesto in corpo.

Per giunta, il professore di diritto romano gli fece un tiro mancino, che segnò irremissibilmente la sua caduta.

Ad una risposta spropositata che n'ebbe intorno alla classificazione delle azioni giuridiche, quel burlone di professore, trasse al povero Ariberti questa sanguinosa bottata: «già capisco, signor mio, ch'Ella conoscerà solamente l'azione... teatrale».

- Non capisco; - balbettò lo studente.

- Già, l'azione del poeta comico contro il corago, o direttore di compagnia drammatica presso i Romani, per chiedere il pagamento di una favola in cinque atti.

E così, passin passino, trastullandosi con lui come il micio col topolino, il degno sacerdote di Astrea condusse lo studente attraverso tutti gli andirivieni, le viottole e i chiassi delle antiche consuetudini teatrali. Ariberti perdette a dirittura la bussola.

- Capisco, - disse allora il giureconsulto con un suo risolino sardonico; - Ella è più forte in diritto teatrale moderno. Ma questo non è affar mio; favorisca passare al collega. -

Ora, siccome il collega non ebbe più fortuna di lui nelle interrogazioni che fece al nostro povero eroe, ne avvenne che questi fu rimandato senza misericordia agli esami di novembre. Cosa strana, inaudita, quasi, nella facoltà dell'utroque jure; eppure doveva toccare al signor Ariberto Ariberti.

Voleva piangere, e già stavano per apparire i lucciconi tra ciglio e ciglio; ma si trattenne, per non dare argomento di riso ai suoi compagni di corso, gente ignota, o giù di lì, che lo stavano guatando curiosamente ammucchiati sull'uscio della sala tremenda, che risuonava ancora del doloroso giudizio.

- Andate là, signor Ariberto Ariberti, - parevano dirgli quelle occhiate curiose, - per un drammaturgo della vostra forza, per un raccoglitore di Frondi sparse come voi siete, una figuraccia simile è troppo. Che non aveste a diventare un Bartolo da Sassoferrato, lo si capiva, giudicandovi ad occhio; ma s'intende acqua e non tempesta, e voi siete andato a dirittura a sedervi sulla panca dell'asino. -

Così, divorando le sue lagrime col metodo dei camini fumivori, uscì dall'Università con un muso lungo un braccio; che poteva esser broncio e tracotanza ad un tempo. Ma l'uno e l'altro sparirono per dar luogo alla confusione più profonda, quando, sotto i portici di Po, s'imbattè d'improvviso in una certa figura, che gli gelò il sangue nelle vene più prontamente che non avrebbe fatto la testa di Medusa, buon'anima sua. Ha indovinato il lettore? La figura che faceva di simili effetti sul sangue di Ariberti era quella del signor Amedeo, di suo padre.

Si ricambiarono poche parole. Ariberti si avvide al solo atteggiamento del volto paterno, che non era il caso di chiedere un abbraccio, e avvilito e confuso come un cane bastonato, accompagnò il muto genitore al suo quartierino di piazza Vittorio.

Il signor Amedeo ascese le scale con passo grave e misurato, come il famoso commendatore di pietra. Don Giovanni Tenorio già prevedeva la sua sorte, e frattanto quel passo gli rimbombava spaventosamente all'orecchio.

Come furono dentro, il vecchio accigliato diede una spinta all'uscio, che si richiuse da sè. Ci siamo, disse in cuor suo il giovinotto, che avrebbe voluto in quell'ora sprofondarsi due metri sotterra, anche a rischio di dover fare una visita inaspettata ai casigliani del primo piano.

Finalmente, nello studio del figlio, e davanti a quello scrittoio che faceva ancora testimonianza delle recenti ed inutili sue meditazioni sul Digesto, il signor Amedeo si fermò su due piedi a guardare il figliuolo.

- È inutile; non mi fate commedie; - disse il signor Amedeo, troncando le parole in bocca a suo figlio, che, armatosi di coraggio, balbettava alcune parole di pentimento, - so tutto, e le vostre bugie non servirebbero più. -

Ariberto si gettò singhiozzando ai piedi di suo padre.

- Vostra madre è inferma; - proseguì quegli implacabile. - Sapete il perchè? -

Il giovine aveva dato un sobbalzo. Ma prima che potesse profferire parola, suo padre gli gettava sdegnosamente davanti una lettera, con un «leggete!» così imperioso, che egli non ebbe più il coraggio di chiedere altro.

Prese in quella vece la lettera e l'aperse. Era sottoscritta «un amico»; la solita firma degli anonimi. Questo amico mandava da Torino al signor Amedeo le più brutte nuove del figlio, della sua scioperataggine, dei suoi debiti e via discorrendo. Un cenno intorno al probabilissimo esito degli esami, disse abbastanza chiaramente ad Ariberti che l'anonimo era un compagno di Università, e il nome di Ferrero gli corse tosto alla mente. Codardo e briccone! Così si vendicava il compilatore della Dora dell'invio dei padrini.

Ariberti aveva a mala pena finito di leggere, che il signor Amedeo gli buttò a' piedi una seconda lettera. Questa era di Aronne, il buon servitore del Dio degli eserciti; e informava il padre degli imprestiti fatti al figliuolo, domandandogli se egli, Aronne, poteva all'occorrenza fargliene di nuovi. Generoso Aronne! Anima candida come le sue unghie, o poco meno!

Il signor Amedeo sapeva proprio tutto, siccome aveva detto pur dianzi. Che cosa soggiungergli allora? E prima d'ogni altra cosa, come guardarlo in faccia? Il nostro eroe non sapeva davvero in qual modo uscire dal ronco. Frattanto rimaneva lì grullo, cogli occhi bassi e le braccia penzoloni davanti al suo giudice, aspettando un'altra frase che lo facesse cadere da capo sulle ginocchia.

Dopo alcuni istanti di silenzio, che al nostro eroe parvero un secolo, e che gli diedero una pregustazione dell'inferno, come l'hanno immaginato e perfezionato i teologi, il signor Amedeo domandò asciuttamente a qual somma ascendessero i debiti del signorino.

La somma, per uno studente, era enorme, ed Ariberti non sapeva risolversi a dirla. Balbettò alcune frasi inintelligibili, arrossì, impallidì, sudò freddo, e finalmente non trovò altra via per uscire d'impaccio fuorchè dare in un nuovo scoppio di pianto.

- Finiamola! - ripigliò severamente il signor Amedeo. - Il buon nome della mia casa io non lo salverò mica colle vostre lagrime di coccodrillo. Parlate, e sia per vostra punizione; a qual somma ascendono i vostri debiti?

- Padre mio... non saprei...

- Come? - tuonò il signor Amedeo. - Non sapete.

- Cioè... volevo dire... non mi bastava l'animo...

- Vi è pure bastato per farli! Suvvia, meno chiacchiere; di che si tratta? di sei mila lire?

- Di più; - mormorò tra i singhiozzi Ariberti.

- Dieci?

- Di più. Ah, padre mio, ve ne supplico; uccidetemi colle vostre mani, ma non mi fate morir di vergogna.

- È bene che la conosciate ancora; - notò il signor Amedeo. - E poi, dove sarebbe la moralità, se non aveste a sentire tutto il peso delle vostre opere malvagie?

- Oh, se lo sento, padre mio, se lo sento! Vorrei esser morto appena nato, pur di non esser costato tanti dolori alla mia famiglia.

- Ma insomma, disgraziato, - gridò il signor Amedeo, muovendogli incontro con piglio sdegnoso, - si si può sapere senza tante frasi drammatiche, tutto il male che avete fatto fin qui? Avreste per avventura creduto di restar orfano a breve scadenza, tanto da impegnarmi cogli usurai tutto quello che i vostri vecchi hanno accumulato colle loro fatiche?

- No, vi assicuro... credo che fra tutto... quindici, o venti... sì, debbono essere ventimila..

- In un anno? Ma bene, per Dio! Tirate innanzi così. Alla mia morte, che spero non sarà lontana....

- Padre mio!

- Non m'interrompete! Alla mia morte non vi resterà più altro che darvi alla strada, come un volgare assassino. È la sorte che vi aspetta; una caduta ne chiama un'altra. Nemico della vostra famiglia fin d'ora, lo diverrete della società; dissipatore della vostra sostanza, diverrete ladro dell'altrui.

- Padre mio! padre mio! - gridò forsennato Ariberti. - Uccidetemi, ve l'ho detto, uccidetemi, ma per quanto avete di più sacro, per la mia santa madre, non mi parlate così!

- Vostra madre! La ricordate in buon punto. Vostra madre è in letto da due giorni, e per voi, pel dolore, e per la vergogna delle vostre azioni da galera. -

Ariberti non s'inalberò, non udì nemmeno la frase esorbitante che la collera strappava alle labbra di suo padre. L'immagine della sua buona genitrice inferma per cagion sua gli aveva messo in corpo la febbre e lo faceva dare in urla così disperate, che perfino il signor Amedeo ne ebbe pietà.

- Andate a Dogliani; - gli disse allora, - -vostra madre vi aspetta. Qui intanto non avete a fare più nulla, ch'io mi sappia.

- Oh no, purtroppo; - rispose il giovane - ma voi, padre mio?

- Non vi date oggi più pensiero di me che non abbiate fatto in quest'anno di scapestrataggine; - rispose il signor Amedeo, tornando alla sua parte di burbero. - Io, poi, ci ho il mio resto di contentezze a Torino. Non mi avete voi nominato il vostro banchiere, il vostro maggiordomo, il vostro elemosiniere? Andate, e fatemi la grazia di non voltarvi più indietro. -

Il giovine si avvide che non c'era più verso di cavar altro dalla giusta severità di suo padre, ed uscì colla mente in iscompiglio. Soltanto per istrada e molto lontano da casa si ricordò che non aveva danari in tasca per fare il viaggio. Ma, se ne fosse pur ricordato qualche minuto prima, o nelle scale, o in casa, avrebbe egli forse avuto il coraggio di chiederne a suo padre?

In quelle distrette, il caso o una segreta ispirazione del cuore, lo condusse difilato in piazza San Carlo, e proprio alla svolta della via di Santa Teresa. Lasciamo star dunque il caso e l'ispirazione, e diciamo i suoi santi protettori. I quali, dopo aver fatto tanto, compirono l'opera, spingendolo oltre, fino all'uscio di quella casa in cui abitava Filippo Bertone.

Dice un proverbio che gli amici si conoscono alla prova. Aggiungerò coll'esempio di Ariberti che al momento della prova s'indovinano. Egli non era mica andato a cercare i cavalieri di Malta, i suoi compagni di scioperatezza, coi quali aveva passato ancora la sera antecedente, per far la vigilia del suo esame infelice. Andava in quella vece da Filippo Bertone, dal suo fortunato rivale, in cui la sera antecedente egli vedeva ancora un nemico.

Filippo gli aperse le braccia e se lo strinse al petto con tenerezza fraterna. Voleva sorridergli; ma lo vide così stralunato, che il sorriso gli si gelò sulle labbra.

- Mio Dio! - esclamò egli impallidendo. - Che ti è accaduto, Ariberto?

- Rovinato, Filippo, rovinato! - rispose il giovane mentre si lasciava cadere come corpo morto su di una scranna. - Rimandato all'esame; rimandato, capisci? Mio padre è qui. Egli sa tutto, le mie pazzie, le mie colpe. Ne ho molte... ne ho troppe... ed anche con te, Filippo...

- Oh, non parlar di me, te ne prego. Vedi, ti ho sempre aspettato. L'avevo qui nel cuore: egli è buono e tornerà. Sarei venuto io per il primo, se non avessi temuto di farti dispiacere; sarei corso, se ti avessi saputo infelice.

- Lo sono, Filippo mio, lo sono, e più che tu forse non credi. Ho perduto l'affetto di quell'uomo onesto e leale che è mio padre; la mia santa mamma è inferma dal rammarico che io le ho cagionato; insomma, io sono un disgraziato, e mi fo orrore, capisci? mi fo orrore!

Qui, d'una in altra parola, Ariberti scese a raccontar ogni cosa a Filippo; della sua vita sregolata, degli amori, dei debiti, degli esami falliti, e via discorrendo.

- Povero amico, fatti animo - -gli disse Bertone. - Un padre come il tuo ama sempre il suo sangue, qualunque cosa egli faccia; fuori, s'intende, il bruttarsi con azioni malvagie od infami. Tu ti sei indebitato fino agli occhi e non hai studiato come dovevi. È male, lo capisco, ma non è fortunatamente un delitto di lesa famiglia, come lo sarebbe stato per me. Non ti disperare, Ariberto; parlerò io a tuo padre. Tu frattanto va subito a Dogliani per consolare la tua povera mamma. Chi sa che il vederti non le ridoni la salute, meglio di tutte le ordinazioni del medico! So ancor poco di medicina, - soggiunse Filippo sorridendo, - ma già abbastanza per conoscere il pregio delle medicine morali. Va dunque, e subito. Se ti occorre danaro, eccone.

- Che fai? - balbettò Ariberti confuso. - Tu ti privi per me...

- Non temere; ne ho più del bisogno. Son ricco, sai? Guadagno un dugento lire al mese e fo ancora qualche sparagno.

- E come? - chiese Ariberti, meravigliato più dei guadagni che non dei risparmi del suo amico Filippo.

- Ho già parecchie lezioni, - -rispose questi candidamente, - ed anche qualche ripetizione di anatomia. Che vuoi? Insegno quel che non so; - aggiunse Filippo, accompagnando le parole con uno dei suoi malinconici sorrisi; - ma studio la mattina e insegno più tardi quello che ho imparato io medesimo un'ora prima. In tal guisa non inganno nessuno. Mi stanco un pochino, è vero; ma tu lo sai, sono un montanaro e ci ho uno stomaco di ferro.

- Mio buon Filippo! Tu meriti davvero di essere amato; - esclamò Ariberti, gittandogli le braccia al collo.

E il pensiero gli correva in quel mentre, ma senza gelosia, alla bella marchesa di San Ginesio. Quella severa Giunone amava il suo Filippo; su questo non ci cascava dubbio. Ma questa, per chi conosceva lui e lei, doveva essere la cosa più naturale del mondo. Ariberti si sarebbe meravigliato fortemente, avrebbe creduto meno alla virtù e all'influenza della virtù, se la cosa fosse andata altrimenti.

- Grazie di questo e dell'altro; - ripigliò Ariberti, dopo aver ceduto a quell'impulso di affetto e di ammirazione. - Tu dunque parlerai a mio padre? otterrai il suo perdono per me?

- Sì, non dubitare, parlerò per te, gli spiegherò.... Veramente, non so che cosa potrò spiegargli, io che vivo fuori di questi viluppi... Ma infine gli dirò il buon cuore che hai, ed egli mi crederà. È tuo padre, l'ho detto, e non potrà vederla diversamente. Quanto a me, io spero che l'amicizia mi renderà facondo come Ortensio, caldo come Demostene.

E Filippo Bertone mantenne la promessa. Vide il signor Amedeo quel medesimo giorno, ma non entrò in argomento, perchè il babbo di Ariberti era troppo adirato col figlio. Scambio di affrontarlo, col pericolo di farsi mandare a tutti i diavoli, lo circuì bel bello, gli si fece compagno nelle sue gite per Torino, mettendo fuori ora una parolina, ora un'altra, e aspettando pazientemente le occasioni più favorevoli. E siccome il signor Amedeo tra carezze e minacce, era riuscito ad ottenere da quel briccone di Arun el Rascid un grosso taglio sul preteso suo credito, e con dodicimila lire date lì per lì riusciva ad estinguere tutti i debiti del suo signor figlio, il nostro Bertone giunse ad averlo più maneggevole, e la perorazione fece un effetto che Demostene ed Ortensio redivivi non si sarebbero ripromessi di certo, se si fossero trovati nei panni di Filippo Bertone.

Sì, veramente, Ariberto si era diportato da matto. Ma era giovine, faceva i primi passi nel mondo, e i primi passi son sempre difficili. Lo sapeva Filippo Bertone, che veramente non era cascato, ma soltanto perchè stretto dal bisogno, senza la croce d'un quattrino e l'ombra d'una speranza negli aiuti della famiglia. Filippo si buttava giù, si calunniava, ma lo faceva a buon fine. Per contro si esaltava, si nobilitava a dipingere il cuore dell'amico, a dimostrare come fosse amaramente pentito de' suoi trascorsi, quanto avesse pianto tra le sue braccia, come egli avesse durato gran fatica a chetarlo, quali promesse e giuramenti avesse religiosamente accolto da lui. Insomma, tanto disse e fece il bravo Filippo, che il signor Amedeo si lasciò intenerire e quando tornò a Dogliani, fra la moglie trepidante e il figlio confuso, gli vennero meno le forze a star grosso.

E qui bisognerà dire che Ariberto non mentì alle promesse che Filippo aveva fatte in suo nome. Fu quello l'ultimo dolore che egli cagionasse ai suoi parenti. La lezione era stata dura e gli aveva lasciato una traccia profonda nell'anima.

Ogni suo pensiero, ogni studio, ogni cura, fu in lui di riacquistare il tempo perduto. Alla seconda prova d'esame era armato di tutto punto e non fu il caso di voltargli le sue risposte in burletta, bensì di dargli i pieni voti e la lode. Riconquistato in tal forma il suo onore, non volle rimanere a Torino; se ne andò a Pisa, a far vita nuova; e là, non so dirvi come annaspasse, fatto sta che, senza guardar l'Ussero con occhio torvo, senza disdegnare la baraonda «tanto gioconda» del Giusti, guadagnò un anno di corso, e in otto mesi prendeva il berretto, l'anello e tutte l'altre insegne di Bartolo e di Cujacio.

 

 

 




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