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Anton Giulio Barrili
La notte del commendatore

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CAPITOLO XVII.

 

"Poëta nascitur, orator fit".

 

Si era innamorato dello studio, come già di tante altre cose. E tra tutte le nobili discipline (notate, lettori umanissimi, come anche lo scrittore si metta sul grave e adoperi parole convenienti al soggetto) tra tutte le nobili discipline, io dico, il nostro eroe preferiva le più ostiche, come a dire l'economia politica, il diritto amministrativo, la procedura civile. Chi l'avesse mai detto, qualche anno prima all'autore delle Frondi sparse, si sarebbe fatto ridere sul muso. Ma già, lo ha scritto un autore di vaglia: «mutano i saggi», ed io potrei aggiungere, coll'esempio di Ariberti, anche coloro che non lo sono.

Quando egli si addottorò in leggi, che fu due anni dopo la sua partenza da Torino, gli aveva preso la mania del grave, come aveva avuto prima la manìa dello scapestrato. Per altro, non era tutto capriccio in lui, o amore di novità. Gli stavano sempre davanti le tristi scene in cui si era chiusa la sua vita di buontempone, e lo umor suo ne risentiva le angoscie. Dottor Fausto in sessantaquattresimo, Ariberti non volle e non ebbe più una ora di svago. Aggiungo, che provava una certa voluttà tutta sua particolare a stillarsi il cervello in quel modo, tra un codice e un repertorio di giurisprudenza, tra una allegazione e una causa ingarbugliata, di quelle che ai curiali paiono solamente «complesse» e piene di bei «rapporti giuridici».

Esagerazione di propositi, comune a tutti i nuovi convertiti! Pel nostro neofito si aggiunse la morte della madre, vittima della rottura di un aneurisma, secondo che sentenziarono i medici, ma che alla sua pietà filiale doveva parere colpita di ben altro male, e accrescergli in cuore i rimorsi. La santa donna si era spenta benedicendo a suo figlio, e facendo voti perchè si conservasse così assegnato e studioso come si dimostrava da due anni. E questo aiutò a renderlo più triste, più chiuso, più intento al lavoro, che non fosse dapprima, e per conseguenza più dimentico delle allegrezze mondane, dei sollazzi e delle espansioni della sua medesima età.

Poi, non c'è cosa che invecchi un uomo anzi tempo, come la pratica forense. Alla mattina, anche prima di asciolvere, e sto per dire di essersi levato il sonno dagli occhi, ci sono le conclusioni da finire pel causidico, i punti controversi da chiarire, la «concione» da meditare per l'udienza vicina. Il tribunale vi ruba le due o tre ore, spesso colla noia di attendere che sia chiamata la vostra causa. Tornate a casa, seguito dalle benedizioni o dai moccoli del cliente, e vi assediano da capo i procuratori con altre conclusioni da preparare, clienti che non pagano e vi chiedono un consulto, società, istituti, che vi domandano un congresso, o vi appioppano la cura di mettere le loro trappolerie in riga col codice.

E in queste occupazioni vi capita addosso l'ora del pranzo, o desinare che sia. Avvertito dal servitore, ordinate che si dia in tavola, e frattanto andate a caccia di articoli per un'altra mezz'ora. Così avviene che, quando finalmente potete sedervi a tavola per mangiare un boccone in furia, la minestra è rifredda, l'intingolo non ha più gusto, il pasticcio sente il bruciato, e l'appetito non vi tien più compagnia. E la sera, poi? La sera bisogna tornar nello studio; il teatro, i salotti, i geniali ritrovi sono proibiti come le pistole corte; è l'ora dei clienti; l'avvocato ha da aspettare i clienti, anche quando c'è da scommettere cento contro uno che i clienti non si lasceranno vedere.

Imperocchè l'avvocato è nel suo studio quello che un ragno nella sua buca. Il povero insetto solitario se ne sta in attesa per giorni e per settimane, regge l'anima coi denti, invocando una mosca, disposto a contentarsi d'un moscherino purchessia. E per giorni che passino, per settimane che si seguano e si rassomiglino, il povero solitario non può muoversi dal suo bugigattolo. Se per caso un moscerino avesse a passare da quelle parti e non trovasse l'avvocato! Scusate, volevo dire il ragno; ma già, poichè ho detto l'avvocato, lo lascio stare; mettete voi il cliente in luogo del moscerino, e tutti pari!

La vita materiale dell'avvocatino Ariberti, fra il tribunale e lo studio, condannato per anni ed anni a non avere che moscerini, clientucoli al civile e ladruncoli al criminale, s'intenderà facilmente; nè io farò fatica di descriverla, nè voi, lettori umanissimi, farete quella di starla a leggere. Vorrei parlarvi in quella vece della sua vita intellettuale; vorrei dirvi del suo cuore, che diavolo facesse in quella galera. Ma già, mente e cuore, se non erano atrofizzati, sonnecchiavano, come si sonnecchia in diligenza, o in ferrovia, tra un paese che si è lasciato e un altro a cui non si è ancora arrivati.

Diffatti, Ariberto Ariberti, era proprio in quella età che un uomo incomincia a sentir le sue forze e vuole giungere con esse a qualcosa, a scalzare una montagna, o a cavare un ragno da un buco. Si è invasi da una febbre di operare, sollecitati da un desiderio di andare, non importa dove, rosi da una maledetta ambizione che si cruccia da sè, per mancanza di un fine stabilito, e mentre vi fa anelare ad una carica di ministro, o ad altra di quelle altezze intorno alle quali c'è il vuoto, vi fa durare una fatica da cani per afferrare un seggio di consigliere comunale, una croce di cavaliere, una presidenza di comizio agrario, od altra simile tra le umane grandezze, in cui s'assottiglia l'ingegno, e per cui soventi si perdono i sonni, pur di far crepare d'invidia un centinaio di sciocchi della vostra medesima forza.

A quei lumi di luna, l'amore, il povero amore, non è più, o non è ancora tornato, il gran negozio della vita. Imperocchè, non vanno neppure contati i ripeschi da dozzina, i capricci, le effimere ebbrezze che gli uomini seri ammettono a guisa di svago dalle cure più gravi, o di abitudine senza conseguenza, e che meritano il nome di amore come la stretta di mano e il darsi del tu meritano il nome di amicizia, in questo commercio quotidiano di graziose menzogne, che è la nostra vita cittadina.

Trista cosa, non è egli vero? E diffatti io ve ne parlo di volo, e solamente perchè non posso a dirittura passarmene, essendo che questa è la storia del mio eroe, ed io, fermandomi con una certa compiacenza ai punti principali, debbo pure accennare il rimanente, e colmar gl'intervalli. Del resto, il mio eroe non è veramente un eroe; è semplicemente un uomo, con tutte le sue debolezze. E se gli pare che sia una bella cosa esser fatto consigliere comunale o provinciale, che ci ho da far io? Gli è parso dapprincipio che ciò dovesse aiutarlo nella sua professione d'avvocato, e può anche darsi che avesse ragione; ma badate, io non metterei una mano sul fuoco per guarentirvelo, e non farei due passi sopra un mattone (vedete quanto sarebbe lieve il fastidio!) per andare a sincerarmi del fatto.

Comunque sia, eccolo con un monte di faccende sulle spalle. È consigliere di tutto un po' ed ha mano e voce in una dozzina di commissioni, l'una più utile dell'altra al buon andamento della cosa pubblica, il cui intento, chi nol sapesse, è di andare alla peggio. L'avvocato consigliere è proprio nella sua beva, e, non c'è che dire, trova tempo a far tutto, a pensare, a ricordarsi di tutto. S'intende che non ne ha per leggere un bel libro, e meno ancora per dettarne de' suoi. Dio buono, e come avrebbe a fare, con tanta roba alle mani? Già da un pezzo non scrive che conclusioni, allegazioni, relazioni, esposizioni, ed altre consimili negazioni d'ogni arte e di ogni bellezza. È un uomo serio, che ci s'ha a dire? Certo, non l'ho fatto io quel che è; e poichè siamo sull'argomento, e perchè non abbiate a darmene carico più tardi, vi giuro fin d'ora, e per tutto quello che io mi ho di più sacro, incominciando dai vostri occhi che mi leggono, vi giuro, io dico, che non gli ho dato il mio voto quando uscì eletto deputato al Parlamento da uno di quei collegi delle sue Langhe, tanto care al mio cuore.

Eppure, non posso e non voglio negare che i suoi elettori mandassero alla Camera un fior di galantuomo. Debbo anche aggiungere, per debito d'imparzialità (non giornalistica, intendiamoci che è imparzialità a denti stretti), come il candidato non brigasse poi troppo per farsi eleggere. Il caso lo aveva aiutato in tutti i modi, prima colla morte del titolare, poi colla pronta convocazione del collegio, da ultimo con la mancanza di competitori temibili. Era giovane, e qualche giornale torinese disse ridendo di lui, come di Pier Carlo Boggio, ch'egli era il deputato trentenne. Ma lo avere trenta anni non era mica una disgrazia. Intanto, gli aveva giovato molto il non essere troppo in vista a Torino, dove le invidie e i rancori non avrebbero tralasciato di perseguitarlo, incarnati nei Ferrero, nei Vigna, nei Balestra, nei Candioli, e via discorrendo. E più ancora gli era tornato utile lo aver vinto una causa di qualche rilievo per un suo conterraneo, intendente e factotum di un Creso delle Langhe, i cui fittaiuoli ed aderenti votavano con una disciplina esemplare.

In tal guisa favorito dalla fortuna, il nostro Ariberti potè credere, per un giorno almeno, che tutto fosse oro di coppella a questo mondo, poichè nessuno, durante il periodo elettorale, gli aveva dato del venduto, o del ladro. Un diario della capitale, che propugnava una delle solite candidature universali, non potendogli ancora dir altro, perchè non lo conosceva e non ci aveva ai fianchi un Ferrero, si contentò di dargli dell'asino. Ma Ariberti si era tastato le spalle, e, non avendo sentito il basto, si era contentato di sorridere. Se non ci hanno altri moccoli, aveva detto tra sè, possono andarsene a letto al buio.

Salutiamo dunque il signor deputato, e rallegriamoci col signor Amedeo, il quale da tanti anni vedeva il suo figliuolo arare diritto e finalmente raccogliere i frutti di quello che aveva seminato.

Il signor Amedeo in quella faccenda non ci vedeva troppo giusto; bisogna confessarlo a suo marcio dispetto. Ma i babbi son tutti tagliati ad una guisa; amano di vedere i loro figliuoli che tirano al sodo; e, quando ciò sia, non la guardano poi tanto nel sottile; anzi, voi li fareste maravigliare non poco, se vi metteste alla prova di persuader loro che ci possono essere altre fantasie, altre passioni, più pericolose delle scappatelle di gioventù, degli amori, dei debiti, e via dicendo; se faceste trapelare al loro miope affetto quali sopraccapi, ambizioni, e struggimenti, lavorino sotto l'intonaco di una vita assegnata, e che razza di granchi vivano e si moltiplichino, nelle acque in apparenza più chete.

Ma siamo giusti, i poveri babbi hanno proprio a sapere e prevedere ogni cosa? Lasciamo, vivaddio, che si consolino di vedere i loro figliuoli arar diritto e non mettiamo pulci negli orecchi a nessuno.

Ora, il nostro Ariberti arava diritto, non c'è che dire. Avvocato di qualche grido, consigliere, cavaliere, deputato, era un uomo oramai che andava innanzi da sè e non gli bisognava l'aiuto delle falde. Il signor Amedeo poteva dunque intuonare il Nunc dimittis e chiuder gli occhi in pace, senza timore che il suo Ariberto gli sgarrasse quind'innanzi una spanna. Suo figlio, a farla breve, era un uomo sodo, e andava per la maggiore.

Ahimè, povera vita! Noi ne spendiamo mezza a sospirare il futuro, e l'altra mezza a rimpiangere il passato. La nostra gravità è tutta qui, come in estratto, e non se ne cava neppur tanto da farcene un brodo per l'ultimo giorno di malattia, quando si legge la moralità della favola.

Per altro, non corriamo così a fiaccacollo colle deduzioni. I primi tempi di quella vita nuova di Ariberti non furono, o non gli parvero brutti. Le consuetudini parlamentari gli schiudevano come un altro orizzonte agli occhi dello spirito. Il viavai, l'affaccendarsi di tanti colleghi, il meccanismo dei partiti, le amicizie facili, le speranze comuni, gli davano una sembianza di allegra operosità, che doveva a tutta prima lusingarlo, tanto più quando gli veniva alla mente che tutti quei manipoli d'intelligenze, erano il meglio dello Stato, fior di roba, cervelli sopraffini. L'onorevole Ariberti non li aveva ancora esaminati per bene, non aveva ancora rivolto a sè stesso il «quot libras in duce summo?» di quella lingua tabana che fu pe' tempi suoi Giovenale. E poi, e poi, che serve tacerlo? Egli ci aveva nel cuore un sentimento grave e poetico ad un tempo, che gli scaldava tutte le fibre e lo faceva guardare con fiducia, davanti a sè: giovare alla patria, meritare la gratitudine de' suoi concittadini, ottenere un buon punto nella lotteria della storia.

Illusioni che avevano a svanire assai presto! Appunto allora che l'onorevole Ariberti poteva giovare col senno e colla parola alla patria, appunto allora incominciarono a pungerlo gli strali della critica, che non si fermavano soltanto all'epidermide. Avvocato, poteva ancora essere tollerato; il numero dei rivali era ristretto; e poi, Dio buono, si trattava di rivali; laddove, nel campo della politica, non erano soli i rivali a fargli il viso dell'armi, ma si addensavano intorno a lui gl'invidiosi, gli odiatori di professione, i cani ringhiosi per natura, e a farla breve, tutto il banno e l'eribanno dei cattivi, degl'impotenti, dei malsani, degli spostati, degli sciocchi, e chi più ne ha ne metta. Tutti erano contro di lui, tutti prendevano a sfrombolarlo da lungi, quale colla matita del caricaturista, quale coi periodi asmatici d'una lettera politica, quale coi perfidi accenni di una notizia recentissima; che in queste e in altre forme, che troppo mi condurrebbe in lungo il descrivere, le serpi potevano schizzare il loro veleno, o la bava.

Così, guerreggiato da varie parti, il nostro povero eroe capì finalmente la esistenza di certe alleanze sotterranee, che a prima giunta, e ragionando onestamente, parrebbero impossibili, e che molti galantuomini s'impuntano tuttavia a negare.

Ahimè, bisogna esserci dentro, colle mani e coi piedi nella maledetta politica, per aversi a convincere che lo strano è il naturale, l'assurdo il necessario, l'improbabile il vero.

S'intende e va da sè che su quel palcoscenico, anzi tra le quinte, i tenori, i baritoni, le prime donne, gli facevano i più leggiadri sorrisi del mondo. Il suo primo discorso, o, come direbbesi in gergo teatrale, la sua aria d'uscita, ebbe applausi e complimenti d'ogni parte. Ma appunto da quell'ora incominciarono gli assalti della bieca combriccola, che mentisce il nome e la dignità di opinione pubblica, e che ha l'arte di parer tale a tutti, per la semplicissima ragione che tutti, un brutto giorno o una cattiva ora della loro vita, vanno a deporvi la quintessenza del loro umor nero, delle loro bizze subitanee, dei loro meditati rancori.

Ariberti militava nelle file d'opposizione, ma non voleva meritarsi la nomèa di oppositore sistematico. Non voleva trovar male ogni cosa. Pensava inoltre alla sua patria e si formava un giusto concetto delle sue necessità. Donde le frequenti occasioni di scontentar Tizio e Caio, perchè mirava anzi tutto a contentare la sua propria coscienza.

Ora ognuno che non abbia di questi giudici importuni nel foro interno dell'anima, non crede o, a dirla più giusta non vuole ammettere che altri ce n'abbia e li ascolti. Immaginate dunque se gli Aristofani da dozzina non gli rivedevano il pelo! Qualche volta, vedendosi così frainteso dai popoli, dava in certe furie, che fortunatamente per la sua fama, restavano chiuse a forza nel petto, e si tradivano solamente in bizze e malinconie pe' suoi familiari, o in versamenti di bile pel medico. Avrebbe pianto volentieri, se non avesse reputato più conveniente di serbare quelle perle dell'anima (l'Achillini può andarsi a riporre) per farne un monile, e metterlo, insieme col suo cuor, ai piedi di una donna.

Ah, ah! esclameranno i lettori; ecco la donna che torna in scena. Amici lettori, voi lo sapete meglio di me, senza un raggio di sole il giorno è uggioso; ma senza un sorriso di donna è noioso a dirittura. E tuttavia, vedete, ancora per un tratto dobbiamo far senza di questo delizioso ingrediente. La donna nuova, la donna che doveva far battere il cuore di Ariberti uomo, come tante altre avevano fatto battere il cuore di Ariberti giovane, era ancora in nube, a mezz'aria. Il nostro eroe la sognava, non avendo anche avuto il tempo di andarla a cercare. Chi sa? forse quella donna gli passava daccanto, bella e composta negli atti come una madonna del Sanzio, mentre egli se n'andava frettoloso alla Camera meditando uno squarcio d'eloquenza intorno ad una quistione di tariffe doganali: o la vedeva trascorrere in calesse alla volta dei Giardini pubblici, mentre egli usciva da sollecitare una pratica in qualche ministero. Di certo essa gli appariva, divisa in cento forme, l'una più incantevole dell'altra, nei giri vorticosi d'un ballo di Corte. Se egli avesse potuto essere per un giorno per un'ora almeno, uno di que' spensierati aiutanti che sgallettavano intorno alle dame, come le avrebbe osservate tutte, studiate tutte intus et in cute, per riuscire a trovar quella che gli destinavano i Numi! E n'aveva spesso certi bagliori, e certi giramenti di capo, che non vo' dirvene altro, per non ficcarmi in un ginepreto, donde non uscirei forse più con onore. Per altro, si faceva forza; svoltava l'angolo della strada, usciva dal ballo, entrava nel palazzo Carignano, e le pericolose immagini svanivano tosto, lasciando l'onorevole Ariberti a tu per tu col suo genio parlamentare, che è, in mancanza di meglio, il genio tutelare dei deputati.

La durò un pezzo così, adattandosi colla torpida virtù della consuetudine alla sua vita di uomo politico, e affondandosi lentamente in quel pantano di mezze ambizioni, di mezze aspirazioni, di mezza indipendenza. Dico di mezza indipendenza, perchè col suo carattere e con quel suo gener di vita, egli non poteva che essere schiavo di mille circostanze, dubbi, riguardi, convenienze sociali, ragioni d'opportunità e via discorrendo. Pur troppo, il mondo, il mondo è quello che vuol essere, e a mutarlo ci vorrebbe altra barba che quella d'un uomo. Mai, come allora che fu in alto, tra coloro che più sanno e possono, il nostro, Ariberti si avvide che questo mondo non si è padroni di nulla, nemmeno di sè medesimi, che è tutto dire!

E tutto ciò senza mettere in conto gli elettori, questi padroni incontentabili, pei quali il deputato è uno schiavo negro, a cui si domanda il massimo lavoro, ma a cui per compenso non si risparmiano le frustate. Gli elettori di Ariberti non erano da annoverarsi tra i peggiori della specie, ma anche così com'erano, gli riuscivano maledettamente fastidiosi, colle loro raccomandazioni e coi loro incarichi particolari, che al povero negro non lasciavano un minuto di pace. Ora per una deliberazione del consiglio comunale che aspettava l'approvazione del governo ora per uno spaccio di sali e tabacchi che andava di diritto ad una vedova, cognata del farmacista elettore, oggi per un posto, nel collegio delle provincie, domani per una commissione da introdurre presso il ministro, e magari anche per un consiglio gentilmente chiesto dalla moglie del sindaco intorno ad un caso di etichetta, o all'ultima moda del cappellino e della mantiglia, l'onorevole Ariberti ci aveva sempre i suoi elettori davanti agli occhi, e non c'era verso di liberarsene. Lo spettro di Banquo non fu certamente così molesto per Macbeth.

Eppure, ci sono dei deputati a cui tutte queste noie, tutti questi grattacapi, non che riuscire fastidiosi, piacciono grandemente, come quelli che danno loro il modo di provare la propria operosità e la singolare autorità agli occhi del volgo elettore. Ma appunto per questo, Ariberti si persuase che l'ufficio di deputato era mirabilmente adatto a certe capacità mezzane, e che, salvo il caso di conquistare un altissimo grado, e neppur questo al riparo da certe pretensioni e da certe dimostrazioni della volubilità di fortuna, un uomo di vaglia doveva starci sempre a disagio.

- Diventerei forse anch'io un vanerello, - chiedeva egli qualche volta a sè stesso, - contento di farmi ciondolare contro i bottoni della sottoveste un pezzo da venti lire, coniato a bella posta per qualche centinaio di pari miei? -

E allora si riscaldava, e per non sembrare a sè stesso un gaudente, parlava più spesso alla Camera, dimenticando le ragioni di partito, levandosi a certe altezze vertiginose che piacevano a pochi.

Non già che non istessero volentieri a sentirlo; chè, anzi, la forma sobria ed eletta del dire, i concetti nuovi, o nuovamente espressi, gli avevano foggiata una eloquenza tutta sua, e punto parlamentare, se per questo vocabolo s'intende l'eloquenza parolaia, diffusa, slombata che va innanzi al piccolo trotto, e magari accompagnata per continuar la metafora, con qualche sproposito da cavallo. Voglio dire invece che, non la forma, la sostanza dispiaceva soventi volte; agli avversarii naturalmente, perchè faceva contro a loro; agli amici, perchè non si aiutava abbastanza, e non pigliava la battuta da tutti i loro dirizzoni. In politica, si sa, bisogna mandarne giù di tutti i colori, e un programma (che così chiamano quattro idee magre, imbottite di stoppa), vuol essere pigliato intiero, o lasciato.

Ora a questo non si acconciava l'umore del nostro deputato. Spesso, anzichè contro, o in favore, parlava in merito, e qualche volta non conchiudeva, abbastanza contento di aver detto una cosa nuova, o assennata, e di aver dato occasione ad un utile schiarimento, che tirasse la quistione in carreggiata, laddove i suoi colleghi d'ogni parte della Camera lavoravano a gara per farnela andare lontana.

Questo suo metodo strano pareva fatto a bella posta per mettere i suoi amici politici nei più brutti impicci del mondo. Una volta, per esempio, un suo discorso fece andare a male un partito, che essi tenevano già per vinto.

- Di grazia, si potrebbe sapere per chi lavori? - gli chiese con tono agrodolce uno dei capofila di sinistra, nello scendere le scale del palazzo Carignano.

- Perchè? - domandò a sua volta Ariberti.

- Perchè ci hai mandato a monte ogni cosa, mentre eravamo sicuri di vincere.

- Ho detto quel che pensavo e credevo essere il vero; - rispose Ariberti, facendo la cera brusca. - Del resto, se quattro ciance mie son bastate a farvi fuggire la vittoria di mano, gli è segno che non era quello il tempo e il modo di vincere.

- Sarà vero - disse quell'altro, fra due battute di labbra, - ma non è niente affatto politico.

- Non dico di no; - -disse di rimando Ariberti, stringendosi nelle spalle, col piglio di un uomo che vuol farla finita senz'altro.

La conversazione restò lì; ma il giorno dopo incominciarono gli attacchi e i morsi di tutta la canatteria d'ogni tinta e d'ogni misura. Del suo pelo ne volevano tutti e qualcheduno levava i pezzi a dirittura, accennando così di straforo a certe meditate transazioni col potere, ed anche a certi sorrisi onnipotenti dalla tribuna delle signore.

Le transazioni lo avevano fatto ridere, ma quell'accenno alla tribuna delle signore lo aveva seccato, dirò meglio, lo aveva ferito.

Incontanente, mandò i suoi padrini al giornalista. E vedete caso, il giornalista era Ferrero, l'antico compagno d'università, Ferrero, l'impotenza, Ferrero, l'invidia, Ferrero, il livore, e tutte le bieche passioni personificate in un nome e accoppiate sventuratamente ad una certa dose d'ingegno.

Imperocchè, non è mica vera quella consolante e larga dottrina, che fa dell'ingegno e del cuore due compagni inseparabili. C'è pur troppo anche l'ingegno associato alla malignità, forma civilizzata del male.

Il signor Ferrero, come già avrete argomentato da per voi, si chiuse, come in una botte di ferro, nei sacri diritti della critica, e rifiutò di scendere sul terreno, pour blanchir un nègre, come avrebbe detto, nel caso suo, il contino Candioli. Andò anzi più oltre; dopo aver rifiutato lo scontro, bandì un giudizio solenne, invocò il ragionato parere di tutta la stampa «schiettamente liberale», e tutti i confratelli, da Susa alla Lanterna, che erano i confini allora, gli diedero ampiamente ragione, lodando il coraggio civile con cui aveva tutelato i diritti della stampa.

Disgraziatamente, l'onorevole Ariberti non la pensava così. Non potendo metter la mano sul suo uomo, se la pigliò con un altro de' suoi giudici improvvisati, che aveva spinto il suo biasimo più oltre di tutti i colleghi. E questi, che era un gentiluomo, accettò la sfida, mettendosi in contraddizione colle proprie dottrine, ma d'accordo col suo animo generoso.

A confusione del signor Ferrero, che seguitava a sbraitare in nome dei sacrosanti diritti della stampa, il duello avvenne senz'altri indugi. Ariberti, nel corso della sua gioventù burrascosa, aveva dato e ricevuto più volte; e in quell'ultima le buscò lui, come volle la cieca fortuna, o come portava la giustizia, secondo i vari modi di vedere. Non gliene dolse, perchè così la pensava egli: fare il debito suo e non curarsi del resto.

Per altro, siccome coll'avversario regalatogli dal dio Caso non c'era nessuna ragione di rancore, Ariberti, dopo il duello, vide ed ebbe in lui un amico. Il quale, andato a fargli la sua visita di condoglianza, con quella dimestica schiettezza che deriva da un incontro d'armi nobilmente sostenuto, gli disse:

- Ariberti mio, ella non è stoffa da uomo politico.

- E perchè di grazia? - chiese Ariberti sorridendo.

- Perchè, - rispose il giornalista, - Ella ha troppo amore pel bello e pel vero, e non può trovare per conseguenza altrettanto gusto a diguazzare in questa bolgia infernale; perchè ci viene col suo entusiasmo di artista e non sa temperarlo colla freddezza del filosofo. Non vede? Ella si stizzisce per una celia, e poniamo anche per una offesa, a cui la stessa consuetudine, la sua stessa frequenza nel giornalismo, ha già tolto i due terzi della sua gravità. Giudicando dal caso nostro, io non vedo in Lei quel grado di tolleranza e di pacatezza, necessario in ogni uomo che abbia la nobile ambizione di governare il suo paese. A questo ufficio, per dirgliela proprio come sta, o come la penso io, ci vogliono uomini più pacifici, e non occorre che siano cime; anco i mediocri possono servire al bisogno. Alla fin fine, il tempo presente se ne contenta, e i posteri, che applicano cecamente il post hoc ergo propter hoc, veduto che coi mediocri s'è andati avanti come coi sommi, e qualche volta anche meglio, dànno liberalmente una vernice di grand'uomini a tutti.

- Quando non li dimenticano affatto; - soggiunse maliziosamente Ariberti. - Di grazia, saprebbe Ella dirmi, senza andarlo a cercare, quanti ministri abbia avuto Napoleone I? o, per non rifarsi così da lontano, e per non citare l'esempio di uomini soverchianti, la cui altezza getti troppa ombra intorno a sè, quanti ne ha avuti Luigi Filippo?

- Ha ragione - esclamò il giornalista, dopo alcuni istanti di pausa e ridendo della sua confusione; - correggo la frase, sopprimendo il giudizio dei posteri. Ma creda a me, il mondo non domanda cervelli sopraffini, a governarlo, e tutti gl'ignoti ministri di Luigi Filippo, a mazzo coi pochi che possiamo ricordare, confortano la mia tesi. Gente pacata vuol essere, e, se lo Stato è un carro, ringraziamo il cielo che ha fatto nascere i buoi.

- Veramente.... - interruppe Ariberti.

- Ah sì, capisco; - disse l'altro sollecito; - il paragone non regge. Non si nasce buoi, ma è vero altresì che non si nasce uomini politici. Bisogna, diventarlo. Ed è ella disposto a diventar uomo politico? Con questi esempi, a me pare di no. Scusi, sa; le parlo così alla libera, perchè le voglio bene e la rispetto moltissimo. È questa la franchezza che tengo in serbo per le occasioni solenni.

- E per un giornalista son così poche! - notò Ariberti, proseguendo la celia.

- Questo è un epigramma salato; - replicò il giornalista; - lo accetto di buon animo. Non siamo forse noi che ridiamo pei primi d'una impertinenza che ci è detta da un avversario, purchè ci sia detta bene? E veda, signor mio, questa è virtù che a lei manca, poichè non ama lasciarsi discutere. Dio buono, siamo a tempi in cui si discutono liberamente i ministri, in cui si riesce, con un po' di garbo, a fare un buco nella legge e a discutere il re, e, come se ciò non bastasse, si va ancora più su, molto più su senza bisogno di mongolfiera, e si discute... dell'altro. Ora è Lei, soltanto Lei, che non vuole adattarsi all'usanza.

- Converrà, - disse di rimando Ariberti, - che c'è modus in rebus, e che l'impertinenza...

- Non va tollerata. È questo che Ella vuol dire? Nella conversazione, a voce viva, ne convengo; ma nella stampa e in materia politica, la cosa cambia aspetto. Non diamo noi di briccone, o giù di lì, a certa gente cui facciamo poi tanto di cappello per via?

- Ammiro la sua schiettezza; - ripigliò Ariberti. - E forse Ella ha ragione a dire che, per questo lato, io non sono un uomo politico, o lo sono soltanto per metà, che torna lo stesso. Ma Lei che vede così giusto e sa riconoscere gli errori della professione, perchè si mette a mazzo cogli altri? -

Il giornalista stette un poco sovra pensiero.

- Ah, non risponde?

- Che vuole? Ho fiutato il complimento e la modestia mi ha fatto arrossire. Quanto alla risposta, essa è facile: disciplina di partito.

- Eh via! C'è egli forse chi comanda a loro? a loro che da mattina a sera, e spesso tra lo afferrar la penna e il tuffarla nel calamaio, sogliono prendere le più gravi deliberazioni del mondo? La disciplina suppone un comando intelligente e cortese quanto Lei vuole, ma pur sempre comando. Ora io non so acconciarmi a credere che qualcuno abbia potuto, con dolce violenza, costringere anche Lei a darmi quella tal ripassata che sa.

- È vero; lasciamo dunque la disciplina e diciamo invece la libera scelta; anzi no, la cattiva compagnia, il mal esempio. Anche questa, alle sue ore, è disciplina di partito; - aggiunse il giornalista con fine sorriso. - -I soldati non si dispongono forse in linea come possono meglio e aiutandosi colla coda dell'occhio? Ognuno dà una sbirciata al suo vicino di sinistra, vede quel ch'egli fa de' suoi piedi, e tira indietro, o mette avanti i suoi, non perdendo neppur d'occhio il suo vicino di destra. Anche noi, per tenerci in riga, vediamo quello che gli altri fanno, e c'industriamo di far meglio, o peggio, secondo i casi e gli umori... Insomma, signor Ariberti, io non la seguirò più oltre su questo terreno che scotta. Ella ha voluto rendermi in epigrammi la sciabolata che il caso mi ha consentito di darle. Ora, io sento, ai bruciori della pelle, che ci ho avuto il mio conto giusto, e se permette, piglio commiato.

- A rivederci, dunque, - disse l'onorevole Ariberti, stendendogli la mano. - Le do la sinistra; è quella del cuore.

- Adesso poi mi confonde; - replicò il giornalista, che sentiva davvero un po' di rimorso. - Al secondo gentiluomo che avrò la disgrazia di offendere, sappia, signor Ariberti, che io pagherò tutti i miei debiti in una volta.

- E mantenne la parola, o fu il caso che gliela fece mantenere, perchè un anno più tardi, trovatosi a un altro di que' frangenti, ne toccò lui una coi fiocchi, che gli rovinò a dirittura una mano.

- Già, - dissero i maligni, che le serbavano gelosamente ambedue, e la pancia pe' fichi, - tanto va la gatta al lardo, che ci lascia una zampa. -

Comunque fosse, caso pensato o no, il poveraccio passò nel numero degli invalidi. Brutta cosa per un giornalista, imperocchè, a sollievo di questi soldati del pensiero, non c'è pur troppo una Casa Real d'Asti.

Il duello dell'onorevole Ariberti aveva fatto tutto quel chiasso che era naturale facesse, trattandosi d'un deputato. Ne parlarono tutti i giornali, ognuno a modo suo, ci s'intende e la casa del ferito eroe fu assediata da visitatori, tempestata di lettere e carte da visita.

Una di queste gli diede molto da pensare, e aggiungerò che gli fece battere il cuore. Il nome appariva diligentemente raschiato col temperino; ma sopra quei segni parlanti della modestia, o del timore, si vedeva ancor una corona rialzata di tre fioroni in vista e di due punte sormontate da perle; corona di marchese, come vedete, anzi di marchesa, come bisognerebbe dire nel caso particolare. Infatti, quella cartellina doveva venirgli da una donna; lo diceva la necessità, o l'artifizio, di tenere il nome celato; lo diceva una fragranza di violette che spirava dalla sopraccarta; lo dicevano le poche parole vergate sul cartoncino di Bristol, con una mano di scritto, sottile, elegantissima, che non era sicuramente d'un uomo.

«Guarite presto; - diceva la cartellina misteriosa; - c'è chi lo desidera ardentemente e vuol rivedervi».

Rivederlo, dove? Probabilmente alla Camera.

E il pensiero di Ariberti corse ad una certa tribuna, dove, nelle occasioni solenni, si vedevano parecchie dame; e tutte, in apparenza, di alto bordo. Certo, la scrittrice del misterioso viglietto era una di quelle, e una voce arcana gli venìa bisbigliando che fosse per l'appunto una bellissima fra tutte, che egli aveva già veduta parecchie volte colà, e per la quale egli aveva sfoderata tutta la sua eloquenza, in quella medesima guisa che un attore sul palcoscenico sceglie tra tutte le gentili che lo ascoltano e lo ammirano, una dama, una sola, e per lei s'infiamma, per lei si commuove, per lei trova l'accento della verità, della passione, senza che ella lo sappia, o lo sospetti neppure.

Il lettore discreto ha già capito perchè l'onorevole Ariberti avesse perduto la pazienza all'attacco del giornalista e alle sue velate allusioni. E il lettore sullodato capirà eziandio che, lette a mala pena quelle poche parole nel viglietto profumato, il nostro Ariberti, sempre giovane, quantunque già da parecchio tempo trentenne, non vedesse l'ora e il minuto di abbandonare quel suo riposo forzato per recarsi alla Camera.

Si guarisce presto quando non si ha gran male, ed anche più presto quando si ha fretta di guarire. Anche i medici dell'antica scuola dànno una grande importanza alle buone disposizioni dell'animo nella cura delle malattie. La ferita del nostro onorevole non era anco cicatrizzata, che egli col suo braccio al collo, se ne andava alla Camera. La scusa ce l'aveva bell'e pronta. Si trattava appunto allora di un grave negozio, e il bene del paese doveva passare avanti ad ogni considerazione di salute. Non si era egli dato il caso di deputati che erano andati in portantina all'assemblea, per dare il loro voto in una quistione di rilievo? E perchè l'onorevole Ariberti avrebbe negato a quella discussione i fiume della sua eloquenza, colla magra scusa di una sciabolata, che gli aveva reciso un ramo d'arteria e un piccolo fascio di muscoli?

Quel giorno l'onorevole Ariberti improvvisò il più felice de' suoi discorsi. La sconosciuta ispiratrice della sua eloquenza assisteva alla seduta, e l'oratore ebbe lampi di vera grandezza oratoria. Non si poteva più argomentare perfidamente che egli avesse fatto una transazione col potere, perchè gliene disse di tutti i colori; e con ragione, essendo che il potere, nella quistione di cui si trattava, e in altre parecchie, aveva fatto spropositi da pigliar colle molle. Chi fa falla, si poteva rispondergli; ma egli avrebbe potuto replicare: chi non fa sfarfalla. Ora, che necessità c'era egli pel paese, che seguitasse a fallare la destra?

- Farete meglio voi! - gridò ironicamente una voce dalle file ministeriali, ad un certo punto del discorso di Ariberti.

Povera voce, capitata in mal punto! L'oratore afferrò l'interruzione in aria, e, come fa il giocatore che coglie il pallone di posta e ti fa una volata, schiccherò senz'ombra di sforzo un vero e compiuto programma di governo, che fece rompere in un plauso unanime e prolungato le tribune, con gran rabbia del presidente, che si affrettò ad ammonirle e a minacciare lo sgombero. Anche i colleghi applaudirono e gridarono bravo più volte; e non solamente colleghi di sinistra, ma (horresco referens) qualcheduno dell'estrema destra e del centro. Arcana potenza del vero, quando è detto bene! L'arca santa del governo se ne andava miseramente a rifascio.

Il ministero fu pronto alle difese; fu anzi troppo pronto. Meglio avrebbe fatto ad aspettare un giorno, per lasciare che sbollissero gli entusiasmi, e per aver tempo a raggranellare argomenti, o pretesti. Così di lancio, la risposta parve troppo infelice, e mostrò anche i lati deboli. Un fatto personale, a cui molto imprudentemente fu aizzato l'Ariberti, diede occasione a quest'ultimo di tornare all'assalto e di menare un colpo decisivo al nemico.

Fu una, giornata campale; per la sinistra, che riposò, come suol dirsi, sul campo di battaglia; per l'oratore, che di tanto in tanto aveva potuto dare una sbirciata alla tribuna diplomatica e veder la sua bella sconosciuta, che non perdeva una sillaba delle parole di lui.

L'onorevole Ariberti aveva ricevuto le congratulazioni e le strette di mano di tutti i suoi amici politici. Uno dei più caporioni, proprio quel tale che gli aveva dette le parole agrodolci riferite più sopra, gli si accostò nello scendere le scale del palazzo Carignano, e, ficcando con atto di gran degnazione il suo braccio sotto quello che il nostre Aratore aveva libero e sano, gli bisbigliò all'orecchio:

- Egregiamente! Il ministero è sconfitto. Ma tu avevi bisogno davvero d'esser toccato un pochino.

- Che cosa intendi di dire? - chiese Ariberti, voltandosi a mezzo e corrugando le ciglia.

- Ma sì! ma sì! - rispose quell'altro scuotendogli il braccio amichevolmente, per temperare l'effetto della osservazione; - come un cavallo generoso, a cui basta di sentire a mala pena lo sprone. -

Ariberti crollò sdegnosamente le spalle. E fu, come potete immaginarvi, un delitto di lesa maestà partigiana.

I fatti non tardarono a dimostrarglielo. Il ministero era caduto, sotto il peso d'una votazione solenne, provocata dal discorso di Ariberti e da un ordine del giorno dei soliti deputati che hanno la privativa di queste manifatture. Era dunque naturale che i capi del partito, invitati dal Re ad imbastire un nuovo ministero, dovessero far capo anche a lui e offrirgli un portafoglio, d'importanza non superiore alla sua gioventù, ma pur sempre dovuto a' suoi meriti ed al servizio reso in quella occasione. Così portava la consuetudine, così voleva la decenza. E difatti l'onorevole Ariberti fu cercato e pregato, ma fiaccamente, a fior di labbra, dai capiparte sullodati. Ci si vedeva chiaro che, se avessero potuto sgabellarsene, gli sarebbe parsa la man di Dio, a quei valentuomini.

Le pratiche durarono parecchi giorni, senza venire a conclusione. Questi voleva troppo, quegli niente; uno nicchiava, e l'altro pigliava tempo a pensarci; intanto i giornali del partito avversario dicevano roba da chiodi, accusavano la sinistra di aver fatto nascere una crisi senza aver senno e virtù di scongiurarla. I caporioni se ne mostravano dolentissimi; ma come fare? I portafogli più ragguardevoli potevano già considerarsi come accettati, ma a patto che il ministero riuscisse veramente omogeneo; il che voleva dire che i portafogli meno importanti fossero dati ad amici intimi di coloro che accettavano i principali. A lui, Ariberti, si sarebbe pure voluto dare il portafogli della pubblica istruzione: ma non lo si poteva, senza scontentare il ministro delle finanze, che si voleva a quel posto un amicissimo suo. C'era il portafoglio dell'agricoltura e del commercio, colla giunta della relativa industria; ma per quell'ufficio appariva già destinato un pezzo grosso, a cui non si poteva in coscienza dare altro ufficio, e che neppure si poteva lasciar fuori. Era una zucca al vento, ma aveva i quattrini a palate; e poi, in gioventù aveva stampato una monografia sui cocomeri e coltivato nei suoi poderi la canna di zucchero; laddove lui, Ariberti, non aveva piantato che qualche carota nel campo fertilissimo della stampa.

Infine non c'era verso di accozzare otto uomini di buona volontà, quantunque fosse da credere che tutti dovessero averne un desiderio stragrande. Allora il nostro Ariberti incominciò a mangiare la foglia e ad intendere che i suoi amici erano di gran fintacci. E perchè dal canto suo non aveva quella voglia spasimata di diventar un'eccellenza, che anzi il pensiero di un nuovo ed altissimo ufficio gli aveva già fatto venire la stanghetta al capo, si provò a supplicare i suoi nobili amici, che volessero lasciarlo in disparte. Essi per contro non si provarono nemmeno a sconsigliarlo per debito di cortesia, e colsero la sua rinunzia a volo. E allora il nuovo ministero, così difficile a farsi, uscì come per incanto dal limbo; il giorno dopo era annunziato sulla Gazzetta Ufficiale.

Il ministro fallito ebbe campo di meditare a sua posta sulla ingratitudine degli uomini in generale, e degli amici politici in particolare. Povera sua eloquenza, come l'avrebbe spesa male, se l'avesse spesa tutta pei loro begli occhi! Fortunatamente, come sappiamo, non era così; ma in fin dei conti, quei signori non ne sapevano nulla delle sue sorgenti d'ispirazione e dei suoi intenti romanzeschi, nè era lecito a loro di trattarlo in quel modo.

A fargli sentire maggiormente la botta, aiutava qualche noterella di giornale, in questa forma agrodolce:

«Alcuni giornali, per la smania di precorrere gli eventi e per dare il ministero composto, hanno raccolto la voce che un portafoglio fosse stato offerto a qualcheduno dei più giovani deputati dell'opposizione. Certo, se qualche discorso bastasse a meritare l'altissimo ufficio di governare il paese, i nostri confratelli avrebbero avuto ragione a presentare come una notizia certa le voci senza fondamento a cui alludiamo. Ma egli non è per fermo da questi lievi titoli che si desumono le ragioni della scelta di un ministro, bensì dai lunghi servizi resi alla causa della libertà e dalla autorità con essi acquistata nel paese. La composizione del nuovo gabinetto, che fu appunto difficile pel cozzo di tante voci premature, dimostra che noi eravamo ispirati ad un giusto sentimento delle necessità odierne, quando mettevamo in sull'avviso i lettori, contro queste voci di piazza, che si ripetono ad ogni crisi e fanno perdere un tempo prezioso, con grande soddisfazione dei nostri avversarii. Ma perdoniamo a questi ultimi; poverini! è l'unica che loro rimanga».

Oppure un'altra noterella, così concepita:

«Gli organi del ministero caduto fanno le meraviglie che non sia stato offerto un portafoglio all'on. nostro amico Ariberti. Questi giornali giudicano del partito nostro dalla pochezza d'uomini del loro. L'opposizione, sel sappiano, è forte, e ricca di preziosi elementi. Ma i portafogli non sono che nove, ed essa non ha potuto dare ai suoi avversarii la consolazione di vederli accrescere, per contentare ambizioni e vanità, che dopo tutto non allignano nel suo seno. E restringendoci a parlare dei nove eletti dalla fiducia sovrana, chi può dire non essere eglino per l'appunto coloro che avevano maggiori titoli all'alto incarico, come li hanno indubitabilmente alla gratitudine del paese?».

Il secondo articolo era meno scortese del primo, ma l'uno commentava l'altro, e venivano dalla medesima fonte ambedue.

Ariberti perdette la pazienza e commise l'errore di lagnarsi co' suoi nobili amici di questa scortesia che gli usavano i loro portavoce. Ma i nobili amici stettero alti con lui e se la cavarono con poche parole, donde traspariva il desiderio di non essere seccati per così piccola cosa. I nuovi ministri già avevano sentita la carica.

Allora il nostro deputato capì che non c'era a sperar nulla da loro, e, non potendo pigliarsela coi giornali, per non aguzzarsi il palo sulle ginocchia, si tirò in disparte, ad aspettare gli eventi. Del resto, non era lui che si ritirava, era il ministro che lo respingeva, e quella posizione lontana a cui dovette ridursi Ariberti può considerarsi come un effetto della spinta ricevuta. Il ministero, dal canto suo, liberatosi dal debito di gratitudine che aveva con lui, lo dimenticò facilmente. Ben altro aveva da fare in que' giorni. C'erano, verbigrazia, tanti nemici da accarezzare, che doveva parer naturale, se il nuovo gabinetto non trovava il tempo e il modo di indorare la pillola a qualche amico scontento.

Il lettore si annoierà a leggere queste cose, come io mi annoio a raccontarle. Ma egli ed io dobbiamo pure mandarle giù in santa pace. Questa è la storia; ed è storia altresì che il nuovo ministero durò a mala pena tre mesi. Composto di vanità, nato per dispetto, senza amici divoti, senza oratori di polso, senza nuovi concetti, non poteva certamente durare di più, e doveva far gioco ai suoi avversari, quantunque per tanti rispetti meno accettabili di lui.

Ariberti non lo sostenne, e fu peggio. È vero che lo avevano quasi respinto dal grembo della nuova chiesa, lasciandogli intendere che non era necessario. Ma in politica le vie di mezzo non servono; o stare ad ogni sbaraglio, e aver le pedate in conto di gentilezze, o romperla apertamente dicendo le sue brave ragioni. Ora egli non aveva saputo fare una cosa, nè l'altra. La indipendenza sua lo condusse due volte a votare insieme col partito sconfitto, e i caporioni di questo gli fecero qualche invito, a cui egli non rispose nè sì, nè no, restando «tra color che son sospesi». E quando i vecchi ministeriali tornarono al governo, rammentarono facilmente per colpa di chi erano caduti. Nè egli era uomo da offrire guarentigie di mutati propositi, nè essi eran uomini da domandargliene.

Così stette colle mani alla cintola, vegetando nel suo scanno «senza infamia e senza lodo». E poichè cito Dante per la seconda volta, ricorderò il caso di lui, che dovendo spartire tra inferno, purgatorio e paradiso, un certo numero di suoi conoscenti, si trovò poi con cinque o sei personaggi di minor conto, che non sapeva dove mettere, e te li lascio bravamente nel vestibolo, non senza averli bollati con due o tre versi roventi, che fanno ancora frizzar loro le carni.

Per Ariberti non era il caso; ma è certo cionondimeno che egli non apparteneva nè all'inferno, nè al paradiso, nè al purgatorio parlamentare, cioè a dire alla sinistra, alla destra ed al centro. Andava diventando un deputato sui generis e non al tutto per colpa sua.

- Che volete? - si diceva di lui. - È un originale, un cervello bislacco. Ingegno, sì, e molto; ma una superbia... una superbia! -

E, con queste caritatevoli invenzioni, gli facevano il vuoto dintorno. A furia di sentirselo a dire, finì col credersi anche lui un superbioso di tre cotte. Di tanto in tanto faceva un discorso, ma concludeva poco, perchè non serviva a nessuno. E lo aveva preso un tedio invincibile della vita parlamentare, come già di tante altre bellissime cose.

Tedio, moralità di tutte le favole umane!

 

 

 




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