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Anton Giulio Barrili
La notte del commendatore

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CAPITOLO XXI.

 

In cui si sciorina la teorica delle lune.

 

Così voleva e disvoleva, dubitava, credeva e tornava a dubitare, amando quella donna con una veemenza che sentiva del feroce. Gli amori in cui entrano i sensi per la massima parte, son tutti così. Lo spirito ci avverte di stare in guardia, e si affanna a trovar sempre nuove cagioni di sospetto, che disgraziatamente nessuna logica è più buona a distruggere; ma la bellezza ci attrae, c'involge, ci penetra fino al midollo, nè troviamo più modo di riaverci, di esser padroni di noi. Ed era così bella costei, con quella testolina briosa, quel collo di cigno, e quelle forme flessuose! La serpe lo aveva chiuso nelle sue spire ed egli ne sentiva il fascino; si dibatteva impaurito, e non avrebbe osato spiccarsene. Pure, non era mica la donna sognata da lui a mente libera, la donna amante ed austera, nella cui dignità potesse giurare e nel cui affetto fidarsi come in cosa di cielo. Dio immortale! Ma perchè si era egli abbattuto in costei? E innamorato pazzamente, sdegnoso e raumiliato ad un tempo, fremeva dentro di sè, non volendo confessare la sua debolezza, che pure gli traspariva dagli occhi.

Povero martire di sè medesimo! Io che non gli voglio un bene sviscerato e non lo adulo punto, come avete veduto, ma che mi curo di lui come il medico dell'ammalato, a cagione della malattia, lo compiango sinceramente e dal profondo dell'anima.

La tortura andava per verità un po' troppo in lungo. Il rivale gli era sempre tra' piedi. Inoltre, un nuovo dubbio si aggiungeva, per dar noia ad Ariberti. Giudicatene voi. Che il biondino si trovasse in tutte le feste a cui andava la marchesa Clementina, si capiva, perchè non erano molte e il bel mondo torinese non era così ricco di numero, da potersi rinnovare ogni volta, come l'uditorio di un teatro di Parigi o di Londra. E a proposito di teatri, era anche naturale che l'ufficialino si trovasse al Regio, in quelle sere che la marchesa di Rocca Vignale soleva essere nel suo palchetto. La cosa poteva piacer poco ad Ariberti, che doveva vederselo ogni volta da fianco, visitatore importuno, ma in quel fatto non c'era niente d'insolito, e il nostro geloso doveva portarselo in pazienza. Ma qualche volta la marchesa Clementina andava al D'Angennes, al Gerbino, o ad altro teatro di prosa, non pigliando norma che da un capriccio passeggero, o da un invito di Ariberti, che aveva l'arte di non farne mai un giorno prima. E andava col cuor contento, il nostro eroe, in quei teatri di second'ordine, perchè là, grazie al cielo, non li avrebbe seguiti quell'altro. Ma no; finiva il second'atto, e una mano traditora apriva discretamente l'usciolino del palco. Chi era? Lo indovinate alla prima; il biondino, sorridente, amabile, e carico per soprappiù di notizie del mondo elegante, che piacevano tanto alla marchesa Clementina; mentre lui, Ariberti, non ci aveva che i ragguagli della Camera, e la marchesa da qualche tempo non s'occupava più di politica.

Una, due, e andiamo là, fino a tre volte, pensò che quelle apparizioni fossero opera del caso. Per altre due o tre, immaginò che il giovinotto, non vedendo la marchesa al Regio, facesse la ronda in tutti gli altri teatri. Da ultimo sospettò che ci fosse un'intesa tra i due. Il proverbio gli diceva che a pensare il peggio ci s'indovina di sicuro. E allora soggiungeva tra sè: la donna è fatta così; di due uomini ne inganna sempre uno. Io sono il primo per ordine di tempo; di certo inganna me. Saranno scherzi, ammettiamolo; ma sono scherzi pericolosi. Ah, qui ci vuole un rimedio, e bisognerà giocare d'astuzia.

Ne aveva pensata una da maestro; ma era un poco grossa, e il nostro Ariberti, che amava il giuoco onesto, non poteva risolversi a mandarla ad effetto. Intanto, alla Camera si preparava una battaglia campale, ed egli ci si buttò a capo fitto, sperando di trovarci qualche giorno di oblio.

Il Ministero non si reggeva; troppi erano e compatti gli avversari; gli amici, parte disanimati, parte titubanti e si temeva che avessero a girare nel manico. Ariberti ebbe pietà degl'ingrati, e, colta l'occasione a volo, improvvisò un discorso, in cui versò a piene mani la passione, l'ironia, il sarcasmo, la veemenza, il calore ond'era tutto compreso. Rianimò i timidi, fulminò i traditori e gli ambigui, rinfacciò agli avversarî la loro politica fiacca e la loro amministrazione partigiana, opponendovi quella del ministero liberale, che non aveva dato un passo sulla via dell'arbitrio, che non aveva rimosso un pubblico ufficiale, anche sapendolo ligio ai suoi nemici e loro fido strumento nelle elezioni generali, bastandogli il conforto della sua coscienza, unico usbergo contro le male arti avversarie ed unica sicurtà che amasse dare delle sue intenzioni al paese. Efficacissimo nel dipingere i mali che l'amministrazione cessata aveva cagionati, fu semplice e schietto nello esporre quel po' di bene che il ministero s'era ingegnato di fare; virile nelle accuse, e femmineo nel movimento degli affetti, ebbe lampi di meravigliosa eloquenza nella sua perorazione, scosse l'assemblea, infiammò le tribune, e la maggioranza dei voti suggellò il suo trionfo nella vittoria del ministero, che ancora il giorno avanti si riteneva spacciato da tutti.

Per qualche giorno l'onorevole Ariberti tornò ad esser l'eroe del campo parlamentare. I ministri, che egli aveva così efficacemente sostenuti, sentirono l'obbligo di mostrarsi cortesi verso colui che poteva ben dirsi il loro salvatore. La gratitudine, si sa, non è la prima, nè la più coltivata, tra le virtù degli uomini, e segnatamente degli uomini politici. Ariberti non lo ignorava, egli che in un punto notevole del suo discorso si era anzi affrettato a chiarire la sua posizione di aiutatore spontaneo e senza secondi fini. «Io non sono (aveva detto) l'amico dei ministri; odio gli ingrati, odio gli immemori dei servigi che questi uomini hanno reso, in tempi difficili come i nostri, alla patria. Se fossero forti e sicuri del vostro voto, come lo sono della bontà della causa loro, tacerei, lasciando agli amici della ventura il gradevole ufficio di appoggiarli senza fatica; ma li vedo assaliti da una parte, mal difesi dall'altra, e sento rivoltarsi qua dentro la mia coscienza di uomo e di cittadino».

Queste parole, che avevano sapore «di forte agrume» e per gli avversari dichiarati e per gli amici tiepidi del ministero, non dovevano nemmeno riuscire troppo dolci per quest'ultimo. Sopratutto la frase «odio gli ingrati» era un'arma a due tagli, da cui i vecchi amici di Ariberti toccarono anch'essi la loro brava scalfittura. Donde la necessità riconosciuta di fargli carezze allora, e non solamente per lo aiuto inatteso che egli aveva recato, ma eziandio per quello che se ne potevano ancora ripromettere. E tutto questo egli faceva per bontà d'animo insigne, senza chieder nulla in compenso. Nessuna preghiera gli era stata fatta, nessun concerto era stato preso, nessun portafoglio offerto in extremis. Per dire la verità, non avrebbero neanche potuto farlo, senza aver l'aria di offrire a lui ciò che eglino stessi erano già in procinto di perdere.

- Ecco una buona pasta d'uomo; - dissero i ministri tra loro; - anzi una stupenda macchina da parole. Ci serve egregiamente per fulminare i nostri avversarii, e non ci domanda nulla per sè. Il meno che possiamo fare è di dargli un po' d'unto.

Perciò gli furono attorno a ringraziarlo, a fargli un subisso di proteste amorevoli; lo avevano sempre stimato un grande oratore; riconoscevano ora in lui un amico sincero; dicesse quel che voleva, consigliasse quel che credeva più acconcio; essi niente desideravano di più, che di seguire i suoi consigli, di fare il piacer suo in ogni cosa.

Ariberti parò modestamente quella raffica di complimenti, assaporò dietro di sè la sua gloria, ringraziò, promise che avrebbe fatto altrettanto alla prima occasione, e se ne andò, disprezzando un pochino di più i suoi vecchi amici in particolare e gli uomini in generale, ma con quel filosofico disprezzo, scevro d'ogni amarezza, che si concilia così bene colla soddisfazione interna dell'uomo ossequiato.

Quel giorno ed altri parecchi, il trionfo oratorio di Ariberti e la vittoria del ministero furono il tema di tutti i discorsi. Nel salotto della marchesa Clementina si andava a gara per inchinare il Demostene, il Marco Tullio redivivo. La signora evidentemente godeva di quelle incensate che si davano al suo onorevole amico, e per tutta una sera non ammise che si parlasse d'altro fuorchè di politica.

Così voleva la moda. Anche il cembalo tacque, e l'alunno di Marte dovette rassegnarsi a far la figura di un satellite di Giove.

Il trionfo di Ariberti era pieno; dopo gli evviva delle moltitudini, ci aveva ancora il sacrifizio in Campidoglio, e la vittima.

Quando la marchesa Clementina ebbe modo di trovarsi a quattr'occhi con lui, gli disse:

- Cattivo! Non dovrei volervi più bene. Come va che non mi avete avvertita che facevate un discorso?

- Vi giuro, Clementina, - rispose egli prontamente, - che non sapevo di dover parlare. Il desiderio ci era da qualche giorno, e le idee mi brulicavano in mente, non lo nego; ma quanto a risoluzioni, non ne avevo fatto nessuna, e preparativi anche meno.

- Sì, sì! - ripiglio la marchesa; - crediamolo Ora capisco perchè da un mese in qua eravate sempre così concentrato e senza parole. -

Questa osservazione della marchesa innocente per sè stessa, e tale in ogni altra occasione da non essere avvertita quasi, fu un colpo crudele pel cuore di Ariberti. Come? pensò egli: e può ancora ingannarsi in tal modo? non avere intese le ragioni che mi facevano soffrire? E da questo po' di fumo, che qualcheduno mi invidia di certo, io ci avrò dunque guadagnato ch'ella non penserà mai a levarsi quel noioso aspirante d'attorno?

L'aspirante, dopo quella sera, in cui era rimasto ecclissato, non si lasciò vedere per due o tre giorni. Ma ricomparve pur troppo, e fu festeggiato, e se non gli si domandò il perchè di quella lunga assenza, Ariberti potè argomentare che non occorresse davvero; essendo come sottinteso in quelle graziose accoglienze.

La marchesa fu per tutta la sera amabilissima coll'ufficiale; se per umanità verso un frequentatore della sua casa, che era stato assente più del consueto, o per capriccio donnesco, non importa cercare. Del resto, il giovinetto portava un rotolo di musica, fatta venire a bella posta da Vienna.

Cosa innocente, lo so. Inoltre, alla marchesa premeva molto, ed anche questo va da sè. Ma il nostro Ariberti in quella materia era stato licenziato dottore, ed intendeva benissimo e ricordava per propria esperienza che cosiffatti servizioli fanno parte di quella servitù galante, che, una volta accettata, porta obbligo di ricompensa. O perchè quella musica, di cui Clementina aveva tanto bisogno, non era stata chiesta a lui, o direttamente commessa al venditore? Innocente finchè si vuole; ma intanto, una cosa era certa, che quel servizio musicale non sarebbe stato profferto da una parte ed accettato dall'altra, quando Ariberti e la marchesa erano nella luna di miele. Imperocchè, bisogna riconoscerlo, anche l'amore ci ha le sue lune.

Queste malinconie gli stettero chiuse in petto per due o tre giorni; finalmente vennero fuori. Ed ebbe il torto a lasciarsele sfuggire, perchè la marchesa Clementina ne fece le più matte risa del mondo. - Oh bella! gli disse: v'intendete anche di musica! E quando mai mi avete portate le novità degli editori di Milano, di Parigi o di Vienna, perchè io potessi sapere che anche questo era affar vostro? Amico mio, non facciamo bambinerie; la cura di portarmi un quaderno di musica, o un giornale di mode, va lasciata a questi cavalierini senza importanza, che dopo tutto non saprebbero far altro. Voi, curate la vostra dignità d'uomo politico, e pensate a far dei discorsi alla Camera. -

Queste ragioni non persuadevano molto Ariberti, il quale, incocciato nella sua tesi, le sciorinò la teorica delle lune. Ed ella, non sapendo più che cosa rispondere, s'appigliò al comodo espediente di andare in collera. Per la prima volta furono dette da una parte e dall'altra delle parole pungenti; a lei venne il mal di capo; egli prese il cappello e la seduta fu sciolta senz'altro.

La sera, l'ufficialino doveva andare dalla marchesa per provare la musica. È naturale, quando la musica c'è, bisogna provarla. Ma quella sera la marchesa Clementina ci aveva i nervi e la musica dormì sul cembalo. La conversazione languiva, e il giovinotto, che era un compito cavaliere, dopo una mezz'ora di chiacchiere, in cui non aveva lasciato trapelare il menomo malumore, si accomiatò. Ariberti, che era presente, fu grato a lui della partenza, a lei del mal di nervi, che gli era parso simulato; per altro, quando vide che la signora stava grossa con lui, tornò a fare quello che aveva fatto nel giorno, ripigliò il cappello, e via, un'ora prima del solito.

- Evidentemente il torto è mio; - -pensava egli, scendendo le scale. - Il giovinotto è più gentile e più tranquillo di me, e Clementina non tralascerà di farne il raffronto a mio danno. A mio danno, capite? perchè io non ci ho il cuore in pace, come quell'altro. Non c'è che dire; le donne non amano gli innamorati per davvero. Li vogliono amanti, sì, ma riveduti, corretti e passati allo staccio della galanteria. -

E si adirava, così pensando, ma senza un costrutto al mondo. Romperla non voleva, piegarsi non sapeva; e frattanto si beccava il cervello. Ma da quel giorno incominciò a non veder più così brutti i consigli del tentatore, e ciò che prima gli sarebbe parso una viltà, venne a parergli uno stratagemma, degno di Annibale o di Giulio Cesare.

Il ministero ebbe il suo oratore per niente o quasi meno di niente. Figuratevi che a fare dell'onorevole Ariberti un ministeriale fradicio, bastò... mi vergogno a dirlo... bastò... insomma, poichè la debolezza è sua e la verità non si deve tacere, dirò chiaramente che bastò un cambiamento di guarnigione.

Infine, o che male c'era? Il leggiadro alunno di Marte non insidiava forse la sua pace? E non aveva forse veduto che il posto era preso? L'andava dunque da galeotto a marinaro. Quegli aveva scavato la mina, ed egli la contromina. Non si trattava adunque d'altro, che d'una astuzia di guerra. Almeno, il nostro eroe la gabellava per tale, forse per soffocare il rimorso.

Del resto, se è vero che è bene quel che riesce bene, nessuna cosa potrebbe dirsi migliore di quella perchè fu fatta con una prontezza singolare e non diede argomento a sospetti. E tuttavia Ariberti non aveva la coscienza tranquilla; di guisa che volle sentire l'opinione del suo amico Filippo, la cui rettitudine andava di pari passo colla umanità, nel senso antico, e dirò così, terenziano del vocabolo.

- -Male, - gli disse Filippo, appena ebbe udito il bel colpo del suo vecchio compagno; - tu hai commesso... scusami, sai?...

- -Oh, dillo pure liberamente, una viltà. Me lo aveva già detto la mia coscienza.

- Vedi? E il peggio si è, che ne commetterai delle altre.

- Oh, questo, poi...

- Sì, pur troppo, senza avvedertene e per avertene a pentire dopo il fatto. Perchè il male, amico mio, sta in questo, che ella non era donna per te, come tu forse non eri uomo per lei. Vi siete veduti e amati a occhio, senza conoscervi addentro l'un l'altro. Ora io penso che a questo modo possano incontrarsi benissimo le comete, ognuna delle quali ha poi da seguitare la sua strada, non due creature umane, che hanno da vivere insieme la bellezza di tante giornate, e, se Dio vuole, anche di tante olimpiadi. Siete troppo diversi d'indole e di consuetudini; io lo aveva già indovinato. Tu hai forse ragione a lagnarti di lei, che non si mostra austera come tu la vorresti; ma volta la carta, come dice il giuoco de' bambini, e vedrai che ella non ha tutti i torti, se pensa che tu non ti pieghi alle sue consuetudini e non ti fai abbastanza giovane per lei.

- Pur troppo non lo sono più! - disse Ariberti sospirando.

- Non è in questo senso, che io adoperavo il vocabolo. Dicevo che tu non hai voluto, o saputo, inchinarti alla sua misura, acconciarti alle sue abitudini. Amico mio, la donna e l'uomo non sono già due mulini che possano macinar sempre amore, per tutte le ventiquattro ore del giorno. I cuori, più particolarmente incaricati di questo gratissimo ufficio, hanno mestieri delle loro fermate; e i loro padroni, oltre il nutrirsi e il dormire, fanno altre cose parecchie nel mondo. Tu, per esempio, fai il deputato, ed essa fa la gran dama; tu hai l'ambizione, che è la vanità delle cose reputate grandi; essa la vanità, che è l'ambizione delle cose credute piccole. Dimmi su; oggi, dopo qualche anno di incontrastato possesso, sei tu forse quello dei primi giorni? Vivi al suo fianco, ti sente ella vicino a sè, dovunque ella vada e qualunque cosa ella faccia? Capisco che quello era un gittar via il tempo alla grande; ma infine, tu non lo perdi più, come prima.

- Sicuro! - notò con amarezza Ariberti. - C'è un altro che lo può perdere... se pure è vero che lo perda.

- Ma! che debbo dirtene io? Pur troppo la va così. La dama vorrà bene mettere a frutto le sue ore bruciate. E quando tu non fossi più... quel che sei, e fosse un altro, un successore, in tua vece, credi pure che gli accadrebbe lo stesso; e così via via ad altri parecchi, fino all'ultimo della discendenza, sotto il cui regno stracco se ne partano i grilli dal capo, e sottentrino altre cure, od altre debolezze. -

Al nostro geloso quella diagnosi amatoria piaceva poco, quantunque la sentisse in cuor suo profondamente vera. Tutta quella fila di successori gli dava maledettamente sui nervi, come a Macbeth la discendenza di Banquo, veduta attraverso lo specchio magico, nella caverna delle streghe.

- Parli per tua esperienza? - chiese egli, con accento da cui traspariva l'umor piccoso della bestia.

Filippo lo guardò un tratto nel mezzo degli occhi, come per sincerarsi se era lui che parlava, e se parlava da senno.

- Ecco una cattiveria; - diss'egli finalmente; - una delle male pieghe del tuo spirito.

- Eh via! L'hai presa sul serio? Ritiro la frase.

- Sta bene; ma sappi, a tua confusione, che le malattie morali, come le fisiche, io le studio sugli altri. -

Filippo aveva ragione. Il suo amico Ariberti, commessa quella prima viltà, ne fece altre ed altre in buon dato. Oramai sullo sdrucciolo c'era. Da principio gli parve di aver sospettato a torto, perchè la marchesa non si era punto turbata per quel fulmine a ciel sereno della partenza dell'artigliere. Ed anche questi era tranquillo, sereno, ilare, quasi; scherzava intorno al suo allontanamento da Torino, come avrebbe scherzato su d'una perdita al giuoco, che può dare un pochino di noia, ma che non deve offuscare lo spirito d'un gentiluomo. Gli rincresceva sicuramente della buona società a cui gli era mestieri di rinunziare; ma anche questo rammarico lo si vedeva cincischiato, lì, a fior di labbra, un po' per complimento, un po' per abitudine d'infilzar parole e tener vivo il discorso.

Così tranquillo, lui, quel vagheggino tutto vezzi, occhiate e sospiri! Ariberti non sapeva che pensare di tutta quella serenità; e ci fu un momento che gli passarono per la fantasia certi dubbi, di commedia, di tradimento, e che so io, donde la figura della marchesa Clementina gli usciva appannata non poco. Se non che, la simulazione si tradisce qualche volta, e l'umore dell'ufficialino, nei quindici giorni che rimase ancora a Torino, vedendo la marchesa coll'usata frequenza, non lasciò trasparire nessun mutamento. E allora i sospetti si dileguarono; Ariberti si persuase davvero di aver preso una cantonata.

Ma ohimè, come potete argomentare, i suoi mali non erano finiti; anzi, se debbo dirvela schietta, erano a mala pena incominciati. Rimosso il primo pericolo, ne sopravvenne un secondo. È nell'indole del secondo di venir sempre dopo il primo, come è in quella del primo di presupporre mai sempre un secondo. Ora, il secondo pericolo di Ariberti fu un celebre tenore, che faceva andare in visibilio la gente e stemperarsi per dolcezza infinita il sesso più debole. Non bastò che il tenore mandasse Clementina in broda di giuggiole col suo «A te, o cara, amor talora» dai lumi della ribalta; fu mestieri che, grazie all'esempio dato dalle più audaci regine dalla moda, il gentil Puritano andasse a ripetere i suoi prodigi un po' più da vicino, e proprio nel salotto della signora marchesa.

Come seppe di quell'invito, l'onorevole Ariberti perdette il lume degli occhi e fece uno sproposito. Vo' dire che le rimproverò l'ammissione del cantante in sua casa; e, poichè era avviato, non tacque il dispiacere che gli cagionavano tutti i farfalloni che ella riceveva di continuo, tutti gli adoratori che ella degnava di uno sguardo e via discorrendo, come coi chicchi del rosario. E avendo ella risposto tra l'altre cose che il bello è il bello e deve piacere a tutti, al nostro geloso gli venne sulle labbra il nome di certa imperatrice romana, che doveva aver detto, o pensato, qualcosa di simigliante.

Maledetta erudizione! Non hanno mica torto le donne a non volersi impacciare coi dotti.

La marchesa Clementina, che ci era cascata, rizzò a quelle parole la sua testolina di serpe, e con voce sibilante dallo sdegno, saettò sull'impertinente una frase, che sapeva un po' di francese, ma più ancora di pepe.

- Siete un miserabile. -

 

 

 




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