I DUE RAMARRI.
I.
Il signor Lorenzo Brunelli, egregio uomo,
cavaliere dalla testa ai piedi, e nei giorni di parata anche all'occhiello del
soprabito, aveva raccolti nella sua villa, in una certa settimana d'agosto,
otto o nove amici e compagni d'infanzia, tutti uomini in qualche modo eminenti,
nella letteratura e nell'arte, nella scienza, nell'amministrazione, e perfino
nella politica, ma tutti in paragone suo rimasti indietro nell'arte di
arricchire. Sapete pure: ci sono tante vie, nella vita; ma ce ne sono
pochissimo che conducano ad una miniera d'oro. Si parte tutti da un tronco
comune, quello della beata infanzia, del collegio, delle illusioni, delle
speranze, dei sogni, delle nebbie luminose, in mezzo a cui s'intravvedono belle
figure di donne amanti, liete compagnie di amici sinceri, e lauri e palme di
gloria sempiterna. - "Io farò questo, e tu? - Io quest'altro. -
Ottimamente! E lassù, all'ingresso del tempio di Mnemosine, o della Dea
Prenestina, ci riconosceremo, non è vero? - Si domanda? Non ci perderemo mai
d'occhio, ci aiuteremo, anzi ci faremo coraggio a vicenda nella faticosa salita.
- Avanti dunque, e fortuna!" - Con questo augurio sulle labbra, con questa
speranza nel cuore, si è andati, ognuno per la sua strada: questi legale,
quegli medico, quell'altro ingegnere, un quarto nell'esercito, un quinto nella
marineria, un sesto nelle poste, o nei telegrafi, un settimo negli impieghi, un
ottavo nel commercio, e chi più n'ha ne metta. Per un po' di tempo, ci si vede
ancora a punti di luna, e ci si segue con la lettera affettuosa, col telegramma
solenne, col pensiero ricordevole; ma poi, a mano a mano, allontanandosi ognuno
nella molteplicità dello vie, dei sentieri, dei tragetti e delle scorciatoie,
buona notte a lor signori! La vita nuova ci afferra, ci stringe, ci trasforma a
suo modo; dispersi per molti rami di operosità, prendiamo abito e colore
diverso, mutiamo tempra e pensiero; amori ed odî nuovi, gioie e dolori, fastidi
e malanni, grandezze e splendori (anche questi trovati così disformi dal sogno
antico!) ci trascinano, ci travolgono, ci confondono, povere carni lacerate,
poveri spiriti abbattuti; e bazza ancora se non ci sono ossa rotte ed anime
perdute! E dopo tanti anni, quando ci si rivede in due della bionda comitiva,
ma con qualche filo d'argento nei baffi e molta lacuna alle tempia, che fiotto
di sangue giovane alle porte del cuore! Che impeto di memorie al cervello! -
"Sei qua, eh? Vecchio amico dell'anima mia, come ha conciato anche te, il
maledetto calendario! E il tale, come sta? E il tal altro, che se n'è fatto?
Sai più nulla di Beppe? E Bista, e Meo?... E quell'altro.... aiutami a dire....
quell'altro, che sedeva in capo alla panca, un bruno, dagli occhi vivi, che
insegnava sempre il maneggio del fucile alle mosche? Diamine, ho il suo nome
qui sulla punta della lingua, e non mi riesce di cavarlo fuori! Povera memoria!
Ma già, con tant'acqua passata, come ricordarsi? -"
Quando ci si ritrova in due, è una
commozione; in tre una festa; in quattro una solennità; in cinque un giubileo.
E si parla di mille cose senz'ordine, evocando immagini e ricordi, trovando
figure dimenticate, profili sbiaditi, episodi tristi e lieti, paurosi e
ridicoli, che non si credeva più di avere tra i fondi di bottega. E allora vien
sempre l'idea a qualcheduno di raccogliere gli amici, i compagni d'infanzia,
quelli almeno del medesimo corso. - "Ah, se ci si ritrovasse un giorno
tutti quanti, alla medesima tavola, che bella cosa! Ma come? dove? quando?
Tutti li abbiamo, nell'anno, i nostri otto giorni; ma chi potrebbe
incaricarsene? Chi, sopra tutto, potrebbe farsi centro, aver memoria da
ricordarsene ad un certo momento, e modo di tirarci tutti ad un punto?"-
Lorenzo Brunelli lo aveva potuto. Era il
milionario della comitiva. È inutile alla mia storia il dire quante volte lo
fosse, ed è anche inutile alla storia generale, poichè l'amico nostro non lascerà
un nome ai cataloghi della posterità. Non si può essere ogni cosa, nel mondo, e
un uomo onesto deve contentarsi dei suoi milioni, quando non ha che quelli.
Infine, è un'aurea mediocrità, la sua, e può essere anche argomento di bella
invidia alle genti.
Gli amici suoi, per esempio, invidiavano a
Lorenzo Brunelli quello stupendo castello antico, così egregiamente restaurato
che non si distingueva il vecchio dal nuovo, dove egli passava i mesi caldi
dell'anno. Il luogo era abbastanza vicino alla strada ferrata, per raccogliere
con facilità ospiti d'ogni parte; abbastanza lontano dall'abitato, per dare ad
essi l'illusione del Medio Evo, senza prospettiva di pali telegrafici, di
macchine, di raffinerie, e d'altre novità, tanto utili quanto brutte a vedere. Il
castello del cavaliere Brunelli aveva i merli, come tutti i castelli che si
rispettano, ed anche le caditoie, le torri, i fossati, gli spaldi, il
battifredo, la corte a due piani, con due ordini di logge, i colonnini
accoppiati, le finestre bifore e trifore, il pozzo di marmo lavorato
stupendamente da un artista del Quattrocento, una leggenda terribile intorno a
quel pozzo, e una dama bianca, visibile in certe notti; ma non d'estate, per
solito.
Il cavaliere Lorenzo si lasciava invidiare, e
sorrideva con la sua beatitudine padronale agli ammiratori della sua piccola
reggia, quando essi gli dicevano che faceva male a non abitar tutto l'anno
lassù. Figurarsi! Partiti gli ospiti, anche il castello perdeva la miglior
parte della sua poesia. Si può egli intendere un castello senza ospiti? senza
trovatori e giullari, cavalieri e romei? Delle belle donne non si parla
neanche; son esse il fondamento di ogni convivenza civile.
Una gaia brigata d'uomini cortesi e la
presenza delle belle signore, ecco ciò che anima il quadro. Così ravviva, così
rallegra il teatro una scena coreografica, con isfoggio di colori, sotto il
barbaglio della luce elettrica, mentre tutto in giro fioriscono bellezze e
scintillano diamanti da più ordini di palchi. A spettacolo finito, la sala più
vasta e meglio ornata apparisce povera e fredda; il palcoscenico è brutto a
dirittura, nella sua nudità desolata.
Gli amici del cavalier Brunelli avevano
ammirato dentro; volevano anche ammirare di fuori. Là, dietro al castello, si
stendeva una gran macchia di cerri, che invitava alle passeggiate. Di là dai
cerri, lungo la falda del monte, erano gli avanzi di una strada romana, eterno
argomento di curiosità e di religiosa venerazione, anche quando non si ami
l'archeologia. Si parlava inoltre d'una fontana d'acqua freddissima, con un
borro capace, chiamato il lago della Fata, dai naturali del paese, e decorato
della rispettiva leggenda. Ringraziate il cielo che io non la ricordi più bene,
e che, tra tante altre leggende di fate e di fontane, io non mi raccapezzi
tanto da ricomporla nella mia testa, e da riferirvela qui.
La campagna era bella; stridevano le cicale
al sol d'agosto, cantavano i grilli tra l'erbe alte, ronzavano gl'insetti,
svolazzavano le farfalle attraverso i sentieri, tutto il bosco fremeva, nella
pienezza della vita. La comitiva era allegra: le corse e le fermate, i discorsi
e le risate, si armonizzavano alla vita del bosco, quasi per atto di obbedienza
istintiva alla teorica degli ambienti. Il professore di storia naturale (perchè
c'era anche quello, tra i nove) non aveva mai pace: a lui si volgevano tutti,
perchè dèsse un nome latino a tutte le felci e a tutte le varietà di borracina
incontrate lungo le prode, o il nome volgare agli esemplari di Rumex, di
Verbascum, di Vaccinium Myrtillus e di Vaccinium Vitis Idæa,
che attiravano via via lo sguardo delle dame.
- Romice; - risponderà il professore,
obbediente, - da rumex, lancia, per la figura delle foglie cuoriformi,
ristrette alla base. Questo, per altro, che ha le foglie bislunghe e chitarriformi,
è il Pulcher, detto comunemente Cavolaccio. Il Verbascum,
alterazione di Barbascum, dalla villosità delle sue foglie glauche, ha
qui la sua prima varietà, cioè il Verbascum Tapsus, chiamato volgarmente
Barabasco, Tasso Barbasso, ed anche Labbri d'asino. Il Vaccinium Myrtillus,
dalle foglie simili a quelle del mirto, è conosciuto comunemente sotto il nome
plurale di Baccole, Bagole, Baggiole, a cagione delle sue bacche nere,
mangerecce, in forma di chicchi d'uva, che sono ad autunno inoltrato quasi l'unico
cibo degli uccelli di passo. Il Vaccinium Vitis Idæa, che fa le bacche
rosse, si chiama Vigna d'orso. C'è altro?-
La signora Elisa, una bellissima bruna dalle
labbra vermiglie, che andava innanzi saltellando, appoggiata al suo lungo
bastone ferrato, come una Baccante al suo tirso frondoso, si fermò tutto ad un
tratto e mise un piccolo grido.
- Che è stato? - domandarono i vicini.
- Guardate là.
- Dove?
- Su quei sassi. Vedete quella testina che si
muove, con due occhietti luccicanti. Se fosse un aspide! una vipera!...
- Professore, a te! - disse il deputato di
centro destro, che accompagnava la signora, ed era il più galante della
brigata. - Dalla botanica passerai alla zoologia, serie dei vertebrati, classe
dei rettili.
- E ordine dei saurii; - rispose il
professore, dopo aver guardato a sua volta. - Quello non è un serpente, è un
ramarro, lacerta viridis.
- Sì, bravo, dàcci i connotati per fargli il
passaporto.
- Non ne ha bisogno, veramente, fuorchè per
l'Inghilterra e l'Irlanda, dove non è bestia di casa; - replicò il naturalista,
ridendo. - In tutti gli altri paesi d'Europa è conosciuto, ma più specialmente
in Italia, Francia, Spagna, Grecia, Turchia, ed anche lungo le coste
mediterranee dell'Africa. È assai sensitivo e patisce il freddo; gli piacciono
i luoghi soleggiati, dove la lucida sua pelle risplende di bei colori
metallici. Il colore generale di questa gentile lucertola è un verde intenso,
che nelle parti inferiori va smontando in tinte più pallide, o giallognole. Il
capo è talvolta minutamente sprizzato di nero, talvolta di giallo, e non di
rado predomina sul dorso una tinta azzurra.
- Qui ti soccorro io, professore; - entrò a
dire il poeta. - Nel commento dantesco del Buti si legge: "Il ramarro è un
serpentello verde, con quattro piedi, e ancora ne sono degli sprizzati, o di
color nero, ovvero bigio".
- Certamente; - rispose il naturalista. - Ci
sono parecchie varietà.
- Quello là è d'un bell'azzurro marino; -
disse la signora Elisa. - Pare che abbia indosso un mantello di velluto
operato.
- Effetto di riflessi; fors'anche è la livrea
d'amore; - rispose il naturalista. - Il ramarro vorrà piacere alla sua dama.
- È molto gentile; - osservò la signora. - Se
non fosse un rettile, vorrei vederlo più da Vicino..
- Potete accostarvi, signora; non c'è
pericolo che vi venga incontro. È un rettile innocuo, ed anzi utilissimo alla
campagna, per gl'insetti che distrugge.-
La signora Elisa, non più paurosa, si era
fatta avanti due o tre passi. Il ramarro era rimasto là, muovendo la testa e
ammiccando con gli occhietti lucidi; ma appena la signora accennò di voler
piegare dalla sua parte, guizzò via in un baleno.
- Eccovi illustrata dall'esempio una terzina
di Dante; - disse allora il naturalista. - Non è vero, poeta?
Come ramarro sotto la
gran fersa
Dei dì canicular,
cangiando siepe,
Folgore par, se la
via attraversa.
- Bellissimo, e come osservazione della
natura e come armonia imitativa; - rispose il poeta, assentendo. - Quell'ultimo
verso par proprio che ti sfugga di mano. Ah, divino Dante! Se io fossi
pittore!...
- Ebbene, se tu fossi pittore, che cosa
faresti?
- Cento, duecento quadretti, quanti ne
bisognassero per illustrare tutti i passi del poema, in cui Dante accenna ad
una scena di paese, ad un effetto di luce o d'ombra, a uno spettacolo della
natura, veduto certamente da lui e reso con quella sua magistrale esattezza di
osservazione, con quella sua proprietà singolare di vocaboli e con quella sua
evidenza di frase. In ogni tela, si capisce, vorrei esprimere il punto di
natura da lui colto in sull'atto, mettendo sempre lui, malinconico pellegrino,
a piedi o a cavallo, in un angolo, o nell'alto, o nel fondo del quadro.
- Permettimi di esser sincero; - disse l'uomo
politico. - I tuoi dugento quadri riescirebbero abbastanza monotoni.
- Non mi pare.
- Con quella eterna zimarra scarlatta, sfido
io a far altro!
- Ebbene, amico mio non politico, qui sta
l'inganno; - replicò il poeta, ostinandosi. - In primo luogo, non vedo come
possa riescire monotono il più vivace e il più allegro dei sette colori. Se è
Dante, quello che ti dà noia, non so che farci; ma il pretendere che una stessa
figura non può essere ripetuta in molti quadri senza ingenerar sazietà, sarebbe
come sostenere che debba venire in uggia la Venere Capitolina. Del resto,
senti: l'Alighieri è ritratto come il necessario testimone delle cose, dei
momenti di natura che tu rendi sulla tela, prendendone argomento dagli stessi
suoi versi. Cangiando il paese, la disposizione della scena, gli effetti di luce
e d'ombra, e insieme con essi gli atteggiamenti del personaggio, avrai subito
una sufficiente varietà di composizione. E dove metti quell'altra che deriva
dal soggetto, cioè dalla diversità delle cose osservate? Veder Dante col naso
in aria sotto la Garisenda, in Bologna, sarà molto diverso dal veder Dante che
s'inerpica sul masso di Bismantua; coglierlo malinconico viandante all'aer
bruno, profilato in massa scura sul fondo grigio del sentiero, sarà tutt'altra
cosa dal figurarlo rosso fiammeggiante al sol di luglio, mentre da siepe a
siepe gli passa davanti il ramarro, e magari facendogli adombrare il cavallo. A
questo modo vedi come ti favorisco! in un quadro solo illustreresti due passi
del poema.
- Capisco, capisco, - mormorò l'uomo
politico.
- Ah, bene, così! Ho dunque il tuo voto?
- Senti!... la mia approvazione, sì, ma il
voto è un'altra cosa; - rispose quegli, ridendo. - Bisogna sapere, prima di
tutto, quel che ne pensa il governo. Se il ramarro è ben veduto dal ministero,
posso anche fartelo entrare nella commissione generale dal bilancio.
- No, per carità! - gridò il poeta. - Egli
non sarà mai fuggito più svelto che in questa occasione.
- Quando si dice, - osservò l'avvocato, - che
il ramarro è l'amico dall'uomo!
- L'amico dell'uomo, il ramarro? - gridò il
giornalista. - Quando lo vedo, scappa, che pare abbia veduto un usciere.
- Pure, - insistè quell'altro, - c'è il
proverbio, che lo dice: le lézard est l'ami de l'homme.
- Caro mio, questo è proverbio francese.
- Che vuol dir ciò? Anche i francesi lo
avranno foggiato sull'esperienza; non lo avranno mica inventato!
- Eh, perché no? - disse il giornalista, che
era per l'alleanza nordica.
- Via, - entrò a diro la signora Elisa,
cercando di conciliare i due amici, - ragioniamola in questo modo: il ramarro è
l'amico dell'uomo.... in Francia. Vi torna?
- Poichè lo dite voi, signora, come no? -
rispose il giornalista. - Ma badate: se la cosa fosse così, sarebbe presto
venuta di moda anche in Italia.
- Allora, lasciamola lì! - disse la signora
ridendo. - Voi altri signori della penna....
- D'oca!
- Ebbene, sì, anche d'oca, ma temperata a
dovere; e ci avete sempre la risposta pronta per tutti i casi.
- Troppa bontà! - esclamò il giornalista
inchinandosi. - Il vero è che ne abbiamo cinque o sei preparate, e usiamo
questa o quella, secondo il bisogno.
- Signori, - diceva frattanto il poeta, - ci
fu un tempo che il ramarro era l'amico dell'uomo, e poi....
- E poi se no scordò! - conchiuse il maestro
di musica, sull'aria della Matilde di Chabran.
- Le prove? - domandò il naturalista.
- Tu chiedi troppo; - rispose il poeta.- Così
è, perchè così dev'essere stato. Non ci fu un tempo che l'uomo vivera in bella
armonia con ogni razza d'animali?
- Già! - disse il deputato. - Al tempo degli
amori degli angioli: /* Sul mattin
della vita era il creato; Belli di
nova luce apriano gli astri Le
festanti carole.... */ - Sicuramente; - riprese il poeta. - Ma per i ramarri
non è neppur necessario di rimontare così alto. Io stesso, per esperienza mia,
potrei raccontarvi un fatto....
- Senti! Ci ha una storia da raccontare, il
poeta!
- Perché no? Anche una storia.
- Con la sua morale in fine?
- No, perché non è una favola.
- E tu allora ce la darai, con un complimento
finale alle dame.
- Benissimo! benissimo! - gridarono le
signore.
- Il luogo è bello; par fatto a posta per una
conferenza.
- Accetto; - disse il poeta; - ma vorrei
mettere qualche piccola condizione.-
Erano giunti al lago della Fata. Le signore
andarono a sedersi in mezzo cerchio sulla falda del bosco, all'ombra dei faggi.
Accanto ad esse si adagiarono i cavalieri sull'erba.
- Prima di tutto, - continuò il poeta, -
vediamo l'ora.
- Sono le quattro; - disse il castellano,
guardando l'orologio.
- A che ora si pranza?
- Dopo le sei.
- Bene; allora c'è tempo.
- Come? - gridò l'uomo politico. - Hai da
parlarci di ramarri per due ore.
- O poco meno.
- È un orrore.
- E tu, quando parli alla Camera, per tutta
una seduta, di tariffe differenziali o di dazio consumo, credi forse di essere
più divertente?
- E tu parla per due ore di ramarri. Ti
avverto per altro che le parti non sono uguali tra noi. Quando parlo io alla
Camera, è permesso di far conversazione ed anche di andarsene a fumare una
spagnoletta. L'essenziale è che ascoltino gli stenografi.
- Onorevole, - disse la signora Elisa, - se
non si permette all'oratore d'incominciare, gli mancherà il tempo per finire la
sua storia, e noi rimarremo senza il complimento finale.
- M'inchino alla autorità presidenziale; -
rispose il deputato.
- E badate, signori, che desidero un grande,
un religioso silenzio; - riprese il poeta.
- L'avrai, tira via! - dissero gli amici.-
Il poeta si appoggiò ad un masso, che pareva
essere stato collocato lì a bella posta per servir da pulpito, e dopo un
istante di pausa incominciò.
- Signore e signori! Ero giovane....-
Scoppiò una risata, a quelle prime parole
d'esordio, e fece come la striscia di polvere, al cui capo si accosti la
fiamma. Rideva il deputato, rise il naturalista, rise l'avvocato, risero
l'ingegnere e l'archeologo; via, via, comunicandosi la scintilla, risero tutti
gli astanti, perfino il caposezione al ministero della guerra, uomo
cogitabondo, e l'ispettor generale delle gabelle, filosofo giobertiano, il cui
buon umore non era andato mai più in là del sorriso.
- Ebbene, che c'è da ridere? - chiese il
poeta, volgendo intorno sull'adunanza uno sguardo trasognato.
- Lasciatelo parlare; - disse il medico. - È
una frase come un'altra, tanto per attaccare: /* Era una notte (Così diede al narrar cominciamento Ibraimo di Gaza) era una notte, E per le vie di Solima deserte...., */ Son
versi tuoi, poeta; vedi che ho buona memoria, e rammento forse meglio di te il
tuo gran poema arabo Ismaele e Mirìam, che non giunse al sessantesimo
verso.
- Che vuoi? - replicò il poeta, niente
lusingato da quella evocazione. - Mi sono avveduto in tempo di averne fatto
cinquantanove più del bisogno. Ma questa volta, se Dio vuole, e se voi
smetterete di ridere, sarà un poema in prosa.
- Racconta dunque, ed incomincia pure con la
medesima frase; promettiamo di non ridere.
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